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The Dirt (2019): Üna banda di idiöti

Curioso il destino di questo film, curioso soprattutto per
il fatto che inevitabilmente verrà etichettato come l’Anti-Bohemian Rhapsody che, poi, è anche la cosa più semplice da dire su
questo film e proprio per questo, non è nemmeno così esatta.


Sì, perché “The Dirt” è in giro più o meno dal 2001, quando i
Mötley Crüe con l’aiuto dello scrittore Neil Strauss pubblicarono le cronache
delle loro gesta, nel libro omonimo, talmente strapieno di aneddoti sulle loro
follie da essere una lettura molto consigliata.

Nikki Sixx, bassista del gruppo e vero Líder Máximo dei Mötley
Crüe ha sempre sostenuto che per adattare il libro in un film all’altezza, ci
voleva qualcosa di meno hollywoodiano possibile, in questo senso i soldi messi
sul tavolo da Netflix al grido di: “Ma fate un po’ il caXXö che volete” sono
tornati molto utili.
La sensazione che ho avuto guardando “The Dirt” è che di
fronte a così tanti folli racconti di feste pazze, tutte le persone coinvolte
nella creazione del film si siano fatti prendere dall’ansia di cercare di
stipare in due ore quante più di quelle assurde storie. Il risultato è una
serie interminabile di momenti clamorosi, molti dei quali di autodistruzione
umana, un po’ come una puntata di Jackass con una colonna sonora più rumorosa
e non credo sia un caso che il regista Jeff Tremaine arrivi proprio dalla
popolare serie di EMMETivì.

L’effetto videomusicale, direi che è abbastanza garantito no?

Il fatto che Netflix abbia rilasciato il film sulla sua
piattaforma lo scorso 22 marzo, crea inevitabili paragoni con il più pettinato
Bohemian Rhapsody, un po’ come se il cinema fosse il regno del perbenismo e il
celebre canale streaming il Robin Hood delle libertà nei film, sarebbe
riduttivo perché “The Dirt” dal film di Bryan Singer Dexter Fletcher
Bryan Singer prende in prestito la struttura molto classica (genesi del gruppo,
ascesa, caduta, ritorno e concerto finale… su questo lasciatemi l’icona aperta
che ci torniamo), ma il risultato finale è un film molto più corale.

Perché, non raccontiamoci balle, Bohemian Rhapsody era sulla carta il film dei Queen, ma
ufficialmente lo spettacolo personale di Rami Malek, qui tutti i Mötley Crüe
hanno lo stesso spazio, anzi, si alternano nel ruolo di narratore, sgomitando
per emergere, con un trucchetto che avvicina il film alla narrazione del libro: i protagonisti guardano in camera, si rivolgono al pubblico, mandano avanti le
parti noiose della storia (tipo la riabilitazione del gruppo), rendendo loro il
film come il periodo storico in cui hanno vissuto, suonato e fatto festacce
nere, giusto per ricollegarmi alla frase iniziale del film.

“Sbaglio, oppure ho sentito qualcosa muoversi sotto il tavolo?”

Proprio i primi cinque minuti (quelli famigerati, che
determinano tutto l’andamento) sono notevoli, si parte nel mezzo di una festa con
almeno una scena decisamente esplicita che mette subito in chiaro che qui la
faccenda, sesso, alcool e droghe verrà trattata e in questo senso, sì, il film
è davvero l’Anti-Bohemian Rhapsody. Ma per il resto pare una pellicola che ha
preso appunti imparando dalla concorrenza.

Quell’adorabile banda di cazzoni dei Mötley Crüe è
sempre stata bravissima a vendere il suo prodotto preferito (se stessa) e a
differenza degli MWA non ci pensa nemmeno di farsi descrivere come dei
santarellini come accadeva in Straight outta Compton, il film di Jeff Tremaine dimostra di aver fatto i compiti a
casa perché al pari di Lords of Chaos,
sa bene che i fan del gruppo conoscono a memoria tutte le storie, hanno letto e
riletto il libro e si sono consumati le cornee sulle foto e i video del
gruppo, quindi la ricostruzione degli eventi è piuttosto riuscita, i titoli di
coda che (al pari di “The Room” / The disaster artist) confrontano le scene dal film all’originale
sembrano messi apposta per sottolineare questo concetto, in un modo meno
ruffiano di quanto fatto da “Bohemian Rhapsody” e i suoi venti e passa minuti
di Live AID trasformato in una fredda e ruffiana coreografia.
Nella sua struttura molto classica (interrotta soltanto dagli
stessi protagonisti che si rivolgono spesso al pubblico), “The Dirt” azzecca il
quartetto di protagonisti molto bene, certo, a volte semplificandoli, ma
cogliendone piuttosto bene l’essenza.

