La storia è comune, quasi un archetipo, tanto che io stesso mi rendo conto di averla già raccontata, legata ad un altro grande narratore per immagini. Ma forse è proprio il senso del film, una storia di origini che forse avete già sentito, ma se il “cosa” è sorprendente, il “come” viene raccontato lo è ancora di più, quindi perdonatemi se quello che sto per raccontarvi, vi sembrerà di averlo già sentito.
New Jersey, 10 gennaio 1952. I coniugi Spielberg Fabelman portano il piccolo Steven Sammy per la prima volta al cinema, il più grande spettacolo del mondo, letteralmente, visto che è anche il titolo di Cecil B. DeMille in cartellone quella sera. Immagini giganti proiettate sullo schermo di una sala buia, qualcosa che potrebbe risultare spaventoso, tanto che papà Burt (un Paul Dano estremamente misurato) da buon ingegnere cerca di scacciare la paura dal cuore del figlio, utilizzano la rava e la fava dei tecnicismi su un proiettore. Mamma Mitzi (una rediviva Michelle Williams, perfetta per il ruolo angelicato ma non di plastica richiesto) in quanto pianista e concertista, offre a Sammy il punto di vista dell’artista di casa sul cinema. Per farlo entrambi, si inginocchiano per guardare il figlio negli occhi, un modo per abbracciare l’altezza bambino, insomma puro Spielberg e non siamo nemmeno a cinque minuti dall’inizio.
DeMille schianta un treno contro un’automobile, Sammy ci va sotto bevendo dall’idrante, diventando il prototipo della “Spielberg face”, la sua vera origine perché (anche) di questo tratta “The Fabelmans”, la storia di origini di un super eroe, anche se fuori dal cinema non ci sarà nessuna rapina, le perle della signora Fabelmans/Spielberg non verranno sparse sul marciapiede, ma in un cinema contemporaneo pieno di storie di origini di super eroi, questa è quella di uno dei miei preferiti, Steven da Cincinnati. Malgrado i vari traslochi tutti raccontati nel film.
«Ho bisogno di vederli schiantarsi», Steven Sammy uno di noi, che ama i ciocchi fortissimi al cinema, mamma lo capisce e gli regala la prima macchina da presa, con il trenino elettrico (regalo paterno), ora Sammy può far schiantare i treni in sicurezza, senza rompere il regalo di papà. Nastro che scorre in avanti, il treno corre suoi binari, nastro riavvolto, torna indietro, per rivedere lo schianto, ancora, ancora e ancora. Distruggere per creare, rompere per aggiustare, e il cinema di Spielberg è pieno di cose che vanno a pezzi, a partire dalla famiglia.
Già perché “The Fabelmans” ha una genesi lunghissima, la prima volta che ne ho sentito parlare era in un’intervista, dove Spielberg sognava un film sulla sua famiglia, con Richard Dreyfuss in un ruolo che non saprò mai quale doveva essere, anche se guardando “The Fabelmans” me lo sono chiesto un paio di volte. Perfettamente logico visto che Dreyfuss era protagonista del primo capitolo di questa “Trilogia sulla famiglia che va a pezzi”, ovvero Incontri ravvicinati del terzo tipo. A ben guardare in “The Fabelmans” non ci sono scenate in famiglia, anche perché dopo «You crybaby!» non serve aggiungere altro.
Il secondo capitolo era ovviamente E.T. l’extra-terrestre, Eliot, figlio di divorziati alle prese con un lungo e metaforico addio al padre, rappresentato da un alieno in fissa con le interurbane. Ma il divorzio dei genitori di Spielberg è il momento che ha segnato il regista quasi quanto quella sera a vedere “Il più grande spettacolo del mondo”, alla fine Hook non è (anche) la storia di un ex bambino sperduto che fa i conti con il diventare padre a sua volta?
Nelle varie interviste rilasciate negli anni dal regista di Cincinnati, sembra di averlo vissuto questo divorzio, per altro più apparentemente pacifico di molti altri, ma non per questo meno devastante. Il film correva il rischio di sembrare una replica, una bella copia di una storia che al cinema ha rischiato di arrivare nei primi anni 2000, con il titolo “I’ll be home”, accantonato in favore di un progetto ereditato da un’altra figura paterna come Kubrick (“A.I. – Intelligenza artificiale”) perché il momento non era ancora quello giusto.
Quel momento propizio si è rivelato essere adesso, con Spielberg alla soglia degli ottant’anni, che beccami gallina se si sentono nella narrazione del suo film, più fresco e pieno di vita di quello di molti suoi colleghi più giovani. Perché se Stephen King sostiene che Scorsese non dirige, ma scrive romanzi, il discorso vale anche per Spielberg che di zio Martino ha la stessa ossessione per il cinema. Nel suo caso un romanzo di formazione che dura 151 minuti, di cui percepiti meno di un terzo, visto che vola via più leggero dell’ultima serie tv con cui vi siete annoiati sul divano.
