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The Blair Witch Project (1999): era il 1999…

Abbandonato nel bosco è stato ritrovato un manoscritto, con le ultime parole dell’esploratore Quinto Moro, partito alla ricerca della strega di Blair, questa è la sua eroica testimonianza, proveniente dall’anno uno-nove-nove-nove (cit.)

DISCLAIMER

Era il 1999. E se siete nati dopo il 1995 forse di questo film avrete sentito parlare poco o per vie traverse, per i suoi (poco memorabili) sequel. Se invece siete un po’ più stagionati, quasi cadaverici, coi pezzetti di pelle macilenta che vi si staccano nell’incedere zombesco della vita di tutti i giorni (se siete over 30 insomma) avrete sentito parlare di questo film, ché lo conosceva pure il bidello di scuola del nostro amichevole Cassidy di quartiere.

Visto che il sottoscritto è abbastanza mummificato da ricordare il clamore suscitato dalla Strega di Blair, dividerò il commento in due parti: la prima spoiler free per chi non ha mai visto il film. Nella seconda invece racconterò le cronache di quel 1999 in pieno stile Nonno Simpson, e di cos’ha significato per i vent’anni successivi alla sua uscita.

“La miseria che branco di fessi. Dico sul serio ragazzi, siete fortunati ad essere ancora vivi in un bosco del genere” (Cit.)
PIU’ VERO DI COSI’ SI
MUORE. E INFATTI…
[*] ZONA SPOILER FREE [*]

Il film inizia con una didascalia che introduce la storia: nel 1994 tre studenti universitari si recano nelle campagne del Maryland, a Burkittsville (anticamente Blair), per girare un documentario con interviste e riprese nei boschi in cui si verificarono, dal 1785 in poi, episodi misteriosi e cruenti, legati alla leggenda di una strega. I tre scompaiono e un anno dopo vengono ritrovate le registrazioni della spedizione, materiale autentico montato per distribuire il film e far conoscere la vicenda.

Il risultato è uno dei found footage più puri della storia del cinema. Tutto è girato unicamente in soggettiva per mezzo di due telecamere, una a colori e una 16 mm in bianco e nero. Nessun orpello di scenografia, nessun accenno di colonna sonora, il che può renderlo ostico allo spettatore medio: se le inquadrature traballanti da camera a spalla vi fanno venire il mal di mare, difficilmente potreste godervelo. È il filmino amatoriale di un gruppo di amici, girato con inquadrature a cazzo esattamente come faremmo noialtri, specie buttati in un bosco in preda alla disperazione perché non funziona lo smartphone. Pensate riuscireste a fare un’inquadratura decente sapendo che non c’è campo, niente whatsapp, niente internet? Il panico e l’orrore, quelli veri.

Ma era il 1999 e anche se i cellulari esistevano già, non erano diffusi come oggi. Siete liberi di non crederci, ma era così. Che tempi bui abbiamo visto noialtri, ti credo che i film horror non ci spaventano, tsk!

Ma tornando alla storia di questi tre ragazzi (oggi sarebbero quasi fottutissimi boomer) che non dovevano pubblicare le stories su Instagram in tempo reale, ma pensavano di farsi una scampagnata e girare del materiale da montare, beh, ai loro tempi poteva capitare di perdersi nei boschi. Se non lo pensate possibile al giorno d’oggi non avete mai passato un Ferragosto in montagna col sottoscritto, ma questa è un’altra storia.

Essendo solo un documentario amatoriale, in “The Blair Witch Project” cade la costruzione di ogni aspetto tecnico tipico del cinema, salvo il montaggio del girato: la scenografia sono i boschi, selvaggi e oscuri. La colonna sonora è il rumore degli sterpi sotto gli stivali e i sinistri rumori notturni. La sceneggiatura sono le chiacchiere di tutti i giorni che diventano liti e infine urla di terrore. Ancora oggi ci sono poche inquadrature nel cinema horror che mi danno la stessa angoscia del semplice allontanarsi dei tre ragazzi dall’automobile parcheggiata sul ciglio della strada, perché so che non ci torneranno mai più.

Ricercati: ufficialmente morti

“The Blair Witch Project” è un horror che punta tutto sull’atmosfera e la tensione che sale inesorabile man mano che il trio si addentra nei boschi. L’efficacia sta tutta nel realismo delle riprese dei ragazzi, dilettantesche, spesso confuse, animate dall’angoscia che sale con la paura d’essersi persi, e d’essere braccati durante la notte da qualcuno o qualcosa che li osserva nell’oscurità.

Il film restituisce alla notte, al buio, la sua carica di terrore ancestrale: immaginate di perdervi in un bosco, di sentire rumori, versi che potrebbero essere animali oppure urla, e la mattina trovare i segnali inconfondibili di una sinistra presenza fuori dalla tenda, che lascia mucchietti di pietre come tombe, tante quanti siete voi e i vostri compagni.

