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Talk Radio (1988): coi sassi e coi cazzotti per un po’ restate rotti, ma le parole lasciano il segno, per sempre

Mi chiedo chi sia la lettrice o il lettore medio di questa Bara, chi ha davvero voglia di sentire la mia voce mentre legge nella propria testa? Insomma scopriamolo, io sono pronti, avanti aprite il fuoco perché oggi tocca al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.

In ogni filmografia esiste un titolo, che è quello che fa pendere l’ago in una direzione nuova, il film che ti colpisce e che poi dopo, scopri essere diretto da quello che aveva già firmato un altro paio di capolavori che incidentalmente, sono i tuoi film preferiti, il classico Avventure di un uomo invisibile, se volessimo utilizzare la filmografia del solito Carpenter come esempio. Ma ci sono anche titoli che all’interno delle filmografie di cui fanno parte, sono delle bombe atomiche puntualmente ignorate, perché se volessimo fare l’esempio di Coppola, si cita sempre Il Padrino o “Apocalypse Now” e mai quella meraviglia de “La conversazione” (a breve su queste Bare).

Ecco, “Talk Radio” per me è tutto questo, scoperto durante una replica televisiva in seconda serata secoli fa, pensavo fosse la versione seria di “Airheads – Una band da lanciare” (1994) forse per via del personaggio che qui interpreta Michael “Più grande cattivo degli anni ‘90” Wincott. Quello che ricordo è che da quella replica, io non potevo staccare gli occhi di dosso, un film tesissimo, pieno di azione anche se di fatto, ruota – letteralmente – intorno ad uno in una stazione radio, in una stanza da solo a parlare. L’ho amato da subito “Talk Radio”, quando i titoli di coda mi hanno conferma essere di Oliver Stone, sapevo che avevo trovato un gioiello e uno dei miei registi preferiti di sempre, ancora oggi, se mi chiedono quale sia il mio film preferito di Stone, di testa, ragionando, vi do una risposta, ma di pancia, di getto, dico “Talk Radio” e non mi pento mai nella vita, anche perché siamo davanti ad un Classido!

Nessuno parla mai di “Talk Radio”, perché? Facile, non ha fatto soldi, lo stesso Stone nella sua autobiografia “Cercando la luce” (2020, edita da la nave di Teseo) lo cita frettolosamente per passare ad altro. Il film non ha incassato, ma d’altra parte chi vorrebbe andare al cinema a vedere le vicende di un personaggio, che utilizza la sua dialettica superiore per ricordare all’umanità quanto fa schifo, mentre lui stesso si comporta in modo ipocrita, eppure è proprio questo il bello di “Talk Radio”, quell’onestà brutale, quella costante ricerca della verità che è il Nord magnetico nel cinema di Stone, qui è ben presente, anche se girare il film, non è stato una passeggiata.

Alla base, una storia vera, la morte del conduttore radiofonico Alan Berg, ucciso da alcuni militanti del KKK raccontato nel libro “Talked to Death: The Life and Murder of Alan Berg” di Stephen Singular, adattato come opera teatrale ed interpretato, da solo in palcoscenico da Eric Bogosian, che teneva moltissimo a questa storia e dopo aver recitato in un film di Larry Cohen nel 1984, voleva farne una versione cinematografica all’altezza del contenuto esplosivo della storia e del suo talento, trovando in Oliver Stone il migliore dei dinamitardi possibili, in arrivo per voi la doverosa parentesi su Oliviero.

«Qui è il vostro amichevole Barry in diretta dalla Bara Volante per mettere in chiaro al mondo che se nel corso degli anni vi siete sentiti offesi da Cassidy, lui a mio confronto è un’educanda»

Con Salvador il regista aveva stretto le mani attorno alla gola della vergognosa politica estera del suo Paese, con Platoon aveva raccontato la verità sulla sporca guerra del Vietnam, con Wall Street aveva messo in chiaro che esistono criminali anche peggiori, vestono costosi completi firmati e decidono della vita e delle finanze di tutti, ma prima di firmare un altro capolavoro anti-militarista e giustamente incazzato che arriverà su questa Bara la prossima settimana (non vedo l’ora), così, per riposarsi, Stone si è lanciato sulla storia del DJ radiofonico in guerra con il mondo, che dal suo microfono urla l’unica verità che nessuno vuole sentirsi dire: l’umanità fa schifo.

