Soffrite di mal di mare? Prendete un antiemetico e preparatevi a navigare nelle acque burrascose del secondo, turbolento episodio sulla spia che non solo ci provava, ma ci riusciva. La parola al nostro Quinto Moro, armato e pericoloso.
Allora. Io amo la trilogia di Bourne. Ma l’amore non è bello se non è litigarello. L’importante è far pace e volersi bene come prima e più di prima, ma che fatica con The Bourne Supremacy. Sarò onesto, ai tempi non sentivo la necessità di un sequel, The Bourne Identity aveva un (dis)onesto finale da “vissero felici e contenti”. Quando poi uscì il sequel ero curioso e carico di aspettative, anche perché avevo apprezzato “Bloody Sunday” di Paolo Verdeprato, il cui prato più verde rispetto a Doug Liman gli era valso la promozione alla regia. Liman ce l’aveva messa tutta sia per portare Bourne al cinema sia per farsi sostituire. Greengrass è senza dubbio quello che ha fatto fare uno scatto alla saga, purtroppo la mia prima visione di Supremacy fu devastata da eventi esterni: sulla strada per il cinema sfiorai risse e incidenti stradali, manco fossi braccato dagli scagnozzi di Treadstone (storia vera). Giunsi in sala già sconquassato di mio, figuratevi il trauma per la regia di Paul “Tarantolino” Greengrass.
Partiamo subito dall’elefante nella stanza: la shaky-cam, ovvero quelle inquadrature che fanno sembrare come il vero coinvolto nelle scazzottate non sia il protagonista, ma l’operatore della macchina da presa.
Se vi fate un giro per l’infernet troverete articoli e video che descrivono la shaky-cam come la peste e la trilogia di Bourne come qualcosa che “ha rovinato il cinema d’azione”. Se avessi un addestramento Treadstone andrei a cercare questi tizi e renderei il mondo un posto migliore, più pulito, perché non è mai la tecnica ma il come, quando e perché la si usa. La shaky-cam non ha rovinato il cinema più di quanto non l’abbiano fatto la CGI o il 3D.
Greengrass, l’uomo nelle cui vene scorre caffè e gira tutto come se fosse un documentario, in questo film riuscì a farmi venire il mal di mare in più di un’occasione. Se in The Bourne Identity lo stile sporco e frenetico era in fase embrionale, qui c’è l’esasperazione più totale con le continue – e a volte esasperanti – inquadrature ballerine, unite al solito montaggio serrato. Il confine tra realismo e confusione è sottile, e Supremacy sta sempre sul filo del rasoio.
In epoca post The Raid e John Wick vari, le scene shakerate sono diventate un esempio da non imitare: colpi fuori campo, combattimenti confusi e illeggibili ci hanno nauseato nel decennio post-Supremacy principalmente perché tutti hanno iniziato a montare e shakerare l’inquadratura convinti che facesse figo.
Supremacy non è perfetto, ma se nei decenni a seguire lo stile è stato imitato da tanti – e male – un motivo ci sarà: costa meno delle scene ben coreografate, i tagli veloci riducono la quantità di ciak e si può andare più allegramente di “buona la prima” che tanto poi ci pensa il montaggio (soprattutto quello sonoro). Se non tutti gli attori sono esperti d’arti marziali, né tutti i registi capaci di costruire scene action degne di tal nome, la shaky-cam dava l’idea che fosse facile per tutti. Spoiler: non è così.
C’è però un fatto: né Liman né Greengrass erano registi d’azione, ma avevano in mente uno stile, un’idea di realismo e ritmo diverse dal vecchio cinema action, e serviva anche ad aumentare l’illusione di strapotere fisico di un Matt Damon che non era esperto di arti marziali. Eppure la cazzimma di Matt è alle stelle, ingrugnato e livoroso come dev’essere un uomo non soltanto in cerca di verità ma pure di vendetta, inarrestabile e a suo agio in ogni scontro, in ogni città del mondo. C’è anche l’obbligatoria tappa italica, che in questa saga non manca mai.
Se già in Identity la sceneggiatura di Tony Gilroy si discostava decisamente dall’omonimo romanzo di Robert Ludlum, qui parte per la tangente scrivendo di testa sua e staccandosi dalla controparte cartacea, ormai rimasta lì per dare solo titolo ai film.
La storia comincia col buon Jason imboscato in India con la sua Marie, lontano dal mondo, a fare i conti coi brutti ricordi della vita da killer. Qualcuno pensa bene di tirarlo dentro a un intrigo internazionale usandolo come capro espiatorio. Madornale errore. Certo, la cosa avrebbe senso, visto che Bourne era un cane sciolto, una faccenda in sospeso che prima o poi andava chiusa, a lasciarmi basito è che cerchino di accopparlo solo dopo averlo incolpato. Il tempismo è tutto, e se fai parte della leggendaria “”intelligence”” americana (tante virgolette), il piano per incastrare Bourne è la peggio esecuzione mai vista di una mossa Kansas City.