Qui la paura più grande non è data dai mostri o dagli schizzi di sangue, ma che sia tutto vero. Mentre il senso di minaccia e l’angoscia assale i ragazzi, il loro rapporto si sfalda fra una strada sbagliata e uno sfogo di rabbia.

Heather, Josh e Mike non sono amici per la pelle, e non sono personaggi scritti nella sceneggiatura di un horror anni ’80: sono lontani da tutti gli stereotipi del cinema horror. Il film è soffocante perché getta nella disperazione tre persone normali come potremmo essere noi, i nostri amici o parenti. Si scoprono incapaci di gestire l’ignoto e reagire a una minaccia invisibile, a ritrovare la strada di casa.

Ora, se non avete mai visto il film il consiglio è di fermarvi qui, guardarlo e tornare a leggerci in seguito. Diversamente, preparatevi a vedere le streghe!

Ciak! Si gira… e dietro vede cespugli spaventosissimi. L’avete capita? Si gira e vede… (La Bara delle Freddure Volanti)
IL VERO MOSTRO E’ IL
MARKETING
[!!!] SPOILER ZONE [!!!]

Alla sua uscita, il film si basava sulla premessa che tutto sia reale. La scomparsa dei tre ragazzi è reale, così come il ritrovamento del girato. È l’ultimo tassello di una leggenda che ha attraversato due secoli. Una donna, la presunta Strega di Blair, esiliata ritrovata morta. Poi la morte misteriosa di chi volle esiliarla. Ritrovamenti di uomini adulti e robusti uccisi nei boschi, e i loro cadaveri poi scomparsi. Uomini che subendo la sinistra influenza dei luoghi – o della stessa Strega – si trasformarono in assassini di bambini. Una di quelle leggende folkloristiche cresciute sul terreno fertile delle superstizioni della campagna americana.

In realtà, la leggenda fu tutta un’invenzione dei registi/autori Daniel Myrick e Eduardo Sanchez. La brillante idea però non fu tanto la cronistoria quanto quella di farla bere, anzitutto, ai tre attori ingaggiati per girare il finto documentario. Gli autori si presero la briga di mescolare comparse a gente comune (debitamente istruita sulla falsa leggenda) mentre giravano il falso documentari sulla Strega, così da rendere più vere le reazioni dei tre protagonisti ai loro racconti. Attori che sono i veri operatori di macchina, con tutte le loro imprecisioni e incompetenze che fecero gioco alla genuinità delle riprese. Le pessime riprese iniziali in bianco e nero con la camera a 16mm funzionano benissimo per quanto facciano schifo. E sarà così anche in svariati altri momenti del film.

Molti potranno trovarlo indigesto, specie se non vi vanno a genio i vari RECCloverfield, Paranormal Activity e compagnia brutta, ma “The Blair Witch Project” non è un found footage qualunque: è IL found footage. Quello che ha sdoganato definitivamente il genere influenzando i successivi vent’anni di cinema, coi suoi 80 minuti scarsi che scorrono rapidi e ansiogeni, basandosi sulla semplice idea che l’orrore e il mistero siano ben presenti nella nostra realtà, e con un po’ di fortuna – e di sfiga – si possono catturare (la saga di Paranormal Activity ha campato su questo). E mostrando che con qualche videocamera e qualche attore si possano fare film a costi relativamente bassi, capaci di spaventare orde di non-morti.

L’Oscar alla regia lo escluderei. E non punterei su quello per i costumi.

Se oggi vi fate un giro su internet, è facile imbattersi in una ricostruzione perfetta della leggenda della Strega di Blair, con tanto di cronistoria, nomi e cognomi degli sfortunati protagonisti, vittime e assassini ad essa legati. E troverete gente convinta che la leggenda sia autentica e antica. Io stesso in quel 1999 me l’ero bevuta, e per molti anni ho continuato a credere che la leggenda fosse vera, anche dopo aver capito che il film era stata una gigantesca bufala nata, pensate un po’, grazie a internet!

Questo non è certo uno dei miei film preferiti, e i found footage in genere mi danno l’orticaria, eppure non ho paura a considerarlo un capolavoro del suo genere. La leggenda della Strega si basa su quell’immaginario ancestrale che risale ai tempi della frontiera, popolato da culti pagani che tanto veracemente anima le credenze dell’America rurale. Luoghi isolati colmi di selvaggi orrori, che affondano le radici nel timor di Dio del puritanesimo e sopravvivono nei pregiudizi odierni. L’America rurale è un altro mondo, un’altra epoca, una realtà parallela a quella della grandi metropoli, con le sue dinamiche sozze e diversamente assassine (vi basti pensare alla prima stagione di True Detective, o a che tipo di gente ha mandato Donald Trump alla Casa Bianca).