Una cosetta eh? Il capolavoro “defaticante” che spunta tra i suoi film più famosi, premiati e riusciti, che non ha nulla in meno rispetto ai suoi colleghi, se non la colpa di non aver fatto soldi al botteghino, anche perché Stone ha accettato di scrivere e dirigere il film per tenersi la testa e le mani occupate, sua moglie Elizabeth aveva perso il loro secondo genito, un lutto che rendeva l’atmosfera a casa Stone e l’umore del regista nero, il tipo di nero in cui uno come Barry Champlain sguazza, nuotando a dorso.

Ora sapete dove il Dottor Cox ha imparato tutti gli insulti che riservava a J.D. li ha imparati da Barry Champlain.

Da una parte abbiamo in regista e sceneggiatore, con un lutto sul fondo della testa e notoriamente etichettato come uno bello sanguigno, per approccio alla vita, al cinema e ai temi trattati, dall’altra Eric Bogosian, peperino intenzionato a brillare nei panni di un personaggio controverso come Barry Champlain, risultato? Clima appena appena un po’ teso nel set di Dallas, un vecchio magazzino abbandonato arredato per passare per una credibilissima stazione radio Texana, quella da cui Barry tutte le sere va in diretta con il suo “Voci nella notte”, un programma che lo vede parlare a ruota libera degli argomenti più controversi, dall’aborto, alle droghe fino all’Olocausto, portando avanti la sua posizione di ebreo, con una notevole favella, un cervello affilato e una capacità di argomentazione che va di pari passo con la sua volontà di demolire il suo interlocutore, il più delle volte dei soggettoni mica da ridere che rappresentano il meglio che l’umana razza ha da offrire.

Quanto tesa la situazione in questo piccolo set? Tanto che Alec Baldwin, uno che avrebbe il pedigree per ambire al ruolo di protagonista, qui si limita alla parte dell’agente di Barry, il contatto con i vertici del canale radiofonico, uno dei pochi volti noti del film che dopo questa esperienza ha dichiarato: io lavorare con Stone? Mai più, mai più, aggressivo, sempre incazzato, un generale sul campo, mai più, mai! Per nostra fortuna i suoi fratelli non sono stati dello stesso avviso, molti di loro torneranno a trovarci nel corso di questa rubrica a tema.

«Se questa rubrica è troppo calda per te Alec, la prossima volta limitati a scriverle e stai fuori dalla cucina, la possiamo portare avanti con i tuoi fratellini»

“Talk Radio” ha una manciata di attori, due personaggi femminili speculari, che sembrano una la versione futura dell’altra, l’attuale fidanzata e collaboratrice di Barry ovvero Laura (Leslie Hope) e l’ex moglie che ci è già passata Ellen (Ellen Greene), è proprio questo senso di ripetibilità dell’umana volontà di continuare a sbagliare sempre nello stesso modo, fa da filo conduttore ad un film quasi circolare nel suo andamento.

I flashback ci mostrano come Barry, sia passato dal suo lavoro di sarto in un negozio di abiti maschili a DJ radiofonico sboccato e provocatore (una sorta di Howard Stern ancora più incazzato) sacrificando proprio il rapporto con la moglie Ellen. Spesso a Stone si riconosce la natura energica e arrabbiata del suo cinema, ma molto meno l’eleganza della sua regia, avendo un’opera teatrale alla base, poche location e una manciata di attori, “Talk Radio” spicca come uno dei suoi film diretti meglio, ad esempio amo molto la scena in cui la prima grande spaccatura tra Barry ed Ellen si consuma: quando il DJ più famoso di Dallas gli propone di fare l’ospite della sua trasmissione, il giovane e riccioluto Barry ha gli occhi che scintillano, il suo sogno sta per avverarsi, dietro di lui, Ellen lo guarda come consapevole di stare vivendo il momento esatto in cui perderà per sempre la persona che ama. Stone come dirige tutto questo? Una sola inquadratura, uno split dopier (di solito attribuito ad un regista molto tecnico come De Palma), che serve a tenere a fuoco entrambi i personaggi e “Talk Radio” è tutto così, diretto e montato magnificamente, oltre ad avere dialoghi a mitragliatrice brillanti. Ci sono più dialoghi memorabili nei primi dieci minuti di “Talk Radio” che negli ultimi dieci film che avete visto, ascoltare e vedere per credere.

