Incredibile come una serie iniziata con una prima stagione folgorante, sia caduta
dal banchetto così presto. Ho scoperto per puro caso che la quarta stagione di
“The Handmaid’s Tale” era in onda e per pura affezione nei confronti di June,
mi sono lanciato. Anche se ho capito presto perché nessuno ormai spenda più parole su
questa serie.
La prima stagione era un buon adattamento del romanzo
originale di Margaret Atwood, infatti terminava esattamente come l’ultima
pagina del libro. Un’occasione splendida per gli sceneggiatori di portare
avanti una storia perfetta per i nostri (brutti) tempi moderni, dando una
direzione ai personaggi, risultato finale? Una seconda stagione zoppicante che per trovare un senso, aveva avuto
bisogno di un pezzo di Bruce Springsteen.
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“Sono un’incassatrice, prima li faccio stancare poi vinco sulla lunga distanza” |
La terza stagione? Stavo per gettare la spugna anche io,
quando un’altra canzone (“Heaven is a place on earth” nell’episodio 3×09, uno
dei migliori non della stagione, ma di tutta la serie), mi ha convinto a
restare, anche se nel frattempo il successo della serie e immagino, un manipolo
di sceneggiatori disperati, hanno invocato Margaret Atwood di scrivere un nuovo
libro, pur di avere materiale in cui affondare i denti.
Cosa ha fatto Margaret Atwood? Stima infinita per lei, ha
pubblicato nel 2019 “I testamenti”, ideale seguito del suo “Il racconto
dell’ancella” (1985), in cui tramite il solito espediente del ritrovamento di
alcuni scritti, vengono racconti tre punti di vista di altrettanti personaggi
secondari del primo libro, che aggiungono qualcosa al mondo distopico creato
dalla scrittrice, ma nemmeno una sillaba sull’ancella protagonista. Un buon
libro, che non allaccia nemmeno le scarpe all’originale (di cui consiglio
caldamente la lettura) di cui pare quasi un compendio, brava Margaret falli
lavorare ‘sti fannulloni di sceneggiatori!
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“Ma tu sei matta, torniamo a Litchfield lì in fondo era una pacchia!” |
Senza alcun supporto cartaceo, la quarta stagione di “The
Handmaid’s Tale” spara in aria nel disperato tentativo di colpire qualcosa, la
sensazione generale è quella di assistere ad un cuoco intento ad allungare il
brodo di una zuppa che già da tempo, era abbastanza insipida.
Se nel finale della terza stagione, June (Elisabeth Moss,
il cui talento resta l’unico motivo per guardare ancora questa serie) sembrava
avviata verso il ruolo di rivoluzionaria di Gilead, dopo il salvataggio dei
bambini spediti al sicuro oltre il confine Canadese, qui la serie fa fare al
personaggio un ulteriore inversione ad “U”. Prima bisogna riprendersi dalle ferite
riportate, poi velocemente l’ancella è pronta per rivivere tutte le situazioni da cui
l’abbiamo già vista faticosamente uscire nel corso delle precedenti tre
stagioni.
Assistiamo nuovamente alla violenza (spesso giustificata
solo dal ruolo di potere) della “zie”, le guardiane armate di Taser, ancora una
volta June viene catturata a torturata, con tanto di citazione proprio a
“Heaven is a place on earth”, che ormai è la sua personale colonna sonora del
dolore. Insomma la quarta stagione di “The Handmaid’s Tale” sembra uno scialbo
“Greatest hits” dei momenti chiave della serie, almeno fino agli ultimi due
episodi, in cui per gli sceneggiatori sarebbe stato ridicolo continuare a
riciclare vecchie trovate, quindi sotto con qualche minuto anche al
processo ai coniugi Waterford.
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“Say my name”, “June Osborne”, “you’re goddamn right” (cit.) |
Occasione per offrire con la testimonianza giurata di
June (episodio 4×08), un lungo, lunghissimo monologo in cui l’ancella rivive
tutti i maltrattamenti subiti, insomma un bel riassuntone delle prime quattro
stagioni (un altro!), che vale solo perché Elisabeth Moss è incredibilmente
brava a caricarsi tutto il dolore e la sofferenza del suo personaggio, in un
primo piano che diventa sempre più stretto, con le palpebre che sbattono sempre
più velocemente per evitare alle lacrime di fare capolino, perché quello è il
momento di June, che la testa non l’ha abbassata mai e di certo non vuol
passare per vittima ora. Vi ho già detto che l’unico motivo rimasto per
guardare questa serie è Lizzy Moss?
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Anche questa volta, migliore in campo senza appello. |
La stagione si conclude con un colpo di scena piuttosto
grosso, non ve lo rivelerò perché è davvero l’unica scossa di una stagione
piattissima, ma allo stesso tempo dimostra tutta l’indecisione di “The
Handmaid’s Tale”, se June abbracciasse il ruolo di vendicatrice di Gilead, le
accuse di “Nazi femminismo” sarebbero dietro l’angolo, allo stesso tempo però
continuare a maltrattare June e le protagoniste, per dare picconate al
patriarcato sembra l’unica carta rimasta ai curatori della serie che in questo
tenere i piedi in troppe scarpe, non fanno evolvere i personaggi, continuando
inesorabilmente ad allungare il brodo.
Ovviamente “Il racconto dell’ancella” è già stato
confermato per una quinta stagione, a questo punto mi auguro anche ultima,
perché sarebbe davvero ora di concluderlo questo racconto. Per
assurdo il film per la televisione del 1990, quello con Robert Duvall nel ruolo
del Comandante Fred, di Faye Dunaway in quelli di sua moglie e con Natasha
Richardson sotto il paralume della protagonista, aveva almeno le palle di dare
una direzione ai personaggi, dando loro un evoluzione e una conclusione alla
storia di Margaret Atwood. Lo faceva con quattro spicci e i mezzi televisivi
del 1990, non proprio quelli a disposizione delle serie tv nel 2021, vuoi
vedere che gli sceneggiatori finiranno per pescare dal film di Volker
Schlöndorff (salute!) per avere un po’ di materiale per la quinta stagione?
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Sembra un’anticipazione della quinta stagione, ma vi assicuro che è successo davvero. |
Che brutta fine ha fatto questa serie, ormai sono in
ballo e resterò fino alla sua conclusione, ma chi lo avrebbe mai detto che sarebbe
precipitata così velocemente.