Contesto realistico, luoghi reali, e tre attori disgraziati da torturare nei boschi per rendere il tutto più vero. Si perché quei due mattacchioni di Myrick e Sanchez gettarono i poverini nel delirio. Le riprese furono un susseguirsi d’inganni e colpi bassi agli attori. Il film funziona perché i dialoghi tra i ragazzi nel bosco sono spesso autentici, così come molte delle loro reazioni. La leggenda (del set) vuole che di giorno in giorno venisse dato sempre meno cibo agli attori per renderli più scontrosi tra di loro, mentre alcune scene in cui i tre scoprono di aver girato in tondo per ore (o d’essersi persi), parrebbero autentiche. Autentica è una delle scene notturne più tese, l’aggressione alla tenda improvvisata dalla troupe, e quel che finì nelle inquadrature è del tutto casuale: doveva trattarsi di un’aggressione della Strega, ma le riprese vennero così confuse da risultare dannatamente buone per restituire il panico del momento. L’orrore peggiore è sempre quello che non si vede, e alla fine si scelse di non rigirare la scena per mostrare chiaramente la Strega.

No, non è che abbiamo finito le scene dal set. È che ce ne sono parecchie così, una andava messa per coerenza.

I venti minuti finali sono pura angoscia, con il messaggio d’addio di Heather nella scena più iconica (e parodiata), mentre il ritrovamento della villa con la corsa finale rendono Heather Donahue degna del titolo di Scream Queen nel vero senso del termine.
Ma fin qui abbiamo solo un filmetto girato con due lire che punta tutto sulla tensione crescente, che non sarebbe diventato così celebre senza la più grande campagna truffaldina della storia del cinema. Era dai tempi di Orson Welles e della sua Guerra dei Mondi che il pubblico non veniva ingannato – o non era pronto a farsi ingannare – così bene. Il 1999 era l’ultimi minuto utile per un colpo di coda alla credulità del pubblico, prima della controcultura multimediale di internet e dei social network, del miliardo di voci che gracchiano tutte insieme facendo dell’informazione una continua barzelletta e mettono in discussione tutto perché: hey, non siamo mica stu-pi-di…

Il film fu ben accolto alla premiere al Sundance, i diritti di distribuzione furono pagati per un milione di dollari, a fronte di un budget di 60.000 dollari scarsi. Ancora niente in confronto agli incassi che attendevano al botteghino. Il merito principale va alla strategia del produttore esecutivo Kevin Feige Foixe e soprattutto Steven Rothenberg (entrato nel mondo del cinema grazie a un amico dell’università, un certo Roger Corman). Era il 1999, e i tempi erano maturi per un marketing interamente su internet. Ma non fu una campagna promozionale come le altre: sul sito del film furono pubblicati falsi rapporti di polizia e interviste, fotografie e appelli a far pervenire notizie sui ragazzi scomparsi a chiunque ne avesse. Nel giro di qualche mese il sito raggiunse 160 milioni di visite. L’incasso mondiale raggiungerà i 248 milioni di dollari.

Era il 1999: le streghe infestavano i nostri boschi e punivano le ragazzacce che andavano da sole in gita con due maschi, internet si chiamava telefono gracchiante a bolletta astronomica, Facebook non era stato inventato e tutti i bambini erano vaccinati

Quelli di “The Blair Witch Project” erano i tempi in cui si credeva ancora alla notizia di un telegiornale e la dittatura dell’opinione non inquinava ogni singola informazione. C’era la TV, e alla TV credevamo (cosa che non ci rendeva meno scemi, lo eravamo solo in modo diverso e più… sincero). Alla notizia dell’uscita di questo film, presentato come un documento autentico, c’avevamo creduto. Era il 1999 e l’era della post-verità in rete stava per esplodere con la più grossa bufala della storia del cinema, cui avevano creduto milioni di persone, e aveva prodotto centinaia di milioni di dollari di incassi. Nel 1999 era un caso unico, a pensarci oggi fa sorridere.

Io non lo vidi al cinema, lo recuperai in VHS appena uscito, ancora dubbioso sul fatto che si trattasse o meno di una storia vera, ma visto il film ero assolutamente convinto. Anche perché guardarlo in VHS faceva un effetto unico, dava l’impressione d’avere in mano una copia di quel ritrovamento misterioso nei boschi del Maryland. Un brandello di mistero autentico, credibile perché non mostrava nulla di surreale.

