Trovo buffo il fatto che molto pubblico si indigni quanto Netflix decide di spendere, non è nemmeno questione di sindacare a chi vengano affidati i soldoni, che sia Scorsese o Bay poco importa. Tanti soldi? Tanti Oscar? Deve essere come minimo un capolavorone, come se fosse una regola matematica.
Va detto che i fratelli Russo non sono Scorsese e di certo non sono Bay, però zitti zitti, sanno contrattare, a Prime Video hanno chiesto gazzilioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti per quella cosina modesta che era “Citadel”, passando alla sponda Netflix invece hanno sfornato il dimenticabile (e già dimenticato) “The Grey Man”, gli è andata un po’ meglio con l’altrettanto poco ricordato uomo chiamato Rastrello.
Ma cosa volete dirgli, saranno eternamente i due ragazzi della Marvel, si piazzi lassù tra un film di James Cameron e l’altro un titolo spaccabotteghini-scaldacuori, al tavolo delle trattative puoi fare la parte del leone, ecco spiegati i trecento milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, stanziati dalla casa della “N” rossa per questo “The Electric State”, a suo modo anche questo tratto da un fumetto, interamente illustrato da Simon Stålenhag e ovviamente con un noto tutto diverso, perché i Russo dell’adattare fumetti hanno capito: mettici dentro la comicità! Gli sceneggiatori Christopher Markus e Stephen McFeely sono i loro tuttofare oltre che braccia armate (di penna).
Partiamo dai lati positivi, mi piace essere il più obbiettivo possibile nella mia analisi, per essere fantascienza retro-futurista, “The Electric State” ci riporta al 1990, la preistoria per molta Gen-Z, l’anno in cui si è scatenata la guerra contro le macchine, ma no, non quelle di James Cameron.
1990, le macchine costruite dall’uomo per i lavori più umili si ribellano agli umani, instancabili sovrastano noi “carnosi” fino a quanto il CEO della Sentre, Ethan Skate (Stanley Tucci) sviluppa il Neurocaster, un dispositivo che consente agli umani di controllare i droni umanoidi da remoto, tecnologia contro tecnologia, per rimettere in pari il conflitto.
Il capo dei robot Mr. Peanut (doppiato in originale da Woody Harrelson) si arrende alla Casa Bianca davanti al presidente Clinton e cercate di non fare battute facili ok? Ristabilita l’autorità umana, il Neurocaster viene convertito ad usi anche civili, permettendo alle persone di vivere virtualmente attraverso i droni. Salto in avanti all’ucronico 1994, l’orfana Michelle (Millie “Vanilli” Bobby Brown) incontro un robot di nome Cosmo (con voce di Alan Tudyk, uno specialista ormai) che sostiene di essere controllato da suo fratello Christopher (Woody Norman) che però risulta scomparso da diverso tempo. Il viaggio che seguirà raccoglierà lungo il percorso un (finto)rozzo camionista di nome Keats, fatto a forma di Chris Pratt, ma con i baffi.
Ho detto che avrei iniziato dai lati positivi, mantengo la parola: tutto quello che vi ho appena riassunto ci viene descritto con il solito spiegone/flashback, in cui ho faticato a non notare nella parata dei robot scioperanti, una citazione non so quanto davvero voluta a “Paprika – Sognando un sogno” (2006) di Satoshi Kon, in generale però i soldi spesi si notano, il character design è ben fatto, la CGI dei molti robot funziona bene e certe scene, si sarebbero meritata uno schermo ben più grande del telefono su cui molto pubblico guarderà il film per poi lamentarsi che trecento milioni per ‘sta roba? E giù di citazioni al falegname di Aldo, Giovanni e Giacomo.
La durata tutto sommato standard di 128 minuti va detto, si lascia seguire, a differenza della maggior parte delle produzioni Netflix non sono piombato nel momento «Checoglioni!» (cit.) che affligge tutte queste produzioni, il fatto che sia ricca poi, diventa chiaro dal numero di attori coinvolti che mi servono non tanto per sostituirmi a Wikipedia, quando per arrivare al prossimo punto, ovvero i difetti.
Ke Huy Quan sta godendo di rinnovata popolarità, ma qui impersona di nuovo il nerd eccentrico, invece i personaggi di Giancarlo Esposito ormai, sono sovrapponibili uno all’altro. Il pensiero tipico dello spettatore medio da Netflix (o da “Infernet”) è spesso guidato dalla storia, se la storia è “troppo semplice” (qualunque cosa voglia dire) sarà più facile per loro lamentarsi dei soldi spesi, ma anche se fosse “troppo complicata” (qualunque cosa voglia dire) sarebbe lo stesso, nemmeno fossero soldi loro, ma in tal senso “The Electric State” non fa NIENTE per invertire la tendenza, qualche esempio?
Dopo un’infilata di pezzi pop anni ’90 (tipo i Cardigan), quanto Keats entra in scena lo fa sulle note di Mother di Dazing, che è tipo il pezzo meno adatto del mondo a presentare un duro da film, a meno che tu non voglia fare una critica al “Parental Advisory” è una scelta di una pigrizia più unica che rara, così come il cambio di aspetto del personaggio, il più classico dei cambiamenti esteriori che ne descrive uno interiore, che fa a cazzotti con la prima parte del film, anzi, ai primi due atti, dove la battutina stile MCU tiene banco e mal si sposa con il tono più greve che la storia cerca di imboccare, e qui sospetto che le riscritture rispetto al lavoro di Simon Stålenhag abbiano richiesto il loro tributo di sangue.
In generale poi, inutile girarci attorno, Millie “Vanilli” Bobby Brown “Blue” ha un mirino in fronte, non è riuscita a mandare a segno un solo titolo decente per monetizzare – anche in termini di popolarità presso il pubblico – rispetto alla sua Undi, il fatto che abbia lavorato solo in filmetti da streaming di Netflix e poco altro non ha aiutato, inoltre qui, ad inizio film e nei flashback (anno della storia 1990) recita con il suo aspetto, quattro anni dopo (anno della storia 1994) sembra Britney Spears, il che sarebbe logico visto il decennio, ma non la Britney del ’94, diciamo più quella del 2025, ogni primo piano su Millie Vanilli mi ha ripetutamente tirato fuori dalla storia più del capo dei robot ribelli che è una nocciolina.
“The Electric State” è una robo-montagna che partorisce una robo-nocciolina, no scusate, un robo-topolino, perché l’unica cosa che i Russo (e i loro sceneggiatori schiavi) sono riusciti a spremersi fuori, è un messaggino sulla dipendenza da tecnologia, sul tempo che passiamo connessi lontano dalle persone e dalle relazioni che lo dico, mi trova anche molto d’accordo, ma era già stato detto prima, meglio, e se volete anche spendendo meno con Ready Player One, quindi perché dovrei guardarmi questo robo-topolino quando potrei rivedermi un bel film?
Sapete cosa mi fa sanguinare? Che nella mia “bolla” in tanti si stanno lamentando di questo film, ignorandone uno bellissimo che però, non «C’èsunetflix?» (cit.), quindi tutti appassionati di cinema pronti a piangere, ma quando poi c’è da muovere il culo e andare in sala, non pervenuto. Quindi fate il giochino, verificare commenti e reazioni sotto questo post e confrontatele con quelle del post che uscirà a breve qui sulla Bara, sono retro-futurista anche io, più dei Russo.
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