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The Fan – Il mito (1996): Vogliamo giocare a baseball!?

Un nuovo film illumina il giorno, dei miei guai per un poco
si sfuma il contorno.

Questa rubrica è condotta in modo maldestro, ma lasciatemi
il tempo e sarò un buon maestro.
Con un po’ di fortuna, ci sono ad un passo, sistemo le cose
e poi mi rilasso.
Aiuterò Tony Scott a riavere la gloria, con un tocco
imprevisto alla solita storia.
Dice oggi Ridley: «Di Alien ne faccio anche tre!», ci sto
male a sentirlo e mi chiedo: «Perché?»
Non è il fan, il cinefilo che paga il biglietto, a far ricco
e famoso il suo prediletto?
Se gli parlo, lui sente, ma, in realtà, non mi ascolta, mi
dimostra freddezza per l’ennesima volta.
É attaccato al denaro da fare disgusto. No, così non va
bene, io rivoglio lo Scott giusto!

Allarme Rosso al
botteghino non convince, ma quello proletario della famiglia Scott è un nome
caldo, quindi viene contattato per portare sul grande schermo il romanzo “L’idolo”
(The Fan) di Peter Abrahams che il nostro Tony rifiuta almeno un paio di volte
(storia vera). Ironia della sorte, nel romanzo il giocatore di baseball
protagonista della storia gira uno spot pubblicitario e poi si paragona a
Robert De Niro per la sua prestazione d’attore, sarà per questo che il vero De
Niro si è avvicinato al film? Non si sa, di sicuro c’è che con De Niro a bordo, Tony Scott accetta la regia, pur avendo sempre bellamente ignorato il baseball. Lo so che si tende a dimenticarlo, ma il nostro Tony è Inglese, anche
se il suo cinema e il suo berretto (ex rosso) porta fortuna sono più americani della torta di mele.

Don (Simpson) & Jerry (Bruckheimer) tornano alla carica
per proporre al loro prediletto la regia di The Rock, ma niente, ormai Tony ha gettato il cuore sul diamante del baseball,
quindi Don & Jerry si sono rivolti al loro nuovo virgulto, uno che proprio
come lo Scott giusto arrivava dalla pubblicità e che dal cinema di Tony ha
imparato molto: Michael Bay, potreste averne sentito parlare. Il piano di Tony
era semplice: siccome era già in lizza per dirigere “Nemico Pubblico” (1998… a
breve su queste Bare) per quello giusto della famiglia Scott, “The Fan” era
l’occasione per sperimentare qualche trovata visiva, tenetemi l’icona aperta su
questo punto, più avanti ci torniamo.

Tony, novello Babe Ruth, indica il punto fino a dove sparerà l’inquadratura.

L’adattamento del romanzo viene affidato a Phoef Sutton, ma per dare un po’ di brio ai dialoghi e una sistemata generale qua e là, viene chiamato un non accreditato Frank Darabont (storia vera), forse perché ormai Quentin Tarantino era uscito definitivamente da sotto l’ala protettiva di Tony. Inutile girarci troppo attorno: “The Fan” – con superfluo e obbligatorio sottotitolo italiano – esiste grazie a De Niro, ma soprattutto vive e muore attorno ad un attore che nel 1996 era caldo come una stufa, perché arrivava da cosette come “Casinò” (1995) di Scorsese e “Heat” (1995) di Michael Mann. Lo so che sembra assurdo dirlo nel 2019, ma lo dico per le lettrici e i lettori più giovani: un tempo un film si guardava solo per la presenza di De Niro che non faceva film stronzi per pagarsi il mutuo e i divorzi.

Il vostro amichevole Cassidy di quartiere per anni ha avuto
un poster di “Taxi Driver” appeso in camera (storia vera), quindi parlo per
esperienza diretta, nel 1996 De Niro spostava le montagne e nelle varie e
frequenti repliche televisive di questo film, “The Fan” era l’ennesima prova
del talento di un attore che recitava di pura cattiveria, in certi suoi film il
sospetto che fosse un vero psicopatico c’era (e forse è stato confermato dai
suoi ultimi film), ma (malgrado le mazze da Baseball) questo film non è “Gli
intoccabili” (1987) e paragonarlo ai film di Scorsese tipo quello del mio
vecchio poster, oppure “Cape Fear” (1991) sarebbe un gioco a perdere in
partenza.

Dare un coltello al De Niro del 1996? Ci sono modi meno dolorosi per morire.

“The Fan” ha, forse, un solo difetto: è un film che potrebbe
seguire più percorsi, ma si accontenta di avere l’occasione per mostrare De Niro
che diventa progressivamente sempre più matto e si accontenta fondamentalmente
di quello che poi… Oh! Un gran bell’accontentarsi, però la critica al sistema
dello sport professionistico era molto più marcata in L’ultimo Boy Scout che in tutto questo film e lo stesso Wesley
Snipes (che si era candidato per il ruolo del fanatico ossessivo Gil Renard)
deve fare un passo indietro per lasciare spazio a De Niro.

“Che ne dici se la parte del fanatico la facessi io?”, “Che ne dici di tornare in panchina e lasciar giocare i grandi?”

Prodotto dalla Mandalay Entertainment e dalla Scott
Free (casa di produzione dei due fratelli) “The Fan” è un film sul Baseball
diretto da uno a cui dello sport americano (bianco) per eccellenza non frega
poi molto, anche il consulente sportivo presente sul set è stato bellamente
ignorato da Scott che aveva già fatto lo stesso con quello militare di Top Gun, figurarsi se si fa problemi ad
ignorare uno che vorrebbe spiegargli come funziona ‘sto giochino, non
scherziamo!

Fatemi chiudere subito quell’icona lasciata aperta lassù,
dal punto di vista visivo Tony Scott con questo film fa un ulteriore salto in
avanti, rispetto ai suoi primi lavori spariscono quasi completamente i
caratteristici fasci di luce, in favore di una fotografia più satura (frutto
del lavoro di Dariusz Wolski, non a caso finito a lavorare con lo Scott sbagliato) che rende ogni fotogramma diretto da Tony
immediatamente riconoscibile, come due note suonate da un grande chitarrista.

“Ragazzi, questo è un blues con riff in Sì perciò occhio agli accordi e statemi dietro, okay?” (Cit.)

Tony Scott imprime ad un thriller che dovrebbe andare in
crescendo, un ritmo più indiavolato delle note di “Sympathy for the Devil”
degli Stones che aprono la prima scena, subito dopo la poesia in rima recitata da
De Niro, una versione psicotica e da brividi che ho un po’ voluto omaggiare in
testa al post, perché sembra la dichiarazione d’intenti di un pazzo che reinterpreta
la classica Take me out to the ball game, pezzo che risuona in tutti gli stadi
americani prima di ogni partita di Baseball. Ecco, Baseball, parliamo un attimo
di questo!

Forse in America, dove allo stadio si va per mangiare, bere,
godersi la partita e poi mangiare e bere ancora un po’, il problema è un po’
meno sentito, per assurdo, “The Fan” pur parlando del più Yankee degli sport
Yankee, potrebbe funzionare alla perfezione anche ambientato in uno strambo
Paese a forma di scarpa, in cui lo sport (non chiedete quale, in Italia ne
esiste solo uno, gli altri non contano) viene vissuto come una questione di
vita o di morte. Quanti colleghi di lavoro avete che non fanno una piega per
l’ultima decisione del governo, ma danno di matto più di De Niro per un rigore
non concesso? Io, purtroppo, tanti. La mentalità “Io pago, io faccio quello che
mi pare” allo stadio impera, insieme ad un’altra cosetta che mi fa impazzire:
l’uso del plurale maiestatis quando si parla della propria squadra del cuore,
«Abbiamo vinto» cos’hai vinto esattamente? Sarà che arrivo da uno sport
considerato minore in Italia, ma ho imparato che fai parte della squadra se
indossi la maglia, se fai riscaldamento, se vai agli allenamenti e se sei in
campo.

