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Succession (2018 – 2023): il piccolo schermo ha bisogno di eroi (ma non saranno i Roy)

Ho bellamente ignorato “Succession” fino all’inizio della quarta stagione, anzi meglio, finché non sono rimasto senza più nessuna nuova serie da vedere, a quel punto, senza sapere nulla della sua trama, mi sono lanciato.
A parte qualche commento entusiasta che non ho volutamente approfondito, non sapevo nulla di storia e cast, va detto che mi sono triturato le prime tre stagioni in un tempo ridicolmente breve, più per capire dove volesse andare a parare questa serie con tante tematiche di mio interesse, che per vero coinvolgimento emotivo, quello dal mio lato ha sempre un po’ latitano. Anche se devo ammetterlo, l’ultima stagione è stata un’agonia, dover aspettare la nuova puntata settimanale, dopo l’episodio 4×03 è stato un tormento, perché andiamo, parliamo solo della puntata con l’apice emotivo più alto anche per me, che ho seguito la serie in un limbo tra distacco e interesse, un consiglio? Ora che la trama è conclusa, potete vederla per intero, non fate il mio errore, risparmiatevi almeno questo patema.
Creata da Jesse Armstrong con lo zampino di Adam McKay tra le fila dei produttori, “Succession” è una serie basata essenzialmente su dialoghi, ottime interpretazioni e una selezione di attrici e attori impeccabili, che racconta delle vicende della famiglia Roy, composta dal capo famiglia, dal padre, padrone e tiranno Logan (Brian Cox che non incuteva così paura nemmeno quando interpretava il primo Hannibal, anche se si chiamava Lector) e i suoi, ufficialmente quattro figli, ma uno ovvero Connor (Alan Ruck), è talmente di rara inutilità da essere presente, ma fuori dai giochi.
Non si scherza con il capo (famiglia)
I Roy controllano la Waystar-Royco, uno dei più grandi conglomerati di media e intrattenimento del mondo, di fatto sono quelli che controllano l’informazione, quindi beh, tutto. Chi diventa presidente, il flusso delle notizie, ogni cosa che conta, sono la famiglia reale dietro alle famiglie reali e in quanto tali, in lotta per la successione del titolo, visto che il capo famiglia, ormai non sta bene e come i re del passato, con la salute perde un po’ della sua l’influenza, anche se Logan Roy non ha la minima intenzione di lasciare il trono a chi lo vorrebbe di più, ovvero il nuovo aspirante re Kendall Roy, interpretato da Jeremy Strong che porta tutto il metodo di cui un attore di metodo è capace nella sua parte.
«Sono un attore di metodo e non ho nessuna paura di dimostrarlo, io vi avviso!»
Il passato con le sostanze di Kendall e il fatto che il padre lo tratti come qualcosa che si è spiaccicato sul suo parabrezza non aiutano, anche perché a loro modo, tutti i figli ambiscono al ruolo, compreso Roman Roy (Kieran Culkin, fenomeno come al solito), che dietro le battutacce a sfondo sessuale nasconde un rapporto, diciamo bizzarro con il sesso, ammantato da quella sua aura da “Sono come un ladro al brico, frega una se…” (cit.), che serve a mascherare la costante di tutti i discepoli Roy, il desiderio di succedere ok (come da titolo della serie), ma anche di essere amati e rispetti dal genitore, missione impossibile per molti figli su questa verde Terra, figuriamoci per quelli di un orco come Logan Roy.
Una volta era noto solo per essere il fratello di quell’altro, quindi conosce bene la sensazione.
Ultima, ma non per questo meno importante, Shiv Roy, vi ricordate quanto era brava Sarah Snook? Qui si supera, a destra, in curva, di notte, con i fari spenti e facendosi anche i gestacci da sola, migliore in campo nella gara della bravura. Una che avrebbe tutto per succedere e comandare, tranne il pene, proprio per questo deve stare sempre un passo indietro al povero inetto che forse ama, forse non ama, di sicuro si porta appresso, ovvero Tom (Matthew Macfadyen).
La trama si complica, tanto quanto il linguaggio, perché Jesse Armstrong sceglie di non raccontarci quasi mai i suoi personaggi in situazioni normali, ma sempre durante la riunione del Board, in contatto telefonico con il CEO, mentre fanno il punto del business plan e tutte quelle altre parole che usano sempre i miei colleghi, con la differenza che i Roy ne conoscono e ne comprendono il significato.
 
