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Sugarland Express (1974): cinquant’anni e ancora corre come un bambino

Ormai dovreste saperlo che ogni scusa per me è validissima per trattare ancora un po’ il cinema di Steven Spielberg, il calendario mi serve su un piatto d’argento i primi cinquant’anni di “Sugarland Express”, che è il titolo del regista di Cincinnati che non viene ricordato mai, incastrato tra il suo micidiale esordio Duel e il film che ha cambiato per sempre la prospettiva del cinema di Hollywood.

Anche se è necessaria una doverosa premessa, Duel era un film per la televisione talmente riuscito, da guadagnarsi l’uscita nei cinema, mentre “Sugarland Express” è stato da sempre pensato come un soggetto per il grande schermo, quindi a voler essere puntigliosi questo è il film d’esordio di un regista destinato a cambiare per sempre la settima arte, una trama tratta da beh, Storia Vera.

Zio Steven che si prepara a dirigere un inseguimento, tanto per cambiare.

Nel 1969 Steven Spielberg si vide rifiutare dalla Universal il suo soggetto – considerato fin troppo deprimente – ispirato agli eventi accaduti in Texas il 2 maggio dello stesso anno, ovvero il sequestro dell’agente di polizia James Kenneth Crone, da parte dei coniugi Robert Dent e la moglie Ila Fae, in fuga a bordo dell’auto dell’agente, intenzionati a riprendersi i figli tolti loro dagli assistenti sociali, finirono la loro corsa sei ore dopo nella comunità di Wheelock, ma non senza aver dato modo ad una carovana di oltre centocinquanta auto cariche di curiosi, di formarsi lungo il percorso, una brutta storia trasformata in clamoroso evento mediatico.

Tre anni dopo, Spielberg conobbe il produttore Jennings Lang che interessato al soggetto lo affidò ai giovani sceneggiatori Hal Barwood e Matthew Robbins, che in tredici giorni, cambiando nomi ai personaggi e destinazione, l’immaginaria Sugarland del titolo definitivo, sfornarono un copione che arrivò nelle mani del produttore Richard D. Zanuck, vice presidente esecutivo della Warner Bros. Con cui Spielberg poté avanzare qualche richiesta, come quella di rendere centrale il punto di vista femminile nella storia, oltre ad intestardirsi sull’attrice giusta per il ruolo di Lou Jean Poplin, che per il regista di Cincinnati poteva essere solo Goldie Hawn.

Fate spazio alla First Lady onoraria della Bara: Goldie Hawn.

Goldie Hawn!? Ma chi? La bionda svampita della trasmissione Rowan & Martin’s Laugh-In della NBC? Essù fai il bravo Steven, ma secondo te quella può recitare un ruolo del genere? Spielberg ne era certo, convinto che l’impegno profuso da Goldie Hawn nei suoi ruoli comici, fosse chiaro segnale di talento. Sta di fatto che l’attrice, in cerca di un ruolo per scrollarsi di dosso l’etichetta di bella bionda senza cervello accettò una paga più bassa mettendo il ruolo in cassaforte, ora bisognava solo metterle attorno un marito e il poliziotto a cui i due fuggiaschi rubano pistola e automobile, prendendolo come ostaggio.

«Tranquillo amico, mi odiano da tutta la carriera, poi ci si abitua»

Anche qui Spielberg dimostrò di avere le idee chiare, per la parte di Clovis Poplin e dell’agente Maxwell Slide il regista voleva due attori somiglianti, per suggerire allo spettatore che a differenziare i due ragazzi, ci siano state solo un paio di scelte differenti nella loro vita, un po’ come se uno fosse lo specchio dell’altro nella gamma di possibilità. I due candidati ideali si rivelarono essere l’esordiente William Atherton per il ruolo di Clovis e Michael Sacks per la parte dell’agente Slide, ed io trovo altamente geniale il fatto che Spielberg, abbia scelto proprio Atherton come bersaglio dell’attenzione, in una storia in cui giornalisti e burocrati fanno degenerare la situazione, proprio lui che nel Natale del 1988 ha messo nei guai Holly al palazzo della Nakatomi e che per un cavillo, ha liberato i fantasmi su tutta New York.

