Ci siamo. L’ultimum capitulum della trilogia di Bourne. Sì, trilogia, perché ve ne parla il nostro Quinto Moro che non sente ragioni a riguardo: è come la saga di Indiana Jones, sono 3 film, avete capito? Tre. Allacciate bene le cinture perché si va a tutta velocità, dritti verso la verità. Corri Jason, corri!
Partiamo dalle cose brutte: il titolo. The Bourne Ultimatum: Il ritorno dello sciacallo. I cari titolisti italiani si sono svegliati – male – all’ultimo film per aggiungere il sottotitolo che non c’entrava una ceppa. Chi è, dov’è lo Sciacallo? Lo Sciacallo è un assassino, rivale di Bourne nei romanzi di Ludlum ma nei film non s’è mai visto. Ma l’Ultimatum del film c’avrà un senso almeno? Macché. È solo la tradizione di far coincidere i titoli coi romanzi di Ludlum, finiti nello sciacquone del gabinetto di casa Gilroy, che nelle sue sceneggiature aveva ben altri piani per il tormentato Jason Bourne. Fine delle cose brutte.
Io non credo più ai trailer dal 2005. Ma quant’era salito forte e veloce il fomento in quel 2006/2007 per l’utimatum episodium della saga? Tanto. Tantissimo. Anche perché il trailer italiano c’aveva fregato tutti con quel: “io ricordo, ricordo tutto!” Spoiler: non era vero, ma è proprio questo il bello. Il film racconta l’ultima parte del viaggio di Jason verso la verità. L’inafferrabile, oscura, mitologica verità che non sembrava così sfuggente dai tempi d’oro di X-Files (che per chi non lo sapesse era tutto un “la verità di qua, la verità di là” e non si scopriva mai una ceppa). Se l’America post 11 settembre 2001 aveva messo da parte – un pochino – i complottismi e le sfiducie governative, spegnendo le simpatie verso tutto ciò che era dubbio e contestazione al Governo, per me la trilogia di Bourne ha avuto l’inaspettato e trascurato merito di riaccendere un pizzico di sana critica al patriottismo farlocco della presidenza Bush Jr. Non è un caso se la successiva collaborazione tra Paul Greengrass e Matt Damon fu Green Zone, costruito attorno all’Iraq distrutto dalle fregnacce sulle armi di distruzione di massa che non c’erano.
Dietro una confezione tecnica perfetta, dietro a inseguimenti girati e montati non da Dio, di più, Ultimatum riesce ad essere un film politico nel modo più efficacie e inaspettato possibile, sbattendoci in faccia quella verità così densa di significati che vanno al di là del racconto in sé. All’epoca mi accontentavo di inseguimenti e sparatorie, ma qui c’era qualcosa di più. Quella di Jason Bourne non è mai stata la lotta col “cattivo della settimana” come per altre super spie, non era una lotta per il destino del mondo ma una lotta per l’anima stessa dell’America post 11 settembre, di ogni uomo che imbraccia le armi abdicando dalla sua coscienza e uccide per seguire un ideale.
Ultimatum riparte dal finale di Supremacy, la fuga da Mosca addizionata coi flashback e le inquadrature tremolanti di Greengrass, tutto sfocato, tutto confuso, ma con intenzioni molto chiare: “non è con te che ce l’ho” dice Jason, risparmiando la vita a uno sbirro disarmato. Se Supremacy era il capitolo della vendetta e della rabbia, Ultimatum porta all’evoluzione completa del personaggio.
Gli eventi del secondo e terzo film sono strettamente legati, ma è tutto chiaro e leggibile già al minuto 5, quando con disarmante facilità il capo della CIA (Scott Glenn) riassume tutto in un lampo: un ex agente fuori controllo ha consumato una vendetta personale contro un capoccione corrotto. L’ex agente – Bourne – è ancora a piede libero e un grave imbarazzo per l’agenzia. Conciso. Asettico. Persino irritante, ma sufficiente a rendere godibile il film a chi non conoscesse gli altri capitoli. Se dovete recuperare – o rivedere – la saga fatevi un favore e seguite l’ordine cronologico, anche perché Ultimatum è il punto d’arrivo di tante cose, della storia e dello stile di una trilogia che raggiunge la sua forma perfetta.
Gli eventi che riporteranno Jason a New York, in braccio a mamma CIA – una mamma da marciapiede – passano dal solito tour di città in giro per il mondo, con tradizionale tappa iniziale nostrana (Torino), e l’incontro londinese con un giornalista (Paddy Considine) che segue le mollichine lasciate da Jason e soci – cioè cadaveri.
