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The Bikeriders (2024): fatti un giro sul lato selvaggio dell’1%

Jeff Nichols è un regista di cui non si parla mai moltissimo, personalmente lo apprezzo parecchio per la sua buona tecnica e il suo buon gusto, non solo fa recitare spesso uno dei miei prediletti, ovvero Michael “Capoccione” Shannon, ma ha dimostrato più volte di essere un regista con il cuore dal lato giusto. Considerando che i film sono quelle storie che come Gandalf, arrivano precisamente quando intendono farlo, che uno come Nichols abbia ottenuto un po’ di visibilità con un film sui motociclisti, mette in chiaro come l’aria sia cambiata e come il fascino per le motociclette sia ancora molto solido. Anche se credo che qui a tenere banco sia più il fascino di certi motociclisti, ma come avrebbe detto Anders Celsius, andiamo per gradi.

Non ho la pretesa di fare il professorone, ma cinema e motociclette sono sempre andati di pari passo, ci sarebbe un lunghissimo discorso da mettere su, ma per restare in tema punterò alla giugulare della faccenda: dopo la Seconda (Guerra Mondiale) parecchi ex piloti di guerra hanno trovato la loro naturale continuazione nei neonati Motorclub, anche noti come MC, non propriamente visti di buon occhio dal resto della popolazione, specialmente dopo il 1947, durante un raduno di motociclisti ad Hollister in California si scatena un pandemonio che richiede l’intervento della polizia, da questa mega rissa un gruppo in particolare si dimostra il più scatenato di tutti, mentre gli altri MC per non inimicarsi la popolazione, si descrivono come il 99% di quei motociclisti rispettosi della legge, il restante 1% adotta proprio questa percentuale come ideale bandiera, si appiccicano una toppa a tema sul giubbotto e iniziano a farsi chiamare Hell’s Angels, che tanto scateneranno l’immaginario anche cinematografico.

Ciao Max, bentornato.

Tanto che nel 1954 un film in particolare sarà più abile degli altri a cavalcare (ah ah!) il mito dei “Onepercenters”, mi riferisco a “Il selvaggio” di László Benedek, Marlon Brando con berretto, maglietta bianca e giacca di pelle a bordo della sua Triumph diventa immediatamente iconico, tanto da scaldare il cuore anche di un camionista di nome John Davis, lui il suo MC lo aveva già ma dedicandosi alla sua banda anima e corpo, ha reso gli Outlaws di Chicago uno dei gruppi più famosi di sempre, tanto da guadagnarsi un fotolibro pubblicato nel 1968 dal fotografo Danny Lyon, che è la base da cui Jeff Nichols ha tratto il suo “The Bikeriders”. Lo so, è stato un lungo giro in moto ma le mie premesse per quanto lunghe, arrivano sempre al punto, anzi aggiungo ancora una cosina.

Gruppi come gli Outlaws o gli Hell’s Angels erano tendenzialmente proletari bianchi che nel fine settimana, prendeva la loro moto per sfidare l’opinione pubblica, certo, spesso infrangevano la legge ma non con veri atti criminali, lo scenario è cambiato dopo la guerra del Vietnam, nei vari MC sono entrati parecchi reduci senza nulla da perdere e già parecchio invischiati con le droghe, questo ha portato ad uno scontro tra la vecchia concezione di banda di motociclisti e quella nuova, tutta roba che se guardavate anche voi “Sons of Anarchy” conoscete più che bene.

Previously on Sons of Anarchy.

“The Bikeriders” parte da un libro fotografico per fare questo, fotografare gli ultimi chilometri dell’epoca d’oro dei vecchi MC, basta dire che John Davis venne ucciso per una faida interna al suo MC all’inizio degli anni ’70, quindi immaginate di avere uno spaccato di America che va dal 1954 ai primi anni ’70 da cui pescare e come mappa, solo una serie di fotografie di motociclisti di Chicago, la rotta da seguire in questa moto cavalcata l’ha decisa tutta Nichols, con una serie di scelte a mio avviso anche sagge.

La prima? La selezione musicale, la colonna sonora di “The Bikeriders” è splendida e strapiena di pezzi anti retorici, provate a pensare ad una canzone che vi fa pensare immediatamente ai motociclisti? Bene qui non la troverete, ma in compenso ne troverete moltissime altrettanto adatte. Il resto Jeff Nichols come se la gioca? Come ha sempre fatto, dimostrando di avere tutti i riferimenti cinematografici giusti, per uno che ha saputo omaggiare uno dei titoli di Carpenter meno ricordati, mi sembra quasi naturale che qui abbia pensato di strizzare più l’occhio a Coppola e Milius, piuttosto che a titoli più “facili”, come poteva essere ad esempio il classico “Easy Rider” (1969).

Norman Reedus dopo anni de I Camminamorti ormai indistinguibile da uno di loro.

Dal punto di vista estetico il film risulta estremamente curato, la fotografia di Adam Stone pesca tra una selezione di lenti e pellicole, non dico proprio come se il film fosse stato girato negli anni ’60 ma quasi, il risultato visivamente risulta molto bello senza essere mai patinato, i motociclisti sembrano usciti dal fotolibro di Danny Lyon e la cura per il dettaglio si nota tutta, se siete fanatici di motori e toppe da giubbotti, rifatevi gli occhi.

