Vi ricordate di André Øvredal? No? Strano, perché con un nome così non dovrebbe passare inosservato, vorrà dire che forse non avete visto il gustosissimo “Trollhunter” (2010), un found footage di quelli riusciti che mescolava folklore norvegese e idee azzeccate.
Ammetto di aver perso le tracce del Norvegese per un po’, prima di rivederlo comparire in Inghilterra dietro la macchina da presa di questo “The Autopsy of Jane Doe”, che mi sfiziava e non poco, sarà che mi piacciono i film con la mono location, o forse solo perché un obitorio per uno che ha un blog che si chiama la Bara Volante è un po’ come tornare a casa.
Pare che Andrè abbia visto The Conjuring e abbia detto al suo produttore di fiducia: “Portami una sceneggiatura horror come si deve!”. Motivo per cui il nostro si è ritrovato per le mani quella scritta da Ian Golberg e Richard Naing che, diciamolo, non è tutta pesche e crema, a differenza del film che invece si lascia guardare.
Virginia, nello scantinato di una famiglia “Mortammazzata” viene trovata una “Jane Doe” il cadavere di una giovane donna non identificata, ma perfettamente conservata, lo sceriffo non sa che pesci pigliare, domani mattina bisogna fare rapporto e non sa come giustificare la presenza del cadavere della misteriosa signorina ex viva. Si rivolge, quindi, alla scienza medica, nello specifico alla famiglia Tilden, patologi locali.
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«Figliolo, non è educato palpare i cadaveri» |
Papà, Tommy Tilden, ha il faccione di Brian Cox, decenni di esperienza da passare al figliolo Austin che, siccome è interpretato da Emile Hirsch, pare più interessato a fuggire (Into the wild) con la fidanzata che a portare avanti l’azienda di famiglia, ferma agli anni ’80, anche nel look dell’edificio (con il legno alle pareti). Eppure, questa Jane Doe è un caso troppo sfizioso, morta, ma perfettamente conservata e senza apparenti segni, un mistero da svelare usando metodo e deduzione. Seguono casini immani!
La prima parte di “The Autopsy of Jane Doe” funziona alla grande, penso sia impossibile non restare incollati allo schermo davanti ad ogni nuova rivelazione fornita dal corpo morto della ragazza, Øvredal dirige dritto e preciso come un patologo e noi davanti allo schermo, giù a snocciolare teorie, qui lo dico: al primo indizio consistente (gli sceneggiatori scoprono un po’ troppo le carte) ho indovinato subito quello che avrebbe dovuto essere il colpo di scena, non credo sia impossibile da intuire per gli spettatori più smaliziati.
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«Bel film, ma l’attrice che faceva il cadavere è troppo inespressiva» |
Ed è davvero forse solo questo il difetto di “The Autopsy of Jane Doe”, sembra pensato intorno a quella rivelazione che avrebbe dovuto essere clamorosa e che rischia di rendere un’eventuale visione numero due del film anche abbastanza inutile. Non so quanto possa lasciare questo film, considerando che nel finale hanno cercato d’impostare un eventuale seguito.
Detto questo, il film si lascia davvero guardare, dal momento che “Jane Doe” arriva sul tavolo dell’obitorio della famiglia Tilden, la trama diventa quasi in tempo reale, con il susseguirsi di rivelazioni e stranezze contenute nel corpo della ragazza, aumentano anche le calamità apocalittiche e il senso di minaccia per i protagonisti, tutta roba molto classica, eh (tempesta in arrivo, radio che cambia stazione da sola… LE CAVALLETTE! Ah, no, scusate quelle no!), ma anche tutta roba ben girata che funziona, mentre papà e figlio si ritrovano assediati.
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«Lo sapevo che facevo bene a starmene in Alaska» |
Ora, vi faccio due titoli, ma prendeteli solo come riferimento. In un paio di momenti alcuni passaggi del film mi hanno ricordato The Fog di Carpenter (nebbia ed assedio) e altri Re-Animator, se non altro per la location del film, non sto dicendo che “The Autopsy of Jane Doe” sia al livello di questi due titoli (proprio no) dico, però, che si vede che André Øvredal ha fatto i compiti, mandando a segno un film orgogliosamente vecchia scuola, come l’abitudine di Tommy Tilden di legare campanellini alle caviglie dei corpi, così, per precauzione.
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Suonare solo in caso di incendio resurrezione. |
Di questo film funziona anche il rapporto padre e figlio e la chimica tra i due attori, Emile Hirsch e Brian Cox sono davvero azzeccati, credibili come parenti anche per motivi anagrafici e perfettamente a loro agio in un horror, genere che nessuno dei due ha bazzicato poi molto, a ben guardare.
Insomma, “The Autopsy of Jane Doe” è un bel filmetto, gli manca il colpo del KO ed è troppo costruito attorno ad un colpo di scena che avrebbe dovuto colpire lo spettatore come una gomitata a gioco fermo, mentre non è poi così difficile da intuire, resta positivo che André Øvredal anche fuori dai confini norreni si confermi uno che sa il fatto suo, uno che con i mezzi potrebbe fare qualcosa di davvero buono. Intanto, voi un giretto in obitorio fatelo e la chiudo qui prima d’iniziare a sembrare troppo lo Zio Tibia.