Il personaggio di Marie viene fatto uscire di scena in maniera piuttosto ignobile. Franka Potente si fece il tour promozionale spoilerando neanche troppo velatamente al grido “dite ai produttori di non far sparire Marie!”. A me ‘sta cosa ha sempre dato fastidio – l’uscita di scena, non lo spoilerone di Franka – ma alla fine ha senso nella trama di Gilroy incentrata sulla vanità della fuga dal passato, che torna sempre.
Il casting di Supremacy è la fiera del talento e delle facce più o meno note di quegli anni. Il killer antagonista di Jason ha lo sguardo fisso di Karl Urban. L’arcigno e cazzutissimo Chris Cooper è rimpiazzato da una altrettanto cazzuta Joan Allen che da potenziale stronza si rivela uno dei più bei personaggi della saga. Brian Cox torna a fare il vecchio che spaccia paraculaggine per saggezza, st’infame.
Negli uffici della CIA scorgiamo sullo sfondo Michelle Monaghan, mentre acquista più spazio Julia “quella di Save the last dance” Stiles, a cui tocca una scena da brividi, quando incontra Giasone Furioso che le punta la pistola alla testa. Se volete la mia, è in questo film che Matt Damon è diventato grande, più convinto e a suo agio nel personaggio, ha fatto fare anche uno scatto alla saga e alla sua carriera.
Solo e nuovamente a caccia, Jason tenta di scavare nel suo passato, sempre più braccato dalla CIA e dagli agenti stranieri (i cattivi sono russi, ma fanno giusto i lacché al vero villain). A prima vista il titolo del film sembra sbagliatissimo: supremazia de che? Vediamo un uomo ferito nell’animo e nel fisico, ma è qui che capiamo veramente chi e cosa sia Jason Bourne: non una preda ma un cacciatore che agisce con freddezza, reagisce e progetta in tempo reale, sempre un passo avanti agli avversari. È questo che lo differenzia dai soliti eroi buoni nei film di spionaggio, che devono star dietro ai piani dei cattivi. Jason Bourne invece potrebbe essere lui il cattivo, la vera minaccia.
Supremacy dura meno di due ore e fila velocissimo. I personaggi sono sempre in movimento, Bourne da una parte all’altra del mondo e gli altri, beh, da un ufficio all’altro. Ma c’è il giusto peso in ogni dialogo, in ogni battibecco, e a dettare il tempo insieme al montaggio c’è un’altra colonna sonora magnifica di John Powell, che sale di giri negli inseguimenti (ma va fuori giri proprio nel gran finale, dove sfiora la cagnara).
Il duello tra Jason e Kirill (Karl Urban) avviene al volante, in una sfuriata di sgommate per le strade di Mosca. Di nuovo, dopo la plumbea Parigi, l’altrettanto fredda e spenta Mosca, perché gli inseguimenti nel mondo realistico di Bourne non avvengono sotto il sole, ma col clima che capita. Dopo la Mini, Jason deve cavarsela col primo taxi rubato che gli capita. Succede tutto così velocemente che quasi non ci accorgiamo che Jason stia facendo tutto ‘sto gran casino solo per riacquistare un piccolo, sporco ricordo, e fare i conti coi suoi delitti.
Come in Identity, tutto è spettacolare ma non spettacolarizzato. Non ci sono minacce mondiali, c’è solo la battaglia personale di una scheggia impazzita, l’agente perfetto che si rivolta contro un sistema di piccoli burocrati che hanno il potere di decidere della vita e della morte da dietro una scrivania. Non è un mondo manicheo, è spogliato dai miti, dai grandi ideali, dalle fregnacce su dovere e onore al servizio di Sua Maestà o dello Zio Sam. Oh, non voglio sparlare di Bond o Ethan Hunt, ma Bourne è un diverso approccio allo stesso genere, ha contribuito a definire parte dello stile di quelle saghe e, dal punto di vista del racconto e del sottotesto, dà una pista a tutti. Per avere la visione d’insieme però bisogna arrivare al terzo capitolo, e scoprire tutti i fantasmi del passato.
Il finale di Supremacy svela finalmente il nome del protagonista, in quella scena che sembra chiudere l’odissea ma fa solo da prequel al terzo film. L’attacco sui titoli di coda di Extreme Ways di Moby, che chiudeva anche The Bourne Identity sa di paraculata, perché richiama il precedente lieto fine in questo film molto più amaro, ma riesce sempre a rimettermi in pace con me stesso. Restate sintonizzati perché la fuga di Jason si concluderà con “The Bourne Ultimatum”, prossimamente su questi loculi.
Grazie a Quinto Moro per aver affrontato con coraggio il mal di mare da shaky-cam con questo post. Vi ricordo che potete trovare i suoi lavori premendo il grilletto QUI per spararvi uno dei suoi racconti.
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