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Stuck (2007): una grottesca storia vera

“Stuck” in inglese sta per bloccato, incastrato o più in
generale, nei guai. Un titolo semplice, ma perfetto per il film di oggi,
benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Above and beyond!

Come abbiamo visto nel corso della rubrica, Stuart Gordon ha
saputo distinguersi da tanti altri Masters
of Horror,
non solo perché ha adattato il suo linguaggio ai tempi
moderni (mantenendolo, comunque, estremamente coerente con la sua poetica), ma anche
perché il buon vecchio Stuardo il cinema, è andato a cercarselo ovunque fosse
disponibile. A partire dalle storiche collaborazioni con la Full Moon Pictures
di Charles Band fino ad arrivare al primo ideale capitolo della sua “Trilogia
dell’orrore quotidiano” (il nome me lo sono inventato, non credo che prenderà
mai davvero piede), iniziata con l’Asylum e King of the ants e continuata con Edmond.
Il terzo capitolo, quello conclusivo, perché non produrlo allora con la
collaborazione della storica Amicus?

La Amicus Entertainment era un po’ la rivale della Hammer, specializzata (ovviamente) in
horror, ma spesso con connotazioni morali, l’orrore che arriva a punire i
cattivi come in un fumetto della EC Comics, non è un caso che il film ispirato
alla leggendaria serie antologica a fumetti, “The Vault of Horror”, sia
diventato un film nel 1973 proprio prodotto dalla Amicus.

“Anche noi siamo amicus ah-ah”

Quando la casa di produzione ha tentato un rilancio nei
primi anni 2000, Stuart Gordon era già lì pronto a dirigere, perché il regista
di Chicago è sempre stato uno con pochi grilli nella testa e tanta voglia di
farli per davvero i film. Anche se, a ben guardarlo, per certi versi “Stuck”
rientra nel filone di cui parlavano poco tempo fa nel post dedicato ad Oxygène: piccole storie con protagonisti
incastrati (“stuck”, appunto) in una situazione di caccapupù in cui rischiano
la vita. Possiamo dire tranquillamente che anche il buon vecchio Stuart si è
esibito in questa specialità, come sempre con il suo inimitabile tocco, per un
film che, forse, non è nemmeno etichettabile come horror nel senso più stretto
del termine, anche se parla di orrore quotidiano e della banalità del male, un
soggetto talmente assurdo che non poteva che essere tratto da una storia vera
(storia vera, ehm scusate, non ho resistito).

Nel 2001, l’infermiera in una casa di riposto del Texas
(Chante Jawan Mallard) guidando per strada con il cervello bollito da alcool e
sostanze stupefacenti, investì il senzatetto Gregory Biggs, un povero diavolo afflitto da
una sfiga incredibile perché non solo Biggs sfondò il parabrezza dell’auto di
testa, ma vi rimase incastrato con metà corpo all’interno dell’abitacolo e
l’altra metà fuori, sul cofano. Invece di guidare (in queste condizioni ben più
che disagevoli) verso il più vicino ospedale, Chante Jawan Mallard pensò bene
di rifugiarsi a casa, lasciando l’auto (e Biggs) parcheggiata in garage per un
tempo non ben definito dagli inquirenti. Con l’aiuto di due amici la donna
pensò solo giorni più tardi di disfarsi del cadavere dell’uomo, che non era
morto per le ferite subite, ma per un colpo in testa inferto. La giustizia ha
fatto per lo meno il suo corso? Più o meno, visto che Chante Jawan Mallard è
stata beccata solo perché mesi dopo ad una festa, evidentemente dopo averne
bevute più di un paio, si è vantata delle sue gesta, finendo processata e
condannata a 50 anni di carcere e qui posso dirlo perché ci sta, storia vera.

In questi casi di solito si dice: un cinghiale mi ha attraversato la strada.

