Like a dog without a bone, an actor out on loan, Riders on the storm? No, no no, direi che oggi siccome è venerdì siamo più dalle parti di versi decisamente meno poetici di quelli di Jim Morrison, che però cominciano comunque con la parola “Like”… Like a Stone!
Anno di grazia 2024, tiri un calcio al muro e ti cadono in testa una carrettata di film ispirati alle vite dei cantanti diversamente vivi. Sono reduce da quello inguardabile su Bob Marley, dove per raggiungere i novanta minuti di durata canonica ci hanno infilato a forza dialoghi pieni di «Rastafarai» nemmeno fosse un gioco alcolico. Insomma Bohemian Rhapsody ha fatto più danni della grandine, una storia finta come una banconota da tre Euro, basata su quella che io chiamo “L’effetto ma è uguale”, quello che fa puntare il ditino del pubblico verso lo schermo dicendo «Ma è ugualeeee!», che sarà sicuramente in azione nel film dedicato ad Amy Winehouse che immagino, sarà sullo stesso andazzo ma che penso salterò molto volentieri, devo ancora riprendermi dai Rastafarai.
Anche se va detto, pescando dal “Club del 27”, qualcuno in tempi non sospetti aveva firmato il suo film dedicato alla vita di un artista famoso e amatissimo, prima di tutti e anche prima che io coniassi l’etichetta di “Effetto ma è uguale”, ovviamente scatenando un mezzo putiferio in un’epoca pre-Internet, perché farlo oggi con i Social-Cosi, buoni tutti, provate a farlo nel 1991! Ovviamente mi riferisco al titolare di rubrica, il nostro Oliviero Pietra.
Perché Oliver Stone doveva essere interessato ad una biografia, tutto sommato canonica nelle intenzioni, su un artista come Jim Morrison? Facilissimo, pura e semplice passione per la musica dei Doors, il gruppo preferito del regista, quello i cui versi cita a ripetizione anche tra le pagine della sua autobiografia “Cercando la luce” (2020, edita qui da noi da la nave di Teseo), passetto indietro? Anzi, facciamone due: Il Conan mai realizzato da Oliver Stone per motivi di budget, era un guerriero ovviamente dalla zazzera corvina e lo sguardo torvo, come da canone imposto da Robert E. Howard, ma nella versione di Stone era anche benzinato a vino e una serie di altre sostanze più o meno psicotrope figlie dell’era Hyperborea. Un guerriero moro e capellone, pieno di droghe e drogucce fino agli occhi, non ci vuole il padre della psicanalisi per capire che il veterano Oliver Stone, dall’alto del suo ego guizzante, un po’ ci si ritrovasse, quindi facciamo un altro passo oltre la soglia delle porte della percezione.
Io vi dico “Vietnam” voi a cosa pensate? Sporca guerra, tanti morti, bruttissimo affare e se siete qui a leggermi, probabilmente penserete al cinema, quindi ancora prima che ad Oliver Stone qual è stato il titolo grosso legato al ‘Nam? “Apocalypse Now” (1979) di Francis Ford Coppola che non a caso iniziava con le note di The End, pensate un po’? Dei Doors. Qual è stata la colonna sonora della Seconda Guerra Mondiale? Ah boh, ma il Vietnam è forse l’unica guerra che tra Creedence e Doors ha avuto la sua colonna sonora ufficiale, perché era la musica che ragazzi al fronte come Oliver (arruolato come William) ascoltavano, fantasticando di quando sarebbero tornati a casa.
“The Doors” per Oliver Stone non è solo uno sfizio, faccio il film sul mio gruppo del cuore uh che bello! Alla pari dei documentari che inizieranno a popolare la sua filmografia dal 2003, questa biografia è un altro mattone nel muro, se mi è concesso di citare le parole di un altro gruppo Rock diciamo famosino, non è solo un altro modo per raccontare una parte del Vietnam (la colonna sonora) ma anche un’altra picconata al decennio in cui quella guerra è stata combattuta, gli anni ’60 che per Stone sono il decennio zero, perché l’istruzione, spesso frettolosa, anche nelle nostrane scuole si ferma alla Seconda Guerra Mondiale, ma il mondo in cui viviamo oggi è stato definito, forse anche più da quello che è successo dopo il 1945 e mettiamola così, negli anni ’60 due cosette, con l’America coinvolta di mezzo, sarebbero anche accadute.