Così, tanto per aggiungere un contributo visivo al mio monologo.

“Voci nella notte”, il programma di Barry sta per andare in nazionale, il Network lo vorrebbe meno arrabbiato, meno provocatore, lui invece non ha intenzione di prendere prigionieri, cattivo fino al midollo come annuncia la sigla del programma, il terzo miglior utilizzo di “Bad to the bone” di George Thorogood della storia del cinema, i primi due, sono sicuro che li conoscete bene. Proprio per ribadire ai vertici che lui continuerà in diretta a fare e dire il cazzo che gli pare, Barry invita in trasmissione lo scoppiato Kent (Michael Wincott), un po’ ripicca, un po’ tentativo di guardare dall’alto al basso le nuove generazioni e i suoi ascoltatori. Ma anche un po’ riflesso, perché alla fine Kent non è altro che un Barry 2.0 (i titoli di coda, ovviamente parlati del film, lo confermeranno) dando spessore a quel senso di errori ripetuti all’infinito dall’umanità e se volete un riassunto su Kent e la prova del futuro “Miglior cattivo degli anni ‘90”, avete presente Beavis e Butt-head? In un solo personaggio Wincott li interpreta entrambi, sia Beavis che Butt-head.

«Ehi Butthead, ma cosa faceva la gente prima che inventassero la radio?» (quasi-cit.)

Ma staremmo qui a parlare della fuffa se non fosse per la caratterizzazione del conduttore di “Voci nella notte”, Barry Champlain è una contorta matassa di idiosincrasie, ipocrisia, errori umani e testardaggine da risultare beh, perfettamente realistico. Ha talento da vendere, ma anche posizioni estreme su tutti gli argomenti che di norma, quando vieni invitato ad una cena da persone che non conosci molto bene, sarebbe meglio non tirare fuori a tavola. Nemmeno le minacce (con tanto di spaventosa scatola dall’orribile contenuto) che gli arrivano dai razzisti in odore di Nazismo, possono arginare la sua volontà di provocare, dire la sua e vomitare addosso al suo pubblico tutta la sua bile. Si parlava dell’eleganza della regia di Stone, mai abbastanza lodata, volete una sola scena in cui regia e perfetti dialoghi si sposano alla grande? Il soliloquio di Barry sui campi di concentramento, sulla stella di David raccolta ad Auschwitz che tiene in mano durante tutte le sue dirette, a Stone basta inquadrare quella mano (vuota) per dirci di Barry tutto quello di cui abbiamo bisogno di sapere. Trovatemelo oggi, un altro film con sotto le palle quadre di usare un personaggio del genere come “buono” nella storia, in quest’epoca di personagetti edulcorati generati da un algoritmo, “Talk Radio” si conferma coraggioso e al passo con i tempi.

Si perché sarà anche ambientato in una radio di Dallas nel 1988, ma beccami gallina se “Talk Radio” non è un film ancora attualissimo. Cosa fa Barry ogni giorno? Scende nell’arena come un gladiatore per combattere a colpi di dialettica contro degli idioti che sostengono di non voler parlare di certi argomenti che odiano e poi cosa fanno? Passano la giornata a parlarne, ditemi se non è il riassunto di molta gente che spende le proprie vite odiando su “Infernet”?

Una voce alla radio che non si nasconde dietro al microfono, ma che intona il suo VAFFANCULO contro i leoni da telefono (e da tastiera)

Allo stesso modo Barry, si ritrova costantemente ad affrontare di petto nelle sue telefonate, quelle che per noi oggi, sono le conversazioni in quella gabbia delle scimmie urlatrici che è il Web, invece di evitare di perdere tempo a parlare con chi vuole solo conferme sul fatto di avere ragione e a cui non frega un accidente del confronto, Barry si butta e cerca la rissa verbale, provoca, usa parole come montati e doppi sensi come diretti, prendendosela contro debosciati che piagnucolano, spocchiosi bastardi che giudicano e soprattutto, contro quei grandissimi pezzi di merda che dietro l’anonimato di una telefonata (o del non avere le palle di firmarsi con email e nickname), notte tempo vomitano il loro odio razzista perché sono troppo vigliacchi per prendersi la responsabilità delle loro parole e del loro essere beh, dei trogloditi del cazzo.