La faccia del fan il lunedì mattina, dopo il rigore non concesso.

D’altra parte lo vediamo anche al cinema: i fan (nel
doppiaggio italiano di questo film pronunciati “Feeeeeen”) sono da sempre i
peggiori nemici dell’oggetto del loro amore, a questo aggiungete anche le
stelle dello sport, troppo pagate per quello che, di fatto, è solo un gioco
(allora perché vi incazzate tanto quando la vostra squadra perde?). Tutti
argomenti che ritroviamo in “The Fan”, prima che la storia prenda un’unica
svolta: rappresentare il “Feeeeeen” protagonista diventa l’occasione per
trasformare il film in quello che nel 1996 tutti volevano vedere, De Niro che
fa il matto col botto, ma anche un modo un po’ paraculo di dare una carezza
tranquillizzante sulla fronte degli spettatori. Voi non siete come lui, shhhh va tutto bene.

Ma i film non si giudicano per quello che avrebbero potuto
essere, ma per quello che di fatto sono e “The Fan” è un thriller che sarà
anche uscito nel 1996, ma ancora oggi ha proprio tutto per inchiodare il
pubblico allo schermo, giocato su un dualismo di personaggi opposti in tutto:
colore di pelle, stato sociale e posizione sul diamante del Baseball, uno in
campo l’altro sugli spalti. Un dualismo che Tony Scott sfrutta alla grande,
infatti la scena iniziale se l’avesse diretta un altro regista, sarebbe un
dialogo con i due personaggi intenti a parlare alla radio guidando le
rispettive auto, qui, invece, diventa una scena tiratissima quasi d’azione, in
cui Bobby Rayburn (Wesley Snipes) e Gil Renard (Robert De Niro) duellano con la
giornalista radiofonica Ellen Barkin.

Una foto di Ellen Barkin ai bei tempi, perché si!

Bobby Rayburn è il nuovo talento arrivato nei San Francisco
Giants, un fenomeno pagato la bellezza di 40 milioni di fogli verdi con sopra
le facce di altrettanti presidenti morti e come tutti quelli con l’etichetta
del migliore addosso (che nel cinema di Scott abbondano) non può sbagliare, ma Gil Renard sa che non sarà così,
con Bobby in squadra i Giants potranno solo vincere, devono farlo.

Sì, perché la vita di Gil Renard non è tutta pesche e crema,
fa il rappresentante di coltelli (ad uno con la faccia da pazzo di De Niro? Io
nemmeno delle cerbottane scariche avrei fatto vendere!), ma con scarso successo
perché è troppo intimidatorio. A casa le cose vanno malissimo: la moglie dopo
il divorzio per stare tranquilla si è messa con Chris Mulkey che di solito fa
il cattivo nei film di Walter Hill, il che è tutto detto.

“Ma come? Sono così bravo, non mi vorresti come nonno scatenat…”, “NO!”

 Ma a pagare il prezzo più alto è il figlio di Gil, un
ragazzino a cui il baseball interessa sì, ma forse più che altro per far
contento papà che non fa altro che parlare del suo gioco preferito e di
quando ai suoi tempi faceva scintille sul campo, allenato dal migliore di
tutti, il leggendario Coop, una specie di guru del gioco che pare conoscere
solo lui.

Tony Scott ci racconta le vite dei due personaggi per
immagini: uno viene idolatrato perché è il nuovo campione in città, l’altro non
se la passa benissimo perché è un venditore con una media di battuta molto
scarsa, si ritroveranno insieme alla prima di partita di campionato, entrambi
alle prese con un bambino, per Bobby quello malato a cui dedicare un fuoricampo
a tutti i costi per motivi d’immagine, per Gil il figlio, accompagnato alla
partita malgrado gli impegni di lavoro, perché il baseball ha la precedenza su
tutto.

Don’t let anyone say that it’s just a game (Cit.)

La regia dello Scott giusto è micidiale, quando Gil decide
di abbandonare il figlio solo allo stadio per andare ad una riunione di lavoro,
la tensione ci fa aggrappare ai braccioli, sarebbe una normale scena di
raccordo in un altro film, Tony la conduce come se fosse una scena madre perché
sa che è quella con cui noi spettatori capiremo fino a che punto è disposto ad
arrivare Gil per i suoi ideali e la sua ricerca della perfezione, anche se, di
fatto, è un personaggio patetico che ha idealizzato il gioco («Il baseball è
meglio della vita perché è giusto»), la sua squadra, il suo idolo e anche il
suo passato, i suoi “Glory Days” (per dirla alla Springsteen) forse sono tali
solo nella sua testa, proprio come quegli Italiani che hanno tirato due calci
ad un pallone da ragqzzini, ma sanno come dovrebbe essere allenata LA NAZIONALE, l’unica che
conta, gli altri sono “Azzurri” minori.

Ma se Atene piange, Sparta non ride, perché il “buono” del
film Bobby Rayburn tende all’arrogantello e quando inizia a giocare sembriamo
rimasti solo noi spettatori e Gil a compatirlo. Parliamo, comunque, di un bravo
ragazzo che tiene moltissimo al figlio (per altro, interpretato dal figlio di
Michael Jordan in Space Jam), ma con
tutte le sue manie da giocatore, senza il suo numero di maglia 11, non può
giocare e anche se all’arrivo di una superstar in una squadra professionistica
americana di solito i gregari si fanno da parte, qui ci vuole un motivo di
attrito e il numero 11 è già sulle spalle (e non solo) di Juan Primo, un Benicio
del Toro con un po’ meno di occhiaie del solito e un tintone osceno, ma che si
mangia ogni scena in cui compare.

“Anche il mio papà ha giocato a Baseball per un po’. Ma a Basket era più bravo”

Lo so che può sembrare una trovata un po’ assurda, ma vi
assicuro che in squadra ho visto gente fare le cose più matte per proteggere o
conquistare un determinato numero di maglia, la scaramanzia degli sportivi è un
fattore, quindi per funzionare ci vuole un personaggio veramente motivato a
tenersi quel dannato numero 11 (che per un po’ è stato anche il mio numero di
maglia ora che ci penso, storia vera). Benicio del Toro è perfetto in questo
senso: un tamarro la cui ascesa a eroe della squadra è sottolineata dalle note
di “Bem Bem Maria” dei Gipsy Kings, che letteralmente oscura uno che nel 1996
era più famoso di lui come Wesley Snipes.

“Sono fortissimo anche a basket, non lo hai visto Basquiat?”

Snipes è un po’ Mr. Sport al cinema, pratica da sempre arti
marziali ed è fanatico del Manchester United, ma sul grande schermo è stato un pugile (e Walter Hill non può non
aleggiare in un film sul suo sport, il baseball), un giocatore di basket e qui torna ad interpretare un giocatore di
baseball dopo quel mio piccolo culto personale che è “Major League” (1989). Il
peccato, forse, è che Wesley Snipes si sacrifichi anche troppo, mettendosi al
servizio di un film pensato per dare l’occasione a De Niro di interpretare
un’altra volta la storia di un uomo sull’orlo della follia che finirà per
travalicarlo nel modo più drammatico possibile.

“Major League lo hanno visto in dodici Cassidy, spara questa palla non ho tutta la giornata!”

Gil, mantenendo fede alle parole in rima con cui inizia il
film, decide che con una vita a rotoli, la sua unica ragione di vita sarà
aiutare il suo idolo a tornare grande, quando le cose gli vanno bene ascolta
felice i Rolling Stones («Il signor Pellegrini dice che Mick Jagger è gay», «Di
al signor Pellegrini di andare a prendersela nel culo»), quando sprofonda nella
follia partono i Nine Inch Nails e Tony Scott tiene la sua macchina da presa
in movimento sempre, per sottolinearci quanto sia ballerina la mente di Gil
che arriva a toccare vette quasi da assassino di un Horror, tipo la scena del
frigorifero, quella con cui toglie a Juan Primo il suo amato numero 11, per
regalarlo al Bobby. Letteralmente!

Numero di maglia: voi non avete idea di cosa possano fare gli sportivi per averli, credetemi.

“The Fan” al botteghino non va benissimo, viene battuto da
roba universalmente considerata disastrosa come Spy e Ancora Vivo e
questo spiega perché tutti e tre questi film ancora oggi vengano replicati in
tv per provare a raggranellare qualche soldino, ma non cambia il fatto che la
prova di Robert De Niro sia ancora quella di un attore capace di far paura sul
serio, anche quando le motivazioni del personaggio si fanno labili come la sua
mente, De Niro è minaccioso come un serpente a sonagli, anche se il suo piano
finale è una baggianata di proporzioni epiche (per un fan essere finalmente sul
campo accanto al suo eroe è il massimo della vita), quasi non te ne accorgi
perché, beccami gallina! Tony Scott non fa calare il ritmo del film nemmeno di
mezzo secondo.

“Non ci chiederà di andare in campo vero? Io mi ricordo cosa è successo a Billy Cole

Lo Scott giusto tira fuori il meglio dalle facce che
popolano il film, come il manager John Leguizamo, oppure la giornalista Ellen
Barkin che nel tirato finale diventano elementi chiave (e Jack Black, la cui
scena in Una vita al massimo è stata
tagliata, qui si vede per ben… Due secondi!), ma soprattutto gira tutto alla
grande, non parliamo solo di un aspetto patinato e curatissimo, quello lo
potete trovare in tutti i suoi film, mi riferisco proprio al modo in cui anche
nei dialoghi tra i personaggi, il ritmo del film sia sempre sul filo della
tensione, il che per un thriller piuttosto canonico, con un protagonista che ti
aspetti solo di vedere fare il pazzo, non è certo una cosa scontata.

“The Fan” è il classico film su commissione, girato da
qualcuno con un talento cristallino, perché potete criticare tutto a questa
pellicola, ma non il fatto che non abbia momenti memorabili oppure che sia
banale, nella mani di un altro regista sarebbe stata solo una serie di dialoghi,
grazie allo Scott giusto è una tensione continua come dovrebbe essere sempre un
Thriller. Perché, come mi piace ripetere: è nel film su commissione che si vede
il talento del vero autore e se non siete d’accordo, ricordatevi che io
colleziono coltelli come Gil Renard (storia vera).
Tra sette giorni, la rubrica continua con il più paranoico
dei capitolo, ma prima vi lascio con il consueto schemino della Scottitudine!

“Fai schifo Ridley ritirati! Buuuuuu sei una schiappa!”

The Fan – Il Mito
(1996)

Se lo avesse diretto Ridley?
Ci avrebbero triturato la min… iatura sulla prova magnifica
di De Niro diretto da un grande regista, invece lo ha diretto Tony, quindi sono
tutti a dire che: “Aaaah, però “Re per una notte” (1983) è meglio”, grazie al caz…
zeggio!
Nel paragone diretto, resta comunque molto meglio di:
Il genio della truffa (2003)
Entrambi sono film basati su un protagonista istrionico,
chiamato ad un ruolo da pazzoide e ci tengo a precisarlo, a me è sempre piaciuto
“Il genio della truffa”, ma è proprio la regia di Tony a dare più brio al suo
film rispetto a quello del fratello che lascia fare tutto a Nicolas Cage
aspettando il colpo di scena finale placidamente.
Risultato parziale dopo il nono Round:
Un film minore con uno dei più grandi attori della storia
del cinema al suo meglio e chi lo ha diretto? Tony, lo Scott giusto!
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