«Ti tireri un pugno», «Ci penserà la signora McClane a farlo, tranquilla»

Oltre ai nomi dei personaggi, il film si prende alcune libertà o meglio, si prende la libertà di rendere più cinematografico un fatto di cronaca durato sei ore, che nella finzione diventa una fuga, anzi un inseguimento di due giorni, per un regista che di inseguimenti al cinema è sempre stato profeta e specialista. In Texas non esiste nessuna Sugarland, al massimo una Sugar Land, ma vuoi mettere quanto sa di cinema far puntare i tuoi personaggi verso una terra promessa dal nome zuccheroso tipico della libertà? Ed è chiaro che al primo film scritto, pensato e distribuito al cinema, Spielberg avesse già le idee chiarissime sui suoi temi, la sua poetica e ammettiamolo, anche il suo buon gusto cinematografico nei riferimenti cinematografici giusti.

Il cervello di un cinefilo è sempre in movimento, a quelli come voi e me i neuroni suggeriscono sempre di cercare la vita nel cinema e il cinema nella vita, perché Spielberg era così interessato agli eventi del 2 maggio del 1969 laggiù nel Texas? Le sue parole lo spiegano bene: «Mi piaceva l’idea di persone che si radunano davanti a un evento mediatico, senza sapere chi siano i personaggi o di cosa si tratti, ma solo sostenendoli… questo accende un bel po’ di buon vecchio sentimentalismo americano», mentre nella testa del regista di Cincinnati ad accendersi era il paragone tra i fatti reali e la trama di un bel film di Billy Wilder come L’asso nella manica, una montatura giornalista costruita ad arte da un reporter con il pelo sullo stomaco, attorno ad un uomo intrappolato in una caverna. L’occasione perfetta per mettere in chiaro quanto nel 1974 negli Stati Uniti, gli americani confondessero facilmente la fama (non per forza solo quella buona) con la celebrità, che poi è la dimostrazione che in “Sugarland Express” magari non ci saranno i cellulari e le dirette sui Social-Cosi, ma la società occidentale da questo punto di vista non è migliorata poi molto, anzi.

‘Cause we got a little ‘ole convoy rockin’ through the night (cit.)

A proposito di buon gusto cinematografico e riferimenti di pregio, grazie alla scelta della Panaflex, una cinepresa leggera e silenziosa da poco sviluppata dalla Panavision, Spielberg poté sbizzarrirsi, inventando un movimento di macchina da presa che ormai è convenzione della settima arte, visto che “Sugarland Express” contiene la prima carrellata dal sedile anteriore a quello posteriore e la prima panoramica di 360 gradi all’interno di un’auto nella storia del cinema, oltre alla prima apparizione, all’interno della filmografia del regista di Cincinnati, di una tecnica presa in prestito da Alfred Hitchcock e dal suo La donna che visse due volte (chiamata appunto “effetto Vertigo”), ovvero zoom avanti e carrello indietro, qui lo vediamo in azione quando il cecchino punta l’auto dei protagonisti, poco dopo Spielberg l’avrebbe utilizzata ancora per una scena appena appena famosina, un certo primo piano su Roy Scheider che potreste aver visto da qualche parte in vita vostra.

Che schifo l’occhio per le inquadrature di Spielberg eh?

In “Sugarland Express” ci sono belle scene di inseguimento, quando si tratta di asfalto e gomme Spielberg non è secondo a nessuno, inoltre dal punto di vista estetico è un film molto bello (la scena dei due poliziotti affiancati in auto al tramonto che cantano via radio, quanto fa film Western? Grande zio Steven!), anche grazie alla fotografia di un Maestro come Vilmos Zsigmond, al primo dei due film che avrebbe diretto in carriera con il regista. Invece a proposito di collaboratori, in linea di massima l’autore della colonna sonora potreste averlo sentito associato al nome di Spielberg giusto un paio di volte, non è tanto famoso, un attimo che controllo, si tratta di tale Williams John, beh dai, sentito di peggio in vita mia.