Già l’idea del falso documentario, ritrovato dopo la scomparsa di chi l’aveva girato, era stata sfruttata da Ruggero Deodato in Cannibal Holocaust (1980), storia per inciso sempre di un trio, due uomini e una donna, in un luogo selvaggio (in quel caso la foresta amazzonica). Ma i tempi non erano del tutto maturi per rendere spaventosa l’idea del found footage.

«Vatténne, questo bosco è nostro, non ci vogliamo ‘e streghe». Visto che è il 1999, direi che vale come audizione per i Soprano.
DUE PAROLE SUL FOUND
FOOTAGE E LA SOGGETTIVA

Per quanto Cannibal Holocaust nel 1980 avesse i suoi contenuti di critica feroce alla società e ai media, era ancora presto perché l’idea del found footage potesse conquistare il pubblico e i nuovi cineasti. Cannibal Holocaust era ancora un “cinema costruito”, e non poteva esserci la stessa identificazione col mezzo – la videocamera – da parte del pubblico. I tempi non erano maturi, il pubblico non era nemmeno abituato alle videocassette, se pensiamo che Blockbuster nasceva “solo” nel 1985! C’erano voluti tutti gli anni ’80 e ’90 perché le videocamere cominciassero a diffondersi, facendo provare al pubblico l’ebbrezza di girare orridi filmini famigliari. Senza contare che solo un anno prima del progetto della Strega di Blair, un altro filmetto giapponese (Ringu-The Ring, 1998) aveva messo un altro insospettabile tassello, utile a sdoganare la videocassetta come elemento horror, oggetto maledetto in grado di contenere misteri e incubi.

Di esperimenti con inquadrature in soggettiva è piena – non così tanti, ma ce n’è – la storia del cinema, eppure s’è dovuto aspettare che la tecnica arrivasse all’horror, da John Carpenter nel primo Halloween (e il suo primo corto Captain Voyeur), all’uso sempre più frequente fatto da Dario Argento. La soggettiva esplodeva solo allora come tecnica buona per creare tensione nell’horror, dall’assassino come minaccia, o lo sguardo della vittima. Se anche George Romero le ha reso onore con il suo Diary of the dead qualcosa vorrà dire.

La soggettiva costringe lo spettatore ad immedesimarsi con chi tiene la telecamera: è la parzialità del punto di vista, il mistero di tutto ciò che è al di fuori del campo visivo e il sonoro assume un significato diverso. Tutto il non detto e non visto, ciò che non è penetrato dallo sguardo della telecamera è potenziale minaccia.

Per The Blair Witch Project, in vista del buon responso al lancio iniziale fu chiesto di girare una nuova versione del finale, più esplicita e violenta, ma dopo averne girato delle variazioni decisero di tenere quello originale (visto come si fa, caro il mio Danny Boyle ?).

Il finale lascia interdetti, straniti e irritati se lo si pensa come un film “costruito”. Ma visto con lo spirito originale, del ritrovamento del videotape maledetto, era la cosa più angosciante e funzionale allo spirito della storia. Tanto basta a spiegare anche il clamoroso flop del primo sequel BW2, girato in modo più convenzionale, e del più recente sequel-reboot Blair Witch del 2016, che non poteva più giocarsi la carta della storia vera, né mostrava sufficiente inventiva per angosciare il pubblico nuovo con idee vecchie.

Rara foto della Strega che tortura Heater mostrandole i sequel della saga

La tecnica del found footage è quasi una negazione del cinema come forma d’arte, ma dà valore assoluto al montaggio: questo film da ottanta minuti scarsi a fronte di venti ore di girato, è il frutto di otto mesi di lavoro per costruire un’ascesa di tensione verso l’apice del finale, tagliuzzando ogni momento superfluo che potesse danneggiare il ritmo o ripetere situazioni già viste (c’era abbondanza di materiale in cui Heater sclerava o i nostri poveracci si piangevano addosso).

La sola scena che ho sempre trovato fasulla è l’intervista iniziale ai due pescatori, un orpello di sceneggiatura che non aveva bisogno di mandare avanti una storia precisa perché tutto l’orrore stava nell’ignoto. Infatti se si toglie dal film ogni riferimento alla Strega di Blair, se cominciasse dal momento in cui arrivano nei boschi, avremmo tensione e angoscia ugualmente forti. È l’allegra scampagnata che si trasforma in un guazzabuglio di discussioni, paure e liti che dà realismo e ci fa vivere lo sfaldarsi dei rapporti fra i protagonisti, l’essere sperduti e indifesi nel nulla, in un incubo che potremmo ritrovarci a vivere imboccando una strada un po’ fuori mano. Braccati dalle oscure presenze di un luogo così normale eppure capace di risvegliare paure ancestrali, e smembrare tutte le certezze del nostro mondo civilizzato, soffocandole nella paura dell’ignoto.

P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.

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