Se non conoscete nulla del passato di Spielberg, uscirete dalla visione di “The Fabelmans” arricchiti, visto che la storia di Sammy (se io pensavo che il protagonista di Ready Player One fosse un sosia del regista, Gabriel LaBelle sembra Spielberg ringiovanito, senza nemmeno bisogno del de-aging) è talmente aderente alla biografia del buon vecchio Steven da rendere “The Fabelmans” una perfetta biopic, una che se non fosse basata su eventi reali, risulterebbe scritta (dal sodale Tony Kushner a quattro mani con lo stesso Spielberg) da uno sceneggiatore con poche idee. Sul serio, “Il più grande spettacolo del mondo” scelto come primo film visto al cinema? Uno di quei casi in cui la vita sembra già una sceneggiatura, ma anche il primo di tanti momenti in cui realtà e finzione in “The Fabelmans” si intrecciano volutamente, in modo impossibile da distinguere uno dall’altro, che poi in parole molto povere è il compito della settima arte.
Sammy vede Liberty Valance al cinema e firma il suo primo western amatoriale “The last gun” (1959), poi fa le prove generali di “Salvate il soldato Ryan” (1998), commuovendo tutti con “Escape to Nowhere” (1961) e via così fino ad utilizzare un filmato su commissione per la scuola, per far scoprire ai suoi bulli qualcosa di loro che nemmeno loro pensavano di conoscere. Se fino a quel momento Sammy era indistinguibile dal vero Steven, qui è dove la parete che separa realtà e finzione in “The Fabelmans” diventa sottilissimo (la risposta di Sammy al suo persecutore) ma anche estremamente coinvolgente.
Un dollaro per i vostri pensieri. Anzi no, tenetelo in tasca che tanto vi leggo con la facilità con cui si fa con la prosa di Lansdale: state pensando, Steven Spielberg si è diretto da solo la biografia della sua vita, ancora da vivo (cento anni di salute!) e prima che qualcun altro potesse metterci le mani sopra e guadagnare al posto suo? La tentazione di scivolare sulla buccia di banana di questa idea è forte, ma i risultati parlano chiaro. “The Fabelmans” è in tutto e per tutto la storia di Steven Spielberg, un super eroe nato con il potere del cinema e il talento di raccontare storie, diviso tra arte e famiglia. Non è un caso se l’entrata in scena del colorito zio (ma Judd Hirsch non invecchia mai? È identico dal 1996) è uno di quei passaggi che ti fa pensare: sarà successo davvero? Oppure è una funzione narrativa. Ma sta di fatto che il film fila talmente bene che si resta incantati, il più grande spettacolo del mondo raccontato da uno che questa storia, l’aveva già raccontata (come la mia strampalata premessa ad inizio post), ma mai così.
La storia è nota, lo sappiamo già che arriverà uno strappo tra i coniugi Fabelmans, notevole fegato da parte di Spielberg aver scelto Seth Rogen per il ruolo dello zio Bennie, non solo perché un comico poteva non sembrare adatto (e qui di sbagliato nella sua prova, ci sta solo la scelta del doppiatore italiano, guardatelo in originale se potete), ma Spielberg non sa che Rogen farà battutacce su questo suo ruolo per una vita, il dollaro che avete risparmiato voi, lo scommetto io sul fatto che la parola “mother@&cker” sarà la più quotata nelle battute di Rogen.
Eppure se il “cosa” già si conosce e il “come” ad incantare, ci sono quattro o otto momenti di grandissimo cinema in “The Fabelmans”, mi ha colpito il modo in cui la sorella del protagonista capisca tutto prima (le femmine sono più intelligenti, non solo a quell’età), mentre il nostro giovane eroe abbia bisogno di vedere i fatti impressi su pellicola (quindi in un film) per capirlo davvero. La scena della moviola e del montaggio del filmino del campeggio ha dentro qualcosa di Antonioni, giusto per fare un nome da niente. Quando poi Sammy mostra il girato alla madre, arriva uno di quei momenti alla Spielberg, fatto di puro “Show, don’t tell”: la speranza negli occhi di una madre che torna a parlare con il figlio dopo la litigata e gli stessi occhi, mentre guardano il filmato incriminato. Non serve nemmeno una parola a Spielberg per dire tutto, come al solito gli basta un proiettore con il suo rumore ciclico e quel fascio di luce, che mente o dice la verità, a volte è difficile stabilirlo.
La sensazione che Spielberg si sia fatto la biografia sulla sua vita da solo, per rincorrere le mode e anticipare la signora con la falce (duecento anni di salute!) viene spazzata via dalla maestria della sua regia e dal cuore enorme, manifesto, lanciato oltre l’ostacolo. Facile scrivere che “The Fabelmans” è un atto d’amore verso la settima arte, ogni volta che Spielberg muove la macchina da presa scrive lettere da innamorato, oltre che da preparato studente. Eppure con questo film ha fatto qualcosa di più che cantarsela e suonarsela da solo, se dietro alla macchina da presa ci fosse stato un altro regista, sarebbe risultato molto differente anche l’intento finale di un film che ha la pretesa di raccontare una storia, dove non si trova nemmeno uno straccio di nemesi (alla faccia delle regola del cinema e della narrativa), dove una corsa in auto (l’intensa scena del tornado) serve per enfatizzare un dramma interiore rendendolo cinema, ovvero un auto che sgomma sull’asfalto, perché tutto accade per una ragione, come dice mamma Mitzi, anche un’automobile in corsa in un film di Spielberg.
Dopo aver raccontato di una famiglia che si sfascia e cade a pezzi, con il terzo ideale capitolo della sua trilogia, Spielberg guarda ai componenti della sua famiglia e usa l’arma che conosce meglio per rendere possibile l’impossibile, è solo grazie al cinema che il nostro Steven può riportare in vita chi lo ha lasciato, per renderlo protagonista di una storia di cui questa volta, all’alba degli ottanta, conosce il finale. Non lo poteva sapere da bambino che in un modo o nell’altro, sarebbe andato tutto bene, perché la vita vince sempre, tutto accade per una ragione e ora Spielberg sa qual era e con “The Fabelmans”, può riportare indietro i suoi cari come da bambino faceva con i trenini di “The Last Train Wreck” (1957), prima di vederli schiantarsi e sfasciarsi ancora, ma questa volta al sicuro dagli effetti collaterali, insomma come si fa al cinema, quando il treno deraglia sul grande schermo e l’unico modo di controllare la vita e i suoi effetti, è dirigerla di tuo pugno, filtrarla attraverso l’occhio della macchina da presa, che non ne ha caso ne ha uno solo, come John Ford, nome che non cito a caso.
Difetti? Ad un certo punto partono delle scritte dal basso verso l’alto sullo schermo, le luci ci accendono in sala e la signora delle pulizie ti guarda storto perché sei l’unico ancora seduto. Sul serio, avrei voluto un’altra ora di questo film, ma perché sono goloso, solo per quello. Alla fine ha avuto ragione Spielberg a tagliare i suoi anni universitari (io volevo il cameo di un giovane John Milius!), perché più saggio di me evita di citarsi addosso più di quanto la sua storia non abbia strettamente bisogno. Mi sarebbe piaciuta una scena ambientata nel 1962, con il giovane Steven in sala a vedere per la prima volta Lawrence d’Arabia, ma sarebbe stato troppo, se volete vederla quella scena, Spielberg l’ha già raccontata al meglio nel documentario di HBO che porta il suo cognome, uscito nel 2017. Quindi il difetto di “The Fabelmans” è che Spielberg è più saggio di me (ci vuole anche poco) e della mia voglia di farmi raccontare il cinema attraverso il suo punto di vista, che di solito mi provoca la “Spielberg face”.
Una menzione speciale, doverosa, la merita il finale, che è talmente bello che devo tentare di essere un po’ saggio anche io e non raccontarvelo tutto, perché è da vedere. Emoziona, esalta e soprattutto diverte, oltre a riuscire a rendere ancora più sottile la parete divisoria tra realtà e finzione in un modo delicato, intelligente e mai forzato. Non voglio esagerare dicendo che sia uno dei migliori finali mai diretti da Spielberg, ma almeno uno dei più belli visti nel 2022, questo posso dirvelo. Inoltre se siete grandi appassionati di David Lynch, io correrei a vederlo a scatola chiusa.
Hitchcock intervistato da Truffaut diceva che il cinema è la vita senza le parti noiose. Spielberg che è tra i più grandi studenti di cinema e da quei due signori ha imparato parecchio, lo sa bene. Il cinema non può aggiustare tutto e spesso, non può essere la soluzione o l’alternativa alla vita, lei ha bisogno anche delle parti noiose, forse la saggezza sta nell’equilibrio tra arte e vita, di sicuro ci sta anche un film come questo. Dove si firma per avere solo biografie così? In ogni caso, ancora una volta, grazie signor Spielberg!
Sepolto in precedenza lunedì 26 dicembre 2022
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