Ecco, poi ci sarebbe l’altra questione, oltre al fascino delle moto esiste il fascino di chi le cavalca (alla faccia dei monopattini!) e qui Jeff Nichols se la gioca sul velluto, Benny interpretato dal lanciatissimo Austin Butler sembra il futuro del MC almeno agli occhi di Johnny (Tom Hardy) che è un po’ il John Davis di turno, che in questo nuovo “ribelle senza causa” vede la concreta possibilità di portare avanti i valori della sua banda malgrado il fatto che anche lui abbia capito che il vento ormai è cambiato.

In posa anche in moto, che gli vuoi dire, ha vinto lui.

Butler con quella sua parlata strascicata sembra ancora calato dentro il personaggio di Elvis, ma in certi momenti mentre guardavo “The Bikeriders” me lo immaginavo in bianco e nero, e beccami gallina se il buon Austin non sembra una faccia uscita dal cinema di un’altra epoca. Allo stesso modo Tom Hardy, che ormai sembra scegliersi i soggetti in modo da poter continuare a lavarsi il meno possibile (L’omo, pe’ esse omo, a ‘dda puzzà!) ormai è scientifico nel cavalcare il suo corpaccione, da cui esce fuori quella vocina quasi stridula che sembra appartenere ad un altro, il tutto, in un film che fa un gran lavoro sulla parlata dei singoli personaggi, sullo slang, quindi se trovate un cinema che lo proietta in originale, gustatevelo così come ho fatto io (storia vera).

Anche perché attorno ai due nomi più grossi del cast, ruotano una serie di facce una più azzeccata dell’altra, ad esempio Spielberg aveva già messo in chiaro che Mike Faist provenisse anche lui da un’altra epoca, qui abbiamo la conferma, esattamente come Jodie Comer che pare non riesca a sbagliare un ruolo nemmeno per errore, a livello di parlata, lei non solo ha più dialoghi di tutti ma s’inventa un modo di pronunciarli che compensa tutto quello che manca a livello di retroterra del suo personaggio.

Questo è il classico momento lei c’ha i vuoti io c’ho i vuoti e insieme li riempiamo (cit.)

A questi aggiungete nomi come Damon Herriman, oppure Emory Cohen, che qui riesce nell’impresa di passare per l’Emilio Estevez della situazione, quello che ha il personaggio colorito del gruppo, ma senza farlo scivolare giù nel gorgo della spalla comica. Condite il tutto con un paio di quasi (ex?) famosi che però in un film così ci stanno come il cacio sui maccheroni, Boyd Holbrook e il sempre stropicciato Norman Reedus (a proposito di una carriera senza lavarsi) e il gioco è fatto, anzi no, ne manca uno, la quota Cassidy di questo MC messo su da Jeff Nichols, il suo pretoriano Michael Shannon.

«Film m’hai provocato e mo te magno»

“Capoccione” ha essenzialmente il ruolo del grande vecchio di contorno, la metà del tempo beve dalla sua brocca di Moonshine o quello che è, fino al momento in cui con il suo monologo numero uno e il suo monologo numero due, pensa bene di divorarsi il film come da sua abitudine, confermando la regola: se in un film recita Michael “Capoccione” Shannon, stai sicuro che almeno uno che recita alla grande lo troverai.

Difetti? Essendo tratto da un libro fotografico, “The Bikeriders” mette insieme una serie di scenette, spesso molto coerenti tra di loro, a tratti solo accennate, come dicevo lassù Jeff Nichols se la gioca come i grandi Maestri, dimostrando di aver capito la loro lezione, quello che mette su è un “Come eravamo” che ricorda un po’ I ragazzi della 56° strada con i motociclisti al posto dei Greasers, almeno per lo sguardo quasi amorevole con cui il regista guarda all’epoca che ci sta raccontando e ai suoi protagonisti. Tutto bello, anzi bellissimo, purtroppo a livello di ritmo a volte il film non decolla ma gira in tondo, anche se va detto, se vi aspettavate un film d’azione classico da questa trama, mi sa che avete puntato sui cavalli motore sbagliati.

Ecco così lo immaginavo io, in bianco e nero!

L’altro film che mi ha fatto pensare questo “The Bikeriders” è stato Un mercoledì da leoni, con due differenze sostanziali, Milius è un surfista e ha saputo usare il suo sport del cuore per far assorgere la sua trama ad una tesi su come bisognerebbe sempre rappresentare l’amicizia maschile al cinema, oltre che ad uno spaccato di storia americana che Milius ha vissuto e che ha contribuito a salvare per sempre su pellicola. Jeff Nichols ha la stessa passione per le motociclette che potrei avere che so, io. Bellissimi oggetti di cui non so molto, inoltre è nato nel 1974 quindi gli anni ’60 li ha visti al cinema, per questo il suo “The Bikeriders” non diventerà mai il trattato di grande cinema che ha firmato Milius, per questo continuo a sentirmi più a mio agio a vederci l’ispirazione tratta da Coppola, ma un fatto resta, il buongusto cinematografico di Nichols e il suo buon occhio sono confermati.

Mi fa piacere che per una volta un suo film abbia avuto un minimo di pubblicità, non so quanti soldi potrà fare per davvero, non in questo pazzo 2024 severo al botteghino (ma Barbie non aveva salvato il cinema? Dove sono quei fenomeni che lo sostenevano?), però continua così Jeff fallo rombare quel motore.

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