Malgrado il fatto che gli Irlandesi abbiano fama di attaccabrighe sempre pronti a far pugni, Liam Neeson forte della sua lunga gavetta teatrale in patria, per anni è sempre stato considerato un attore “serio”, uno di quelli che piacciono ai critici con la pipa e gli occhiali.
Eppure i suoi primi film americani a ben guardarli, avevano entrambi i piedi ben piantati nel cinema di genere: piccole parti in Excalibur e Delta Force, fino all’apice assoluto, uno dei singoli film che ho visto e rivisto più volte in vita mia ovvero Darkman, quello che ha reso il vecchio Liam uno dei miei attori preferiti.
Ma è inutile stare qui a girarci attorno, la popolarità vera per Neeson è arrivata con i film drammatici, la notevole doppietta composta da Schindler’s List e “Nell” (1994) lo hanno etichettato per sempre come attore drammatico, con buona pace delle sua parti come Qui-Gon Jinn o del dottor Peyton Westlake.
Ecco perché quando arrivò il primo “Taken” nel 2008, buona parte del pubblico ci rimase quasi male a vedere Liam Neeson trasformato in irlandese da combattimento votato ai film d’azione, dimenticando che il suo film precedente era un solidissimo Western per cui ho un debole, “Caccia spietata” (2006). Bisogna dire che più avanti nella sua carriera il nostro Liam ci ha preso gusto, abbracciando l’idea di eroe dell’azione intento a vendicare qualche parente rapito o ucciso, infatti ad oggi sono anche gli unici ruolo che gli propongono, visto che anche grazie a lui il modello dell’attore drammatico di molto sopra gli ‘anta che si riscopre vendicatore è diventato quasi una moda. Eppure quella manciata di anni e titoli sulla fine dei primi anni ’10 del 2000 sono stati cruciali per la carriera di Liam Neeson, per la sua vita invece, è stato drammatico il 16 marzo del 2009.
L’attrice Natasha Richardson, moglie di Liam fin dal 1994, quel giorno decise di prendere lezioni di sci, sport che storicamente si pratica sulla neve, anche perché sull’asfalto la vedo complicata, ma giusto per iniziare ad introdurre un argomento che terrà banco pe tutto il post. Natasha cade, sbatte la testa ma inizialmente sembra solo un momento di paura destinato a sciogliersi in una risata e magari una storiella da raccontare in futuro, purtroppo non sarà così, poche ore dopo Natasha Richardson finì prima in coma e poco dopo lasciò il marito vedovo e due figli, Micheál e Daniel.
Sarebbe troppo facile e giornalisticamente – aggettivo di cui mi approprio anche se io di giornalistico non ho proprio nulla, mi fanno pure schifo i The giornalisti – sfizioso dire che i ruoli da super uomo vendicatore per Liam Neeson, quelli alla “Taken” per capirci, siano arrivati tutti insieme in quel periodo, ma basta guardare la sua filmografia per rendersi conto che non è stato affatto così, anche se l’etichetta ormai era stata appiccicata sull’attore, ecco perché “The Grey” alla sua uscita venne recepito da buona parte del pubblico come un altro, l’ennesimo, film con Liam lo scalciaculi tutto spara spara spara!
In realtà Neeson aveva già lavorato con Joe Carnahan in A-Team e se parliamo di tempismo sbagliato in carriera, nessuno ha avuto più sfortuna artistica di Carnahan, uno che se avesse lavorato negli anni ’80 o nei primi ’90 ora sarebbe considerato in maniera molto diversa dal pubblico, quando invece sembra eternamente destinato ad arrivare troppo tardi, ma anche essere stato uno dei pochi a schierarsi spudoratamente a favore di Tony, lo Scott giusto (non a caso produttore esecutivo del film), non deve averlo aiutato ad Hollywood.
Stando alle parole di Carnahan, intervistato nei contenuti speciali del DVD di “The Grey”, aveva capito che una storia così non poteva girarla comodamente alla Hawaii, usando i cinghiali selvatici come minaccia, bisognava stringere i denti e girare alla vecchia maniera, nel freddo e nella neve della Columbia Britannica, con il Canada nei panni dell’Alaska, ovvero l’ambientazione del racconto originale di Ian Mackenzie Jeffers, co-sceneggiatore insieme a Carnahan. Ora però ci voleva non solo il cast giusto, ma l’attore giusto per il tormentato protagonista John Ottway, i contenuti speciali saltano ogni riferimento a questa parte, ma credo che sia abbastanza chiaro perché Liam Neeson abbia accettato il ruolo senza batter ciglio, un modo per esorcizzare forse, come o forse più di qualunque seduta dall’analista.
Alla sua uscita ho fatto due palle così a tutti con “The Grey”, ho passato gli ultimi dieci anni a fare due maroni a tutti con questo film, ancora oggi se qualcuno mi consiglia un bel film nuovo uscito da poco, devo mordermi la lingua per non citare “The Grey” (storia vera), che ormai non è nemmeno più nuovo ma è stagionato abbastanza da meritarsi un compleanno su questa Bara.
Perché l’ho apprezzato così tanto fin da subito? Per tutta questa premessa e la mia stima per Liam Neeson sicuramente, ma anche per i trascorsi da lettore, raramente al cinema, in quello contemporaneo ancora meno, qualcuno ha saputo fare sua così bene la lezione dei romanzi di Jack London che amavo da bambino, l’uomo contro la natura selvaggia, che va rispettata e temuta in parti uguali, in cui freddo, neve, assenza di cibo e riparo e soprattutto i lupi, sono fattori che possono determinare la differenza tra vivere o morire, un film che parafrasando la poesia ripetuta più volte dal protagonista, ci porta ancora una volta nella mischia.
Proprio la rappresentazione dei lupi nel film è stato un altro di quei fattori che non ha aiutato la percezione del film presso il grande pubblico, mettete tranquillamente questo dettaglio tra le sfighe che hanno attanagliato la carriera di Joe Carnahan, perché sulla base del trailer molti hanno creduto che “The Grey” s’impegnasse molto a fornire un’immagine stereotipata dei lupi, come di mostri assassini affamati di sangue e carne umana, insomma qualche animalista si è irritato prima del tempo, giudicando senza aver ancora visto un film dove i lupi sono archetipi, per quello che vale avrebbero potuto davvero essere i cinghiali selvatici della Hawaii, ma il lupo si porta dietro dei trascorsi narrativi notevoli che “The Grey” sa sfruttare alla grande.
La storia è quella di John Ottway (ovviamente Liam Neeson), un cacciatore che lavora per una compagnia petrolifera in un impianto di estrazione in mezzo ai ghiacci dell’Alaska, il suo compito è quello di difendere gli operai dai numerosi lupi presenti nella zona. Quasi un cacciatore antico il nostro John, uno che quando è costretto a sparare ad un lupo, poi rende onore alla bestia caduta come avrebbero fatto i nativi americani, con lo spirito dell’animale ucciso, un dettaglio che tornerà in qualche modo nella scena dopo i titoli di coda del film, così ho sbrigato anche questa questione d’interesse legata a “The Grey”.
I flashback del personaggio sono tutti legati alla moglie, all’inizio del film Joe Carnahan è bravo a giocare a carte coperte, la depressione del suo protagonista e gli istinti suicidi di John potrebbero essere legati alla fine della storia con la moglie, ma proprio un ululato impedisce all’uomo di spararsi (il caso) mentre un incidente aereo mette alla prova il suo desiderio di morte (la fatalità).
L’aereo che dovrebbe riportare a casa Ottway e gli altri lavoratori dell’impianto, precipita per un guasto in volo, in una scena assolutamente spettacolare, ancora oggi una delle migliori mai dirette da Joe Carnahan, allo schianto che ricorda Alive di Frank Marshall, apertamente citato nel film dagli stessi personaggi, che sopravvivono in pochi. Ottway già sa che la compagnia non pagherà una costosa operazione di recupero per otto pezzenti come loro, restare accanto al relitto vorrebbe dire morte certa, senza cibo ed esposti alle temperature destinate a precipitare, l’unica speranza è muoversi verso la vegetazione e le temperature più calde a sud, a patto di arrivarci prima dei lupi, che non attaccano l’uomo a meno che non siano affamati o che qualcuno non invada il loro territorio, cosa che gli sfortunati sopravvissuti hanno già fatto. Quindi sarà anche vero che questo film non contiene realtà assolute sulla vita dei lupi, ma il cinema per nostra fortuna non è tenuto ad essere realistico, per quello ci sono i documentari sui lupi narrati da Morgan Freeman.
Da qui in poi “The Grey” diventa un film sulla sopravvivenza, una gara ad eliminazione in cui la natura ridimensiona l’uomo ricordandogli perché per millenni ci ha tenuto in scacco, come in uno Spaghetti Western degli anni ’60 i protagonisti vengono eliminati ad uno ad uno, spietatamente (cit.), senza però che prima ognuno di loro faccia i conti con il proprio passato, la loro stessa indole, insomma il proprio barometro morale di essere uomini.
Sempre nei contenuti speciali del DVD, Joe Carnahan pecca anche un po’ troppo di modestia, lui stesso definisce “The Grey” come un film d’azione ben poco distante da tanti altri che abbiamo già visto (io direi molto più curato nella forma Joe, non buttarti giù così), ma sono i temi nella pancia della storia a far salire di livello di “The Grey”, che di fatto è un film nerissimo ambientato interamente tra il bianco candido della neve, quindi anche dalla mescolanza dei due colori potremmo dire che viene fuori il titolo del film.
Al pari dei lupi, gli umani (homo homini lupus, mai più vero di così) sono archetipi narrativi, abbiamo il cattolico convinto con tanto di occhiali sul naso, perché Carnahan non va tanto per il sottile con le metafore. Ma anche il “latino” un po’ spavaldo, con il tatuaggio “No mas” sul collo che sottolinea i trascorsi da ragazzo di strada, che mette in dubbio il ruolo di “maschio dominante” di John Ottway, ad interpretarlo, in un ideale passaggio del testimone tra attori feticcio di Carnahan, è Frank Grillo che senza girarci troppo attorno ha dichiarato che recitare come Neeson era «Come giocare a baseball con Mickey Mantle» (storia vera).
Una volta messo in chiaro che Ottway, che del “maschio dominante” non ha nulla se non la maggiore esperienza con i lupi, in quel branco di bipedi è quello da seguire, il film manda a segno una serie di prove da superare per i protagonisti che con dieci anni d’anticipo sembrano dire a Squid Game, levati, ma levati proprio.
Attorno al fuoco Ottway definisce il piano: «Li uccidiamo uno alla volta, come fanno loro con noi» che per certi versi è il momento della sua personale versione dell’Indianapolis Speech di Lo Squalo, solo scritto diversi chilometri sotto il talento di John Milius (oggettivamente inarrivabile), infatti non a caso per un po’ i sopravvissuti restano tali grazie ad un trucco preso in prestito proprio dai cacciatori di squali.
Ma la fatalità e il destino continueranno a falciare i protagonisti uno alla volta, destinati a morti orribili, la scena della discesa lungo la corda è diretta così bene da Joe Carnahan, che era dai tempi di “Cliffhanger” (1993) che non mi venivano le vertigini guardando un film, anche se l’attraversamento del fiume gelato è ancora peggio.
“The Grey” ti fa sentire il freddo, la fatica, la fame e le ferite dei protagonisti, anche perché già stremati, per loro l’attraversamento del fiume è l’ennesimo calcio nelle palle dato dal destino a Ottway e compagni, se non ha senso morire in una spanna d’acqua, ha ancora meno senso essere impotenti come il nostro John, mentre non può fare davvero nulla per salvare uno dei suoi compagni, che finiranno tutti a terra uno dopo l’altro, una mattanza ritmata solo dai discorsi religioni che sono un punto chiave del film.
I primi morti del film vengono seppelliti con tanto di preghiera, un po’ abbozzata ma sentita, alla quale Ottway evidentemente scettico ma rispettoso, assiste in doveroso silenzio. Ad ogni morte il tema della Fede emerge con sempre più dubbi fino allo sfogo finale di Ottway che mette in chiaro la natura stessa di “The Grey”.
Stanco, ferito, affranto e ancora circondato dai lupi, Ottway si rivolge a Dio in modo schietto e anche un po’ poco rispettoso, come solo un uomo arrabbiato e pieno di dubbi può fare. Dammi un segno e dedicherò la mia vita a te, «Mostrami qualcosa di concreto! Ne ho bisogno adesso, non un altro giorno!», la risposta del Grande Capo ovviamente è sempre la stessa, il silenzio, anzi, poco dopo gli manda altri lupi facendo trovare la loro tana ad Ottway, quindi viene anche da pensare che sia un po’ un Dio in stile vecchio testamento a cui il protagonista risponde come fanno gli uomini (laici): «Fanculo ho capito faccio da solo, faccio da solo va bene.»
Impossibile pensare che in quel momento così sentito, in quel monologo con Dio (ed ora che ci penso Liam Neeson sull’argomento sarebbe anche tornato) l’attore Irlandese non ci abbia messo dentro un po’ dei suoi dubbi per una tragedia insensata e inspiegabile che gli ha portato via la donna che amava, io spero che grazie a Ottway il vecchio Liam abbia buttato fuori un po’ di veleno per andare avanti, un po’ più immune di prima. Carnahan abilissimo si gioca la svolta sulla moglie del personaggio proprio quando il film (e le musiche di Marc Streitenfeld) raggiungono l’apice ed è qui che “The Grey” saluta e bacia dividendo anche a metà il pubblico. Se siete tra quelli ancora dubbiosi sulla rappresentazione dei lupi nel film, non ci sarà altro da aggiungere, per tutti gli altri, Carnahan e Neeson apparecchiano il tavolo per uno dei finali più belli che il cinema americano contemporaneo ricordi, per me un posticino tra i Classidy se lo merita.
Perché “The Grey” alla fine è questo, parti uguali di Jack London e azione certo, con Liam in versione Wolverine fai da te, ma è soprattutto un grande film laico su Dio, sul rapporto dell’uomo con le forze superiori che regolano il suo destino, raccontato proprio dal punto di vista di un laico, se non proprio di un Ateo. Pensare che da dieci anni ancora tanti lo scambiano per l’ennesimo film con Liam “ammazza tutti” Neeson, quindi tanti auguri a “The Grey”.
Ancora una volta nella mischia.
Nell’ultima vera battaglia che affronterò.
Vivi e muori in questo giorno.
Vivi e muori in questo giorno.
Sepolto in precedenza martedì 15 febbraio 2022
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