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The Brutalist (2025): tu non sei David Lean, sei uno che gli somiglia e si vuole atteggiare

Vi ricordate quando i Monstars hanno rubato il talento ai giocatori dell’NBA e Charles Barkley sconsolato, al campetto, si faceva stoppare da una ragazzina di dodici anni? Lei non paga ha anche calato la pietra tombale: «Tu non sei Charles Barkley, sei uno che gli somiglia e si vuole atteggiare. Vattene via! Non farti più vedere! Buffone! Impara a giocare!», bene è più o meno quello che ho pensato dopo aver visto il film di oggi e vi sfido a trovare un’altra pagina di cinema che inizia un post su “The Brutalist” citando Space Jam.

Sullo sfondo, una esempio di architettura brutalista, in primo piano, una brutale stoppata.

Da dove arriva questo bizzarro ragionamento? Dalla mia testa matta ovviamente, ma anche dal fatto che causa impegni vari, non sono riuscito ad andare in sala a vedere “The Brutalist” il primo giorno, il mio solito giovedì. Incastrato a casa per impegni vari ho pensato di fare quello che faccio sempre, guardarmi un film, l’avreste mai detto che io sia uno che riempie il tempo guardando film? Cosa ho scelto? Uno di cui ci sentirete parlare a stretto giro con i Tre Caballeros di cui non vi dirò il titolo, ma solo che lo ha diretto David Lean, dura quindici minuti in meno di “The Brutalist”, ha un overture musicale (che però non sfrutta per fare minutaggio) e se ci pensate, non è poi così impossibile da indovinare, il problema è che nel confronto quasi diretto, il film di Brady Corbet ne esce non con le ossa rotte, come Sir Charles contro la ragazzina, ed ora, piccolo ma doveroso passo indietro.

“Béton brut”, ovvero cemento a vista, ecco la definizione di “Brutalismo”, uno stile architettonico essenziale che dava priorità alla ricostruzione in un periodo, come quello del dopoguerra, dove la priorità era proprio questa, ricostruire piuttosto che dare spazio a soluzioni estetiche barocche che sarebbero risultate inutilmente frivole, oltre che fuori luogo. Pur essendo diventati in alcuni casi dei classici, gli edifici brutalisti sono spesso stati considerati alla stregua di ecomostri, forse anche per motivi che vanno oltre il gusto estetico, colpevoli secondo alcuni di voler rappresentare un futuro più equo che però non si è mai manifestato, perché sopraffatto dal capitalismo. Voi siete liberi di non crederci, ma vi ho in buona parte raccontato (anche) di cosa parla “The Brutalist”.

«Il primo che cita Ian Malcolm lo meno»

Ammetto candidamente di non aver dato il giusto peso al cinema di Brady Corbet, non è mia abitudine esibirmi nello sport nazionale, il salto sul carro del vincitore, continuo a preferire la pallacanestro, i suoi film precedenti mi avevano convinto il giusto, quindi parliamo dell’elefante al centro della stanza: per riassumere i trent’anni della vita di Laszlo Toth (dal 1950 al 1980), il regista impiega 215 minuti, che sono quelli che hanno fatto tanto parlare del film, almeno quando l’aiutino dell’intelligenza artificiale utilizzata per migliorare la pronuncia dell’ungherese di Brody, che poi parliamoci chiaro, è un po’ l’equivalente dell’auto-tune nella musica contemporanea, quindi… STACCE!

Architetto ebreo ungherese sfuggito all’Olocausto e rifugiatosi negli Stati Uniti, viene affidato all’attore che aveva già vinto un Oscar proprio con un ebreo perseguitato, guardi il László Tóth di Adrien Brody ed è automatico ricordarsi del bellissimo film di Roman Polański, “Il pianista” di cui Brady Corbet sfrutta l’assist perché al regista interessa parlare (anche) dell’Olocausto sì, ma non direttamente, quindi si concentra sull’arrivo in America di Tóth e proprio qui va in scena la prima, bella, ma didascalica scena del film, sparata dritta sulla locandina, tangenzialmente anche la più citata dalle penne stipendiate, dopo aver visto il film all’ultimo festival di Venezia, perché ho il sospetto che dopo, o si siano addormentati o siano andati a scrivere qualcosa da pubblicare in fretta e furia, per un film che meriterebbe più tempo, anche per essere giudicato.