Scritto a quattro mani con Randall Jahnson, il film di Oliver Stone inizialmente ha potuto contare sul coinvolgimento dei componenti superstiti del gruppo, anche se si sa che l’unico che interessava davvero al nostro Oliviero era il carismatico frontman del gruppo, quel Jim Morrison a cui Stone inviò una copia di “Break”, prima stesura del copione di Platoon, nella speranza che accettasse di interpretare il sergente Elias, mai ricevuto risposta (storia vera).
Quindi hai voglia caro Ray Manzarek – per la nuda cronaca, il mio preferito del gruppo, se a qualcuno dovesse interessare questa informazione superflua – a prodigarti nel raccontare aneddoti personali, nel descrivere Jim Morrison nel suo intimo, per cercare di far arrivare a Stone l’animo da artista e poeta del cantante. A Stone di “The Doors” interessava il potenziale esplosivo, l’occasione di raccontare gli anni ’60 che lui in parte si è un po’ perso laggiù nella giungla, anche se parlando di droghe lo stesso Stone è sempre stato trasparente sulle sue dipendenze, il film si chiamerà anche “The Doors” ma per il regista questa è la storia di Jim, di cui interessa il lato più selvaggio, se non proprio Cimmero, passatemi il paragone. Risultato? Dopo l’iniziale supporto del gruppo, tutti i componenti dei Doors hanno preso le distanze da un film che mente sapendo di mentire, finto come una banconota da tre Dollari, ma non per assecondare il bisogno di popolarità dei membri del gruppo sopravvissuti (veeeeero Brian May!?), ma solo per permettere a Stone di portare avanti la sua decostruzione del mito americano degli anni ’60, sotto tutti i punti di vista, anche quello musicale.
Gli intenti di Stone sono chiarissimi fin, pensate un po’? Dai primi cinque minuti, quelli che determinano tutto l’andamento di un film. Il suo “The Doors” inizia con la voce fuori campo di Jim Morrison che ci avvisa che il film sta per iniziare, pescando dalle prime sperimentazioni proprio con il cinema del futuro cantante del gruppo, nelle sue lezioni ad UCLA. Già qui iniziano le prime misticazioni di un film pieno di falsità, iperboli ed esagerazioni, anche un po’ arroganti, insomma nel puro stile irriverente e spesso caustico di Oliver Stone. Non è vero che Morrison ha mai girato cortometraggi pieni di bandiere Naziste, per quanto godardiane fossero, la finzione si completa con lo stesso Oliver Stone, con il pizzettone da professore universitario, che per il suo abituale cameo avrebbe potuto scegliersi un roadie o un tecnico del suono, ma invece si è scelto proprio il professore di cinema, il ruolo che nella sua vita era stata ricoperto da Martin Scorsese, anche per mettere in chiaro che in questo film sulla musica, è il cinema a dettare la rotta.
“The Doors” continua con la leggenda, che Stone usando il cinema rende reale, almeno nella sua di storia, quella per cui il piccolo Jimmy abbia visto un vecchio Navajo morire e lo spirito del nativo, sia trasmigrato nel suo corpo aprendo le porte (ah-ah) alla sua natura di sciamano. Ma in generale tutto l’inizio del film è rapidissimo, frenetico e creativo, pieno di vita come poteva essere la Veniche Beach di quel periodo, un fermento creativo costante in cui tutti i personaggi sono pianeti di dimensioni medio piccole che ruotano intorno al Sole Morrison, un cast micidiale per un film impeccabile, e nulla mi toglie dalla testa che scegliere l’uomo della Spezia, Kyle MacLachlan, per l’uomo il cui organetto ha mandato in acido tanti (presente!), ovvero Ray Manzarek, sia una scelta più che brillante, ma in genarle qui brillano tutti, solo che uno lo fa più degli altri perché è il Sole. Ammettiamolo, zio Val nel ruolo della stella principale, ci si è sempre trovato alla grande, la sua condiziona naturale.