Lo script di Tony Gilroy aggiunge nuovi personaggi e rafforza quelli già noti. Apro e chiudo parentesi su Gilroy, che ha scritto tante sceneggiature più o meno buone, ma è nella continuità e maturazione di questa saga che ha realizzato il suo lavoro migliore, ignorando i romanzi di Ludlum per sostituirli con una sua visione.
Ultimatum arricchisce la schiera dei figli di mamme da marciapiede: dal Dr. Hirsch di Albert Finney – archetipo del creatore con cui confrontarsi alla fine del cammino – all’infame e bravissimo David Strathairn che dà una caccia spietata a Bourne. Gli assassini mandati a morire uccidere Jason sono abbastanza anonimi ma il duello con Desh a Tangeri è il più soddisfacente e completo di tutta la saga.
Joan Allen si conferma come “anima onesta della CIA” nonché di tutta la saga, anche se scivola sul classico “non mi sono arruolata per questo”, il personaggio di Pamela Landy è credibile per coerenza e personalità.
La saga ci ha regalato dei personaggi femminili solidi, qui si fa addirittura il bis con l’inaspettato salto di qualità di Julia Stiles e della sua Nicky “prezzemolina” Parsons, che incrocia per l’ennesima volta il cammino di Jason e ci regala le scene emotivamente più forti della pellicola. Senza spiegoni, passando per silenzi, sguardi e pochissime parole, spunta un’intera storia di non detti, di un passato tra i personaggi che appartiene alla memoria di Nicky, ma non a quella di Jason ormai svanita.
Sulla prova di Matt Damon non c’è niente da dire. Matt Damon è solo uno dei nomi, una delle identità secondarie di Jason Bourne. Corre, picchia, guida come se non avesse fatto altro tutta la vita, anche se dal punto di vista emotivo è in Supremacy che abbiamo visto il suo lato più umano, quello fragile e quello rabbioso. Qui Jason è in pieno controllo della situazione, una macchina non più difettosa ma perfettamente funzionante, agli ordini solo di se stesso.
Julia Stiles invece ha sfruttato la prima vera occasione di far sbocciare il suo personaggio, portando a casa una scena dopo l’altra, rendendo la sua presenza nella saga ancora più significativa. E lo fa tra esitazioni, pause e sguardi che dicono tutto. Vale per la scena della caffetteria come per l’addio all’autobus, per poi regalarci LA scena che chiude degnamente tutto quanto: un sorriso, che è anche quello di noi spettatori mentre riparte la canzone ufficiale della saga, “Extreme Ways” di Moby in un nuovo arrangiamento.
I tre anni passati dal secondo al terzo capitolo sono stati una vera manna. La Universal ha aggiustato il budget aumentando quello per le trasferte e riducendo quello per il caffè di Paul Greengrass, a cui suppongo abbiano fornito massaggiatori, maestri di yoga, tisane e camomille per contenere i tremori registici. Paulino Tarantolino è passato dal “muovo l’inquadratura, poi di più, poi su e giù, poi una giravolta e la faccio un’altra volta” al più posato “muovo un po’, poi mi fermo e lascio lavorare montaggio e musiche”. Ecco, le musiche di John Powell ormai marchio di fabbrica della saga, fanno un ulteriore passo avanti, miscelando sonorità vecchie e nuove per accompagnare alla grande ogni scena. Non sono generiche rullate da film d’azione, sono riconoscibili, intense, giuste.
La shaky-cam ha fatto danni nelle mani di registi e produttori che ci hanno visto la via facile per far sembrare tutto movimentato. Ma com’era stato per il bullet time dopo Matrix (e che la saga di Bourne forse ha contribuito a disinnescare, ma è una mia idea), una tecnica funziona davvero solo nel suo contesto.
In Ultimatum la regia di Greengrass trova la quadra definitiva, il ritmo del film è perfetto, non solo nelle scene action – una meglio dell’altra – ma anche nei momenti più “rilassati”, pochi ma straordinari.
Tutto è fatto in grande, con scene di massa a nascondersi dai cattivi alla stazione di Londra – con Jason in versione precog da Minority Report – e soprattutto a Tangeri col campionario completo del cinema d’azione: inseguimento in moto, a piedi, per strada e sopra i tetti, e finalmente un gran combattimento corpo a corpo. Lo scontro con Desh è duro e intenso, finalmente leggibile e ben coreografato pur mantenendo uno stile sporco e frenetico. Jason completa la challenge “armi letterarie” dopo aver combattuto con una penna (in Identity), un giornale (Supremacy), e stavolta con un libro. Desh, il killer più agile, furbo e cazzuto viene preso a librate in faccia.