Il vecchio, l’entusiasta, lo scappato da casa e il cantante di cover: una vera banda di idioti

Il bassista Nikki Sixx (Douglas Booth) che scappa di casa e adotta lo stile di vita da Rockstar e un nome
all’altezza, oppure il vecchio chitarrista Mick Mars (Iwan Rheon il “Gordon”
Ramsay Bolton di Giocotrono) un marziano di nome e di fatto, decisionista e
risoluto come solo chi ha una rara malattia e ben poco tempo da perdere può
essere.

A completare il gruppo, il biondo cantante Vince Neil (Daniel
Webber visto in The Punisher), un
David Lee Roth ancora più laido, ma dalla voce potentissima e il batterista
dall’innamoramento facile, Tommy Lee (interpretato dal rapper Machine Gun Kelly)
un po’ il bambinone entusiasta del gruppo, forse anche troppo frettolosamente
caratterizzato come quello che saluta tutti: «Yo man cool!».
Perché alla fine i Mötley Crüe di questo film sono così, un
po’ abbozzati, ma affidati all’attore giusto e, soprattutto, perfettamente
aderenti allo stereotipo delle Rockstar tutte sesso, droga e Rock ‘n’ Roll a
cui il gruppo ha sempre ambito. Incredibilmente tutto questo funziona, anche
piuttosto bene, quindi anche se ritengo improbabile che non abbiate mai sentito
nessuna delle loro canzoni, “The Dirt” ha tutto per far appassionare il
pubblico generalista a questa banda di cazzoni e il fatto che il film sia
parte del catalogo Netflix, gli garantirà probabilmente molti più spettatori di
quanti un film così avrebbe mai avuto al cinema, anche se sul grande schermo ci sarebbe stato benissimo.

L’altra faccia della medaglia è che, beh, Jeff Tremaine non
ha la grazia di Bryan Singer Dexter Fletcher Bryan Singer, quindi
non aspettatevi un film girato con tutti i crismi, ma quando hai così tante
folli storie da raccontare, alcune scene risultano vincenti anche se girate da
uno che pare abbia fatto festa tutta la notte con il gruppo. Ad esempio, la
scena della giornata tipo di Tommy Lee in tour (che è uno dei capitoli più
spassosi del libro) vive di prepotenza solo perché è uno spasso di suo, ma anche qui, per un film arrogante e volutamente maleducato
come solo la storia dei Mötley Crüe può (e deve!) essere, diventa quasi un
problema secondario.

Nön devö scrivere nülla, vögliö sölö üsare qüalche ümlaüt a casö.

Certo, bisogna dire che il cameo a bordo piscina di Ozzy
Osbourne (l’azzeccato Tony Cavalero) è uno dei più raccontati della storia del
Rock ed è girato con l’ansia di chi vuole infilarlo nella storia per forza a
tutti i costi, così come l’incidente stradale di Vince Neil, le cui drammatiche
conseguenze vengono descritte anche fin troppo frettolosamente.

Purtroppo, il difetto principale di “The Dirt” è un po’
sempre lo stesso di tutte le biografie a tema musicale, ovvero lasciare
l’elemento più importante sullo sfondo: tutto diventa la lunga cronaca delle
sfighe, i pompini, le scopate e la droga consumata tra un disco e l’altro,
saltellando da una storia (vera) all’altra.

“Take me to the top” diventa perfetta per il “montage” alla Rocky sulla scalata al successo del
gruppo, la ballata più famosa del gruppo, “Home sweet home” entra in scena come
un pezzo fatto e finito quasi secondario, mentre “Shout at the devil” perfetta
per mostrare la potenza del gruppo sul palco. La sua capacità di
sfornare orgogliosi e arrogantissimi pezzi in grado di celebrare il lato più
glam della musica va sotto bevendo dall’idrante contro l’ansia nel raccontare
il più possibile di quelle storie tutte matte contenute nel libro, il che è un
vero peccato.

I’m on my way, I’m on my way, Home sweet home…

Ma al netto di tutti questi difetti più o meno grandi, “The Dirt”
funziona, non è per nulla ruffiano o moralista e visto che avevo un’icona da
chiudere lo faccio subito: strano parlare di buon gusto in un film così
spregiudicato, ma “The Dirt” ha il buon gusto di terminare dove avrebbe dovuto
concludersi anche Bohemian Rhapsody,
sulla scalinata verso il gran concerto finale, proprio un attimo prima di
risultare ruffiano e perdersi l’attenzione del pubblico, conquistata fino a
quel momento a colpi di trovate sopra le righe.

Ora, se ho fatto bene i calcoli, la prossima biografia
musicale sarà “Rocketman” su Elton John, per ora “The Dirt” è una delle più
divertenti su cui vi può capitare di mettere gli occhi, ma visto che siamo in
tema, anche le orecchie.

Per qualche altro parere vi ricordo, il Cumbrugliume al basso, In central perk alla batteria e Non c’è paragone alla chitarra solista!

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