Potremmo parlare di Kevin Dillon, perfetto ma fin troppo ridimensionato nel suo contributo musicale rispetto al vero John Densmore, stesso discorso per Pamela Courson, per altro ci voleva Oliver Stone per portare l’ex fidanzatina d’America Meg Ryan sulla Bara Volante con uno dei suoi pochi ruoli in linea con il materiale che trattiamo di solito su questo loculo. Una prova drammatica impeccabile per Meg Ryan, con la postilla (non per forza piccola) per cui la vera Pamela Courson era molto più anche in termini di carisma della fidanzatina sottomessa e vagamente succube del protagonista, quella in un film che inizia con la nascita “sciamanica” di Jim Morrison e termina con la sua morte e la sua vera tomba al cimitero del Père-Lachaise a Parigi in Francia (non quella in Texas), lei è quella che lo segue, anche un po’ mestamente con le frasi dedicato al destino degli altri, i gregari, sui titoli di coda, che guarda caso sono una carrellata che termina sempre su di lui, Jim Morrison. Il sole.
Oliver Stone per “The Doors” segue la solita struttura che prevede ascesa e caduta, concentrandosi sugli eccessi, le droghe e le provocazioni, per lui Jim Morrison, è sì il re lucertola ma anche il re del sesso (e del cazzo, per usare il vocabolario del film), normale che si incazzassero tutti, dai veri Doors a chi li ha ascoltati per anni. Per nostra fortuna nel 1991 non esisteva “Infernet”, quindi ci siamo evitati una valanga aggiuntiva di polemiche da parte di chi del gruppo conosceva un pezzo e si professava loro cultore come accadrebbe oggi, esattamente come la tirata, ubriaco e strafatto ai Golden Globe di Stone, questa è stata una polemica, non voglio dire per pochi perché comunque il film è ancora oggi popolarissimo, ma almeno circoscritta a chi il gruppo lo ascoltava e lo conosceva per davvero.
Personalmente ho sempre ascoltato i Doors, non posso definirmi loro cultore, ma il film mi ha spinto a fare quello che faccio sempre, approfondire. Vorrei dirvi divertitevi a scoprire tutte le porzioni di storia in cui Stone ha Stoneggiato come suo solito, portando nella trama il suo spirito provocatore, io non ho nessuna intenzione di mettermi qui a fare la punta al ca… pello, perché tanto se cercare recensioni in rete su questo film, sono TUTTE su questo andazzo comparativo, poi chiedetevi perché siamo scivolati nell’epoca in cui domina “L’effetto ma è uguale”.
Una volta chiarita la tesi che il professor Stone vuole descriverci, le chiacchere stanno a zero, “The Doors” è un film formalmente impeccabile, diretto con gran ritmo e tocchi lisergici che torneranno nella filmografia del regista e di conseguenza, in questa rubrica. Il montaggio ha ritmo come la sezione ritmica del gruppo e anche i momenti più spudorati, come le feste selvagge, sono cinematograficamente riuscitissimi, uno dei miei preferiti anche se si tratta di una porzione di storia che aggiunge poco alla trama, resta l’incontro con Andy Warhol (Crispin Glover, a proposito di grandi scelte di casting) e Nico (Christina Fulton).
Ma c’è spazio per tutti, nella poca somiglianza tra il pretoriano del regista, Michael Wincott e il vero Paul A. Rothchild, ci sta tutta la volontà di Stone di dire la sua. Michael Madsen nelle sue apparizioni nei panni di Tom Baker (ma non Doctor Who) credo non stesse nemmeno recitando, ma lo stesso potremmo dire per la comparsata di Billy Idol. Tutto questo al servizio del mito di Jim Morrison, e se la macchina da presa di Brian De Palma mentiva, ventiquattro volte al secondo, lo stesso fa Stone per dire la sua verità sugli anni ’60, alzando il volume della radio in modo molto Rock, lui che di documentari ne dirigerà molti sa che questo non è uno di quelli, quindi anche sul set fotografico, quello mitologico (in più di un senso di questa parola), Stone lo rende lo spettacolo personale di Morrison, immortalato da Mimi Rogers, fregandosene bellamente di chi ha davvero scattato quelle foto finite sulle pareti delle camerette di tutto il mondo.