Ma più che i riferimenti, i collaboratori e gli inseguimenti, a mettere in chiaro quando “Sugarland Express” sia stato l’esordio di un bipede diverso dagli altri della sua specie, sta nella tematica di fondo. Il piano di Spielberg di rendere centrale il personaggio di Lou Jean Poplin oggi, alla luce di The Fabelmans è palese, nel 1974 lo era un po’ meno, ma lo sarebbe diventato sempre un po’ di più ad ogni nuova magia del regista che sul tema della famiglia (e della sua disgregazione) ha fatto della terapia, utilizzano la sua arte per superare il trauma della separazione dei suoi genitori, in cui Spielberg ha inizialmente visto come responsabile sua madre e questo ci porta alla Lou Jean impersonata da Goldie Hawn, una donna-bambina in una storia in cui i protagonisti vogliono riprendersi proprio il loro figlio, perché ehi, avete mai sentito parlare di un film di Spielberg dove il punto di vista dei bambini non fosse fondamentale? Appunto, al suo esordio con “Sugarland Express” aveva già chiarissimo in testa tutto questo.

«Sono qui per organizzare un’evasione»

Ecco perché tutta la trama è raccontata in questo modo, una famiglia che le tenta tutte per non disgregarsi, aggrappandosi ad un punto di vista infantile su tutta la faccenda, perché a loro modo i protagonisti sono proprio questo, la prima tornata di “bimbi sperduti” Spielberghiani. Si capisce fin dall’inizio del film, i primi fatidici cinque minuti che determinano il ritmo di ogni pellicola, Clovis non si trova nemmeno in un vero carcere, ma un grosso recinto, un parco giochi per detenuti in attesa di rilascio, nessuno scappa da un posto così mettendosi nei guai con la legge, perché tanto sono solo gli ultimi minuti prima delle fine ufficiale della pena. Quando Lou Jean arriva con la notizia dell’assistenza che si è portata via i loro bambino, Baby Lexton (i nomi fanno subito “Hazzard”) anche uno dei carcerati cerca di convincerli che è un’idea idiota mettersi nei casini e scappare a questo punto, in tutta risposta Lou Jean lo bacia per distrarlo, come una bimba senza argomenti per ribattere ma solo tanta voglia di dare il via alla grande fuga.

Un piano strampalato, malgrado Lou Jean lo “venda” al compagno come studiato nei minimi dettagli (see lallero!), tanto che al primo intoppo va già tutto storto, i due anziani che danno loro un passaggio guidano una vecchia carretta ed è qui che Clovis prende in mano la situazione (si fa per dire), anche se la coppia in fuga diventa quasi un trio, con l’arrivo del giovane agente Maxwell Slide, uno che imbranato quasi quanto i protagonisti, finisce per farsi rubare pistola e automobile e a fare da ostaggi, si ma alla pari, in questo sbilenco piano ordito da due bambini per salvarne un altro.

Titoli di testa per caricarsi prima della lunga fuga.

Per essere il regista da sempre “accusato” di aver reso il cinema fin troppo infantile, in “Sugarland Express” si vedono tutti i legami di Spielberg con la New Hollywood, a partire dal tema di fondo, quello che i nostri cugini yankee chiamano “Road Movie”, la ribellione giovanile corre su gomma dal seminale “Easy Rider” (1969) fino ad arrivare a titoli come il bellissimo Strada a doppia corsia di Monte Hellman, ma se gli adolescenti a zonzo dell’amico George Lucas ritratti in American graffiti vagavano senza meta, Lou Jean e Clovis puntano ad un obbiettivo, la risposta facile ad un problema complesso (insomma, una soluzione da “fase magica” tipica dell’infanzia) che rappresenta una corsa disperata per tenere insieme dei valori, come quelli della famiglia in disgregazione, che per Spielberg è sempre un tema caro e sentito.

In questo senso “Sugarland Express” non va etichettato e archiviato come la cronaca di un inseguimento, ma il tentativo anche un po’ disperato di questi due la cui età anagrafica con conta, il tempo passato in prigione è un’adolescenza negata perché il sistema non lì ha educati, ma solo marchiati a vita come reietti. Per questo la coppia rifiuta l’idea stessa di non essere più una famiglia, come a lungo ha fatto Spielberg davanti al divorzio dei suoi genitori, la loro unica soluzione è una ribellione, la volontà di riprendersi Baby Lexton e tornare ad essere una famiglia, che fa venire a galla tutte le idiosincrasie della società “adulta” o presunta tale.