«Hai da accendere?»

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Ne determinano tutto l’andamento, l’arrivo a Staten Island di László Tóth è beh, brutale, emigrati su una nave in cerca di speranza in una scena convulsa, corpi che sbatacchiano e sgomitano, sembra cerchino di sovrastarsi per sopravvivere anche quando festeggiano, non tanto distanti dai corpi ammassati nei campi di concentramento alla quale molti di loro sono sopravvissuti, anche quando vediamo la statua della libertà è rovesciata, in una soluzione visiva lo ripeto, molto potente ma didascalica da morire, Lady Liberty a testa in giù, davvero Corbet? Per fortuna ci pensano le musiche di Daniel Blumberg a salvare tutto, quelle si veramente in odore di brutalismo per quanto scane me terribilmente a fuoco nella loro efficacia.

I capitoli che scandiscono la vita di László Tóth ci regalano momenti in cui Brady Corbet è davvero sul pezzo, c’è più America nelle file di persone povere, provenienti da tanti Paesi differenti, in attesa di un po’ di cibo, che in tanti comizi elettorali alla moda, l’altra faccia della medaglia è il modo in cui il regista un paio di fighettismi tipici della A24 che produce debba metterceli per forza, dando un calcio al secchio del latte della sua idea di fare un film che sia esso stesso un’opera brutalista: una produzione semi indipendente, per evitare di incappare in imposizioni dall’alto, un’idea di architettura del film fuori dal tempo, perché se lo strutturi come un film di David Lean, overture musicale compresa, vuoi proprio puntare al passato, peccato che in un’opera così volutamente maestosa, poi la maestosità sia solo percepita.

«Ma che roba è? Chi ma messo tutta ‘sta roba? Via togli tutto, cemento, C-E-M-E-N-T-O!»

Si perché malgrado la durata che ha spaventato tanti (specialmente le penne stipendiate che non hanno scritto d’altro) succedono tanti eventi in “The Brutalist” e si seguono tutti molto bene, detta in parole povere, la prima ora fila alla grande e la seconda anche meglio, il ritmo è ottimo e la durata non si avverte, dimostrazione che Brady Corbet è tutto tranne che un pessimo regista, anzi, tanto di cappello, il problema è che in troppi momenti tutto è sulle spalle del solo Adrien Brody, che la tendenza a marcare gli accenti e ad esagerare già di suo la possiede, quindi qui carica parecchio, anche nella sua prova, perché sa di avere tutti gli occhi addosso, il risultato è ottimo, ma è chiaro che l’attore non sia parte di qualcosa che funziona perché maestoso in tutte le sue parti, quindi debba fare di più per cercare di tenere il film al livello, piuttosto altino, dove vorrebbe stare.

«Sono i piani della Morte Nera?», «Si, i disegni di papà»

Menzione speciale per Felicity Jones in una delle sue prove migliori e lei sì, più matura in assoluto, non credo si parlerà abbastanza della sua prestazione qui, in un ruolo sfaccettato e non semplice, a cui purtroppo devo dirlo, non arriva Guy Pearce e con lui, il regista. Vado a spiegare, questa è da argomentare a modino.