Ad esempio, uno dei personaggi chiave è il potenziale acquirente Lukas Matsson, fatto a forma dello svedesone prezzemolone Alexander Skarsgård, risultato? “Succession” è il nuovo gioco del trono, non a caso anche questo firmato HBO, con pochi culi, nessun drago, tanti attori e attrici davvero bravi e una collezione di recensioni positive che lèvati, ma lèvati proprio.
 
Ciao, sono l’immagine inserita nel post per le lettrici della Bara.
 
Riflettevo guardando questa serie, che ormai l’intrattenimento medio per il pubblico si attesta su serie tv (il formato più in voga) tanto parlate, in modo che il pubblico distratto, possa seguire la trama anche mentre “spimpola” sul cellulare. “Succession” è scritto alla grande, sa scavare nei personaggi attraverso tanti e lunghi drammi da interni, che riescono nell’impresa (a volte anche per tratti di episodio medio lunghi) di farti appassionare a personaggi per cui beh, provare pena in teoria sarebbe impossibile, schifo se volete, ma pena?
Eppure questa serie, versione aggiornata all’anno 2023 di “Dallas”, più della nuova incarnazione di “Dallas” ufficiale, ha un solo grande problema per me: ne ho frequentata fin troppo di gente così per affezionarmi davvero a CEO o aspiranti tali. Ecco perché “Succession” si muove sempre in una fascia emotiva che va dal ladro al Brico e arriva a volte a punti di “Datemi la nuova puntata è nessuno si farà male”.
Non si può criticare nulla alle prestazioni del cast o alla qualità della scrittura (anche se molti personaggio, smettono di contare ai fini della trama anche troppo presto, come succede in azienda insomma), ma visto che il pianeta si è lanciato in lodi sperticate per questa serie, posso dire che il coinvolgimento per me è stato altalenante. Per inchiodati davvero allo schermo, “Succession” ha bisogno di alzare il volume ad undici, come l’amplificatore degli Spinal Tap (la già citata puntata 4×03, che resta costruita alla grande per patema e tensioni), ma per il resto del tempo si attesta su operatori che muovono la macchina da presa, in stile proto documentaristico, se più The Shield o più “The Office”, lo lascio decidere a voi.
 
La migliore, no sul serio, la migliore, non si batte.
 
Dalla tradizione HBO questa serie, pesca dai grandi drammi in seno alla famiglia della fin troppo sottovalutata Six Feet Under, anche se sono volati paragoni (anche troppo alti secondo me) con la parte più nota della produzione HBO, la sensazione? Onda emotiva del momento, dettata anche da un vuoto di potere al vertice, come la successione al trono di Re Roy. 
Ci sono uno tsunami di serie in circolazione, ma quante davvero meritevoli? Ecco perché i Roy, con il loro stile nel vestire (già imitato da chi ha un conto in banca che può permettersi tali capi) è la serie del momento, fenomeno di costume, la cui sigla è già popolarissima persino a chi non ha mai sentito parlare della serie.
Insomma i Roy sono già assorti al ruolo di eroi che salveranno il picco schermo, quando invece come hanno dimostrato, sono talmente scombinati emotivamente da non poter salvare nemmeno loro stessi. Perché ammettiamolo, la serie riesce ad essere così realistica, che il suo andamento non è impossibile da intuire (lo stesso della enormi aziende a conduzione familiare), ma è il come tutto questo viene raccontato ad essere davvero valido. Ecco, magari non al livello degli entusiasmo che leggo soprattutto da parte di parecchie penne stipendiati, ma di testa più che di pancia, a questa serie si può criticare ben poco.
 
Aggiungi un posto a tavola, che sta per arrivarti un cazziatone in più.
 
Problema mio? Forse, se devo scegliere se appassionarmi alle vicende di una famiglia di stronzi, criminali e influentissimi, mi tengo stretti i Dutton. Tra i Cowboy e i CEO non ho mai un dubbio nella vita, perché i vaccari non hanno paura di sporcarsi, gli altri? Sembrano predestinati, anche dalla critica di settore ad essere “Too big to fail”, citando un altro con la passione per i cappelli a tesa larga, insofferente alle grandi multinazionali.
 
Probabilmente voi troverete più coinvolgimento emotivo di me in tutto questo, ma se quello che cercate sono solidissima scrittura, interpretazioni impeccabili e dialoghi lunghi e articolati, vi presento la potenziale vostra prossima serie del cuore, ma per valutarla come merita, lasciamo che Padre Tempo (non Roy) faccia il suo corso, di suo Armstrong è stato bravo a fermarsi al momento giusto, chissà se ha chiesto consiglio al Board prima di farlo?
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