Tutto questo come si traduce? In una marea nera, un blob che ti tira dentro, ti si appiccia addosso come il catrame fresco e che lentamente ti trascina giù a fondo, dove non c’è luce, aria o intelligenza, un abisso in cui malgrado tutto, ad un certo punto anche Ellen tenta di lanciare un salvagente a Barry e lui cosa fa? Risponde, a suo modo. Il mondo ha amato Breaking Bad, la storia di un uomo che davanti a molte occasioni di tornare ad essere solo Walter White, sceglieva sistematicamente, ogni volta, la via anche più difficile di essere Heisenberg, ecco perché sostengo che “Talk Radio” abbia tutto per piacere a tutti ed essere ancora attualissimo, oltre ad avere infilati su per la manica altri due assi notevoli. Il primo è Eric Bogosian, ne abbiamo parlato anche recentemente quindi ripropongo il quesito: chi ha costruito le piramidi? Cos’è Stonehenge? Perché Eric Bogosian non è diventato il nuovo Al Pacino?

Il più grande mistero dell’umanità: il talento del signor Eric Bogosian.

Se penso al concetto stesso di “prova di recitazione magnifica”, a me è “Talk Radio” che viene in mente, Barry Champlain è un personaggio che non si dimentica ed Eric Bogosian recita per la storia del Cinema, il fatto che il film sia una parentesi di nero pece, tra altri capolavori più ricordati di Stone non cambia nulla, se non conoscete questo attore o questo film, vi invito caldamente alla riscoperta anche perché occhio, arriva il secondo asso: il più bel monologo mai ricordato della storia del Cinema.

«… E poi anche tu, piccola merdina che attendi di essere protetto dalla notte e dalla anonimato per lasciare i tuoi commenti da razzista troglodita del cazzo sulla Bara, perché non sei nemmeno capace di mettere insieme una palla sinistra e una destra, schifoso verme…»

William Wallace davanti alle truppe schierate, Al Pacino che motiva la squadra prima di una partita (chi lo ha scritto quello? Ah sì, sempre Oliver Stone), ci sono tanti grandi monologhi nella storia del Cinema, molti li ritrovate puntualmente condivisi sul web, ma nessuno ricorda mai la tirata di Barry Champlain, se non fosse così lungo, potrebbe essere l’epitaffio sulla pietra tombale della razza umana, una scena ipnotica – letteralmente – che è una risposta ad una vita passata a sguazzare in quel pantano nero di malessere che sono i suoi ascoltatori, un modo per vomitare fuori tutto, recitato come si fa in paradiso, che riesce ad essere l’apice emotivo di un film che dopo cinquanta minuti sembra iniziato da cinque e che dopo cento minuti totali, ne sembrano passati meno della metà, anche se bisogna passarli tutti a fare i conti con le nostre ipocrisie, come esseri umani e come rappresentanti della società occidentale. Ho visto film appena appena peggior di questo in vita mia, credetemi.

Come detto, “Talk Radio” all’uscita incassò poco, troppo esplosivo, troppo vero, troppo dritto e diretto nel dire la verità senza filtri, insomma la quinta essenza dell’idea di cinema di Oliver Stone. Ogni giorno, quando guardo un telegiornale o mi appresto a mia volta ad immergermi nel pantano nero di “Infernet” penso a Barry Champlain e per farmi forza mi ricordo che coi sassi e coi cazzotti per un po’ restate rotti, ma le parole lasciano il segno, per sempre. Questa è la Bara Volante ed io vi do appuntamento a domani per un nuovo titolo e alla prossima settimana, per un nuovo film di Oliver Stone, anche se non siamo ancora a luglio festeggeremo il giorno dell’indipendenza ed ora… Sigla!

Ah no! Abbiamo un’altra questione mooooolto importante prima di chiudere, visto che gli abbiamo dedicato una puntata, ecco anche il parere delle vostre tre voci alla radio del cuore, i Tre Caballeros!

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