«Stai tranquillo, ti farò recitare l’unica parte della tua vita per cui non ti odieranno tutti»

Mentre la corsa prosegue, Spielberg è abilissimo a farci patteggiare sempre di più per i fuggiaschi, che sembrano regredire con l’aumentare dei chilometri percorsi, mentre lungo il percorso il regista con piccoli tocchi mette in chiaro la purezza d’animo dei suoi personaggi, anche con piccole pennellate, come quando ci mostra Baby Lexton che passa dall’essere felice a disperato e in lacrime quando gli tolgono il cucciolo di bassotto dalle braccia, giusto per sottolineare il dramma della separazione, o ancora meglio utilizzando una delle sue solite e prodigiose ellissi narrative Lou Jean chiude la porta del bagno nella stazione di servizio e di colpo vediamo aprirsi quella della casa famiglia dove si trova il neonato, come a sottolineare che ogni minuto perso è un’occasione in meno per il nucleo familiare di riunirsi.

Dimmi che sei un film di Spielberg senza dirmi che sei un film di Spielberg.

Lungo il percorso la gioventù emerge, lo stesso agente Slide sembra quando il terzo componente di questa banda di bimbi sperduti, e sapete cosa ci vuole per sottolineare il completamento della regressione alla fase infantile di questi protagonisti che in realtà non sono mai cresciuti? Una bella “Spielberg Face”, che arriva quando si rifugiano dove? In un parcheggio ovviamente in prossimità di un cinema all’aperto, da dietro il finestrino del camper dove sono nascosti, possono guardare un cartone animato di Willy il coyote (guarda caso uno sfortunato per natura, autore di piani spesso tutti matti e sempre in corsa per inseguire… Diavolo di uno Spielberg!), con Lou Jean che ride mentre Clovis “doppia” il film facendo i rumori con la bocca. Puro Spielberg gente, puro Spielberg!

Una scena che rende omaggio alla potenza del cinema? In un film di Spielberg!? Chi lo avrebbe mai detto.

Se i protagonisti sono bimbi sperduti, attorno a loro possono solo esserci adulti per certi versi anche meno responsabili, la coppia di cacciatori che scatena un inferno di proiettili solo per il gusto della taglia e della caccia, così come il capitano Tanner sulle loro tracce, interpretato da un granitico Ben Johnson, uno che all’apice di una scena in cui i cecchini con i loro grilletti roventi, si confrontano sulla capacità di tiro delle loro armi (Freud avrebbe avuto qualcosa da dire sulla questione) e non vedono l’ora di poter sparare, si sentono dire da Tanner un bel no, in diciotto anni non ho mai nemmeno tirato fuori la pistola dalla fondina, non inizierà certo oggi sparando a quei due. Il fatto che gli sparatori-compulsivi poi, commentino con un bel «E se ne vanta pure» riassume la cultura delle armi negli Stati Uniti meglio di un paio di documentari sull’argomento.

Spielberg fa la sua cosa, non nella casa, ma la fa molto bene lo stesso.

Allo stesso modo la scena della parata, con i nostri due irresponsabili fuggitivi che ricevono i regali più improbabili dalla folle (mi sono sempre chiesto che fine abbia fatto il maialino), un perfetto modo per descrivere una società in cui quello che conta è essere famosi, in vista, la differenza che intercorre tra la fama, non necessariamente buona, e la celebrità riassunta alla grande e fatta emergere dal piano assurdo di due bambini troppo cresciuti, che fanno venire a galla tutti i punti deboli del mondo degli adulti.

Alla sua uscita “Sugarland Express” ha collezionato ottime recensioni, ma il suo stesso regista ha dichiarato che le avrebbe volentieri barattate tutte in cambio di più pubblico. Ecco perché ancora oggi si parla poco di questo bel film, ai tempi portò a casa il doppio dei soldi spesi, ma comunque pochi per le aspettative dei produttori che incolparono la scelta di Goldie Hawn, secondo loro il pubblico la voleva svampita e simpatica, tutte menate, la sua prova è impeccabile, piuttosto, temendo la concorrenza di titoli come L’esorcista, l’uscita del film di Spielberg è stata fatta strillare, oltre che massacrata da una pessima pubblicità.

L’impatto sulla cultura popolare in una scena.

Eppure Padre Tempo, il miglior critico cinematografico del mondo, ha dato ragione a Spielberg, oggi è chiaro che “Sugarland Express” contenesse già tutti i semi del cinema del regista di Cincinnati, anche per questo io questo compleanno non potevo perderlo per nessuna ragione al mondo, quindi auguri!

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