Ma staremmo qui a parlare della fuffa se poi il Sole, non ardesse alto nel cielo con assoluta potenza, dei tanti ruoli mitici ricoperti da Val Kilmer in carriera, nessuno, ma dico proprio nessuno, risulta più incredibile della sua prova in “The Doors”. Due anni dopo, in un ruolo quasi invisibile ma fondamentale per Tony Scott, Val Kilmer nei panni di Elvis, aveva messo in chiaro che no, dal ruolo non era ancora uscito, il caso di possessione sciamanica vera è rappresentato da lui in persona e della sua prova, letteralmente posseduto dallo spirito di Morrison, Val memore di quando fu una Rock star per ZAZ, qui diventa il cantante dei Doors, per pose, sguardi, persino il tono di quella voce ultra nota, e lo fa semplicemente recitando, non imitando, badate bene, ma calandosi in un ruolo che era suo di diritto, tanto da avere bisogno di aiuto psicologico a fine riprese per uscire dalla parte o da rompersi malamente un braccio volando da un palco, il “bozzo” della frattura, Kilmer lo sfoggia a in bella vista anche in alcune scene di Heat (storia vera).
Stone propose la parte a Ian Astbury, cantante di un gruppo che amo molto come i The Cult, il suo rifiuto (quasi ovvio) lasciò campo libero a Val Kilmer che mi dispiace, ma va detto, era tutta la vita che si preparava per un ruolo così: divo, piantagrane, rompicoglioni per natura, lo stereotipo dell’attore che se non ha tutti che pendono dalle sue labbra sul set, pianta un casino. Insomma Vilker era già il Jim Morrison ideale nella testa di Stone, qui ha “solo” avuto la possibilità di dimostrarlo al mondo, nobilitando un’operazione che non brilla per la veridicità storica perché a differenza di Bohemian Rhapsody non ci prova mai a millantarla, se Platoon era la verità sul ‘Nam raccontata dal punto di vista che uno che è stato in prima linea, “The Doors” è la fantasia, la sua verità sul suo eroe musicale, un atto di ribellione contro uno che ascoltava i Doors laggiù nella giungla e fantasticava su tutta quella selvaggia libertà creativa che non poteva avere al fronte.
In un’annata mica male per titoli in uscita, “The Doors” finisce tra i primi quaranta incassi dell’anno, per altro battuto dallo stesso Stone con il suo altro titolo del 1991 (tra sette giorni su queste Bare, non mancate!), piace, diventa mitico, crea falsi miti e scontenta i veri Doors e i fan del gruppo, segnando indelebilmente la nomea già al limite di un regista che non le ha mai mandate a dire come Stone. Ma la vera onta resta il modo in cui l’Accademy abbia ignorato, non tanto un film che cinematograficamente parlando, resta riuscitissimo e anche molto bello, ma il suo Sole, il suo attore protagonista, nemmeno una nomination per Val Kilmer, eppure beccami gallina se quando pensate alle più grandi prove di immedesimazione in un personaggio, il suo Jim Morrison non è uno dei primi che vi viene in mente, altro che le mossette coreografate di Bohemian Rhapsody.
Dopo aver raccontato il Vietnam dalla colonna di un plotone e di averne raccontato tutto, anche la colonna sonora ufficiale, poteva esserci per Stone un altro modo per pugnalare al cuore le menzogne del Paese che lo ha spedito al fronte a combattere una guerra? L’unico altro modo per raccontare il ‘Nam era andare al cuore, all’origine della guerra stessa e di quel vespaio di bugie che l’aveva generata, Stone aveva un altro bersaglio nel mirino e la prossima settimana, di bersagli e mirini si parlerà parecchio, non mancate, per il nostro sarà qualcosa di molto, ma molto personale.
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