Ultimatum rispetta in grande stile la regola aurea dei sequel, uguale ai primi, ma di più. Molto di più. Dopo Mini e taxi dei film precedenti, per lo showdown newyorkese Jason aggiunge al campionario un’auto della polizia da macellare nell’infernale traffico della Grande Mela. In generale la trilogia ripete situazioni e schemi senza però scadere nel già visto. Gli inseguimenti a Mosca e New York si somigliano nell’epilogo e persino nell’inquadratura finale. Le scene con Nicky richiamano tutte quelle con Marie, dalla caffetteria al taglio dei capelli. E c’è ovviamente l’immancabile momento Spider-Bourne.
Il successo e l’unicità della trilogia rispetto ad altri prodotti d’azione viene anche al sottotesto mica da ridere, che arriva e colpisce duro nel momento giusto, senza troppe fregnacce e chiacchiere a vanvera. È un prodotto d’azione e intrattenimento, ma pure un solido racconto sull’identità, sul riappropriarsi del proprio destino e fare i conti col passato: in Identity Jason non ne ha uno e vorrebbe scoprirlo. In Supremacy i fantasmi e i sensi di colpa lo tormentano. In “Ultimatum” c’è da fare i conti con la verità, col peccato originale, e finalmente emanciparsene. Chi sono. Cosa ho fatto. Cosa mi hanno fatto. Un percorso tortuoso, umano, condito con sparatorie, inseguimenti e morti ammazzati. Potevamo chiedere di meglio? Extreme Ways, come da tradizione, per chiudere il viaggio.
Grazie a Quinto Moro per averci protetti dalla CIA in questo viaggio periglioso. Vi invito a scoprire i suoi racconti QUI.
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Quinto Moro ha detto:
(>Vasquez) Felice di averti convinto a rivederli. Strathairn c’ha la faccia da brutto figlio di puttana come pochi, peccato non abbia avuto più ruoli da villain.
Le traduzioni dei titoli possono essere belle o brutte, di base non sono contrario salvo qualche scempio, in questo caso era del tutto insensata perché non ci azzecca proprio col film.
Vasquez ha detto:
Ah vedi, non sapevo che i titoli si rifacessero ai romanzi (da cui sono rimasta alla larga, cosa insolita per me, ma quando ho appurato che avevano poco o niente a che fare con la saga filmica non ci ho neanche provato), per quanto mi riguarda in base a quello che si vede su schermo avrei invertito i titoli del secondo e del terzo, perché qui si vede proprio “La supremazia di Bourne”, dove si ha l’evoluzione completa del personaggio, come dici giustamente (altro che forma perfetta: fa jogging a una velocità impossibile!). Che tra l’altro chissà che male c’era a tradurre tutti i titoli in italiano…mah…
Che altro dire? Concordo su tutto, in primis sul bravissimo David Strathairn che riesce sempre a farsi odiare come pochi, appropriata poi la descrizione della sequenza alla stazione di Londra “con Matt in versione precog”, non so perché la ricordavo in aeroporto, e pensare che mi esaltò tantissimo al cinema! Ho rivisto con molto piacere questa saga di 3 film con l’occasione di questi post, è una saga invecchiata davvero bene, o forse non invecchiata affatto…
Quinto Moro ha detto:
Direi che sì, JB ha ancora senso anche oggi, o almeno ce l’ha questa trilogia. Più senso dei classici eroi che devono salvare il mondo sempre e solo da minacce esterne, o che siano sempre perfetti in tutto e senza colpe da espiare, senza evolversi.
Avercene di film d’azione così, in qualsiasi epoca.
CREPASCOLO ha detto:
Carabara, se fossi un asset o operator o variante il mio nome sarebbe Caffeina perchè bollitore e caffè liofilizzato sono la mia coperta di Linus e questo spiega perchè a Cinelandia nessuno mi faccia più dirigere nulla da quando ho bruciato il budget per un remake di La parola ai giurati in una variante che sembrava un incubo di Mike Bay. Cattivi. Condivido la tua analisi e mi chiedo se JB abbia un senso in questo periodo. Ho letto i primi tre romanzi di Mick Herron sugli Slow Horses che Gary Oldman ha reso popolari nelle piattaforme (doveva andare in pensione, ma ho letto che ha firmato almeno fino alla quinta stagione) e sono tutti retti dal concetto che le minacce sono tutte interne e relative a giochi di potere politici in UK. Sono, temo, superati dagli ultimi due anni di conflitti e mi chiedo se il Ludlum/Herron/LeCarrè di domani non dovrà inventarsi una combo di Snowden/Assange che grida al lupo inascoltato. Mm. Ciao ciao
Cassidy ha detto:
Come diresti tu, le note sono sette e Oldman ha trovato di che pagarsi divorzi e pensione, buon per lui peccato per noi, il tuo ” La parola ai giurati esplosivi” lo avrei guardato volentieri 😉 Cheers!