Da una parte, l’artista tormentato che non ha superato l’Olocausto e che si auto distrugge, anche con la droga, László Tóth. Dall’altra il finanziatore, il capitalista Harrison Lee Van Buren che quell’arte non la capisce anzi, la schifa proprio inizialmente, poi se ne trova travolto e pur continuando a non apprezzarla la vuole sfruttare, qui arriva il secondo grosso, enorme, momento didascalico di un film che si chiama “The Brutalist” solo perché “The Didascalic” sarebbe suonato male. Con un film di tale portata Brady Corbet avrebbe dovuto sfornare il lavoro della maturità, quello con cui avrebbe dovuto fare un salto in avanti, purtroppo troppo spesso scivola nel didascalico spinto e non trova in Guy Pearce un attore in grado di mettere su un ruolo di potere, un po’ come quello che abbiamo visto tra Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix nel mai abbastanza citato “The Master” (2012) di Pitì Anderson.

Vi dico tutto senza dirvi niente, la scena della cava mi è sembrata più che altro l’ennesimo momento inutilmente, non voglio usare la parola pruriginoso, ma diciamo scioccante, come gli inserti di pornografia, le stanze del buco o l’intimità varia sparsa lungo i duecentoquindici minuti del film, per non parlare del fatto che è un METAFORONE di quelli brutti, di quelli scritti con il pennarello a punta grossa. Sul serio Corbet mi riassumi il rapporto tra l’artista e il capitalista così? Questa dovrebbe essere la maturità narrativa raggiunta?

Una carriera da eterno cattivo infame e quando deve farlo alla grande me lo sbagli, uff!

Nel finale poi torna a colpire il terzo ed ultimo momento didascalico, ho trovato molto bello il modo in cui Corbet ha saputo sfumare fino agli anni ’80, ma era davvero necessario il monologo del personaggio che spiega anche a quelli che si sono addormentati in sala che tutta l’arte del protagonista è una sua reazione a quello che ha visto nei campi di concentramento? Non era già chiarissimo? Non si poteva usare il cinema per raccontarlo come fa il film per buona parte della sua durata, no? Bisognava spiegarlo a chiare lettere, e qui il problema grosso, non solo di “The Brutalist”.

Vi scrivo mentre è fresca la notizia della famiglia Broccoli che ha (s)venduto i diritti di James Bond alle piattaforme, regalando così una delle ultime roccaforti del cinema allo stato puro al piccolo schermo, quindi io credo che presso gli spettatori, e temo ancora di più soprattutto presso la stampa specializzata, si sia persa quell’abitudine, non solo a prendersi del tempo per valutare un’opera (come successo a molti edifici brutalisti ad esempio) ma proprio a ragionare in termini di cinema, un film deve essere grande per forza perché dura tanto? Dura come una serie tv e magari, ha dentro un overture musicale? Basta davvero così poco ad urlare al capolavorone totale? Inoltre a dirla tutta, l’altra faccia della medaglia potrebbero essere i cinefili duri e puri, in cerca di una “sfida” da duecentoquindici minuti, ma davvero bisogna fare ‘sti giochetti a chi lo ha più lungo (il film)? Insomma sono perplesso e penso che “The Brutalist” non abbia abbastanza per superare il chiacchiericcio alla sua uscita e durare davvero nel tempo, fino ad essere pienamente compreso e magari rivalutato, come un edificio brutalista insomma.

Per me “The Brutalist” è un bel film, esteticamente impeccabile nel suo VistaVision in pellicola 35mm, ma allo stesso tempo è un film che sfrutta l’architettura brutalista quasi niente, ci sono esempi ben più riusciti anche recenti in tal senso.

Eccovi un esempio di un film, anche abbastanza semplice da indovinare.

Personalmente io come viaggetto cinematografico ve lo consiglio, anche molto, ho trovato dentro molto del cinema che mi piace, il problema è che “The Brutalist” doveva essere il film della maturità del regista e non lo è, poteva essere grandissimo invece è “solo” un bellissimo film, avercene ripeto, ma in generale mi sento la ragazzina al campetto, che guarda Corbet dicendogli: «Tu non sei David Lean, sei uno che gli somiglia e si vuole atteggiare.»

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