Quante volte avete riso leggendo questo breve riassunto?
Quante volte siete inorriditi? Sono pronto a scommettere in numero pari, perché
la storia sembra una di quelle che potevano essere pubblicate sui giornalacci
da cui l’agente K cercava
informazioni per i suoi casi, ma riassume tutto l’orrore e il grottesco che
chiamiamo vita, quello che Stuart Gordon ha sempre saputo rappresentare così
bene nel suo cinema, infatti solo lui poteva portare al cinema questa storia
(vera), utilizzando proprio il cinema per renderla ancora più grottesca o per
alleviarne alcuni passaggi, senza tirar via la mano su sangue e sofferenze in
altri. Insomma, di tanti film horror che mentono spudoratamente millantando di
essere tratti da storie vere (e sono davvero tanti a farlo), Gordon gioca a
carte scoperte e quando utilizza il cinema per mentire, lo fa solo a fin di
bene, per i suoi personaggi almeno, non di certo per noi spettatori che dalla
banalità del male veniamo… Non voglio dire investiti, mi sembra indelicato.

Spesso dimentichiamo che fare il regista non vuol dire solo
pensare alle inquadrature, ma anche dirigere gli attori, Gordon con la sua lunga
gavetta teatrale lo ha sempre saputo fare molto bene, infatti questo
microscopico film ruota intorno a due protagonisti, due attori di contorno e
sua moglie, Carolyn Purdy-Gordon nel ruolo della datrice di lavoro
dell’infermiera, che nel film prende il nome di Brandi Boski ed è interpretata
da Mena Suvari, al secondo film con Gordon dopo Edmond, anche se qui ha una parte ben più consistente.

“Hai già lavorato con il regista?”, “Sono sua moglie, fai un po’ te”

Brandi è ad un passo da far fare un salto di qualità alla
sua vita, nell’ospizio dove lavora c’è odore di promozione che per lei, vorrebbe
dire un ruolo da responsabile. Gordon ci mette un attimo a farci capire che la
vita di un’infermiera in una casa di riposo è tutto tranne che pesche e crema,
tra anziani da pulire il regista ci offre subito le motivazioni per capire un
po’ meglio gli insani gesti che la donna compirà nel corso della storia. Questo
modo, quasi subliminale, di dare informazioni allo spettatore Gordon lo
domina alla grande, ad esempio in questo film Mena Suvari, resa celebre dal
ruolo di Lolita della porta accanto in “American Beauty” (1999), sembra tutto
tranne che la fidanzatina d’America, il fatto che reciti con le treccine sulla
testa denota una certa apertura nei confronti della parte “nera” del Paese,
anche se lo dico sempre, noi bianchi le treccine dovremmo proprio scordarcele.

“Cosa vuoi dire Cassidy? Non ti piacciono le mie treccine?”

Nella fattispecie, quella parte è rappresentata da Rashid
(Russell Hornsby) il fidanzato di Brandi, aderente allo stereotipo dello
spacciatore “Gangsta Rap” con i ganci giusti e le mani in pasta, anche se
l’unica “pasta” che gli vediamo maneggiare è la pastiglia che fa ingoiare alla
ragazza in discoteca, dove sono tutti impegnati a festeggiare la
quasi-prossima-promozione.

Per un personaggio che ha avuto una bella giornata, ne
arriva un altro che, invece, sta vedendo la sua vita andare giù lungo lo scarico,
si tratta di Thomas “Tom” Bardo, interpretato da Stephen Rea, come al solito
bravissimo. Un ex
ingegnere che ha perso il posto di lavoro e punta tutto sul suo colloquio delle
13.00 per rimettersi in piedi, anche se finirà incastrato (ah-ah) tra le
pastoie della burocrazia, tre ore di inutile attesa per colpa di qualche
burocrate e tutto rimandato a data da destinarsi. Senza un posto dove andare
Tom s’improvvisa senzatetto nel parco, un uomo invisibile a cui un altro,
regala per pietà un carrello in cui mettere dentro i resti della sua vita,
almeno fino all’incontro (scontro) con l’auto di Brandi.

“Neil Jordan dove sei, vieni a salvarmi”

Da qui in poi Gordon segue gli eventi come accaduti nella
realtà, ma vitaminizzandoli con il cinema, il suo cinema. Ecco quindi che in
questa storia grottesca, che parla di banalità del male, fa capolino l’orrore e
l’umorismo in parti uguali, quindi Brandi durante un amplesso con il ragazzo,
urla ricordando il momento dell’incidente e Rashid si convince che sia tutto
merito della sua prestazione amorosa e via così fino alla fine, perché “Stuck”
abbraccia un tipo di umorismo ovviamente nerissimo, lo stesso che vi ha portato
a sorridere un paio di volte lassù, mentre leggevate la storia di quella
svegliona di Chante Jawan Mallard, ma anche l’empatia e l’orrore provato per il
destino dello sfortunato Gregory Biggs.

Nel teatro dell’orrore quotidiano, fatto di scelte
discutibili e momenti grotteschi, le pose da grande criminale in grado di far
sparire cadaveri come ridere di Rashid si rivelano essere solo chiacchiere da
letto e il film di Gordon procede alla grande su due piani: da una parte
facciamo il tifo per Tom, incolpevole e mosso solo dalla volontà di
sopravvivere, dall’altra si resta in tensione quando il tassista quasi scopre
l’orrendo segreto contenuto nel garage di Brandi, anche se vorremmo vederla
punita per le sue azioni, proprio come in un fumetto della EC Comics (o in un
film della Amicus).

“Siri chiama l’ambulanza… Siri! Siri! Siri se ti metto le mani addosso…”

Stuart Gordon dai suoi attori tira fuori delle prove
maiuscole, ovviamente diventa più facile patteggiare per Tom che risulta
essere un uomo costantemente invisibile agli occhi della società, incastrato
prima dal destino, poi dalla burocrazia e per finire da un parabrezza, con un
tergicristallo piantato nel costato a rendere ancora più doloroso il suo
martirio.

Già, perché Gordon non tira via la mano quando si tratta di
mostrare dettagli macabri, ogni piccolo spostamento per Tom è un traguardo da
conquistare con sangue e dolore, la sua condizione di invisibile sembra
irreversibile, chi sente le sue grida d’aiuto per un motivo o per l’altro non
può testimoniare o intervenire per salvarlo, persino una pallotta di pelo come
un Volpino Pomerania si accanisce sulle sue carni. L’ultimo degli ultimi,
ignorato dal 911 e dalla società, trovo simbolico che Tom finisce a sistemarsi
la gamba alla bene e meglio, usando i sacchi neri per la monnezza, come se
fosse un rifiuto da gettar via.

Stuart Gordon con “Stuck” non fa mancare nemmeno qualche
stoccata politica, non solo la società (e l’umanità) non ne esce benissimo da
questo racconto, il bersaglio resta chi prova a farla franca dopo averla
fatta davvero sporca (Rashid ad un certo punto dice: «Guarda chi sta alla Casa
Bianca» in base all’anno d’uscita del film, potete capire chi sia il bersaglio),
ma è nel finale che la trama, sceneggiata a quattro mani da Gordon insieme a John Strysik, fa
intervenire il cinema come unico deus ex
machina
in soccorso del protagonista, un finale che, per certi versi,
potrebbe quasi ricordare una storia alla Stephen King, anche se Gordon potrebbe
essere l’unico maestro del cinema Horror a non essersi mai esibito in un
adattamento Kinghiano, perché il cuore di Gordon batte sempre per H.P.
Lovecraft, anche in questo film.

“Capisco che le foto possano sembrare ripetitive, ma quello incastrato qui sono io!”

Già perché “Stuck”, senza che quest’informazione cambi
nulla di significativo nella storia, attraverso un dialogo ci dice che è
ambientato a Providence,
dimostrazione che il nostro Stuardo troppo lontano dal suo Lovecraft non sapeva
proprio starci, anche quando raccontava un tipo di orrore diverso da quello
cosmico con cui tutta la sua carriera è iniziata, ma non per questo meno spaventoso, quello della quotidiana banalità
del male che sta dentro ognuno di noi. Anche voi che sghignazzate per un povero
Cristo incastrato in un parabrezza.

Malgrado lo sforzo di andare a cercare il cinema ovunque
fosse, con qualunque casa di produzione, “Stuck” è un bellissimo film che come al
solito è stato ignorato (credo che qui da noi in uno strambo Paese a forma di
scarpa sia uscito solo in DVD), che ha rappresentato anche l’ultima sortita
cinematografica di Stuart Gordon, perché purtroppo i registi muoiono due volte,
quando sopraggiunge la loro dipartita fisica e quando artisticamente
scompaiono. Ma prima di lasciare andare Stuart abbiamo ancora una settimana, ci
rivediamo qui tra sette giorni per i saluti finali, non mancate.

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