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The Handmaid’s Tale – Stagione 2: Cuori affamati e tempi oscuri

Ultimamente faccio una gran fatica a seguire le serie tv,
trovo insopportabile l’eterno cianciare
e non riesco a trovarne una davvero al passocon i nostri brutti tempi. Per assurdo, l’unica che riesco a guardare è
quella che assesta più schiaffoni in faccia al pubblico, per questo, la
più necessaria, proprio in virtù dei brutti tempi di cui sopra.

A livello di scrittura, non tutto risulta proprio pesche e
crema in questa seconda stagione, bisogna dirlo, ci sono degli episodi che
allungano un po’ il brodo e alcuni passaggi che restano misteriosi e non ben
spiegati, eppure mai per tutta la stagione mi sono annoiato, lo so, questa non
è un’argomentazione, è un dato soggettivo, ma su quella ci arrivo a breve, prima
fatemi avvisare degli SPOILER! Così almeno lo sapete.
Offred (o Difred, se seguita la serie doppiata) fugge, per
qualche tempo ritorna ad essere June, prima di venire catturata nuovamente,
accade due volte nella stessa stagione, per due volte sono rimasto incollato
allo schermo a fare il tifo per una Elisabeth Moss a cui basta corrugare la
fronte per farti capire tutto quello che ribolle in testa al suo personaggio.
La prima stagione terminava
esattamente dove finiva il libro di Margaret Atwood, “Il racconto
dell’ancella” (1985), da qui in poi per lo showrunner della serie Bruce
Miller è stato, non vorrei dire terreno fertile, perché considerando le
tematiche della serie mi sembra indelicato, diciamo una zona grigia da
esplorare.
La prima puntata inizia subito forte con la scena
dell’impiccagione che pare messa lì a ricordarci che begli schiaffoni è in
grado di regalare questa serie, nel tentativo di espandere il mondo in cui le
ancelle vivono, gli autori non fanno tutto giusto, ma dimostrano che questa
serie ha ancora delle cose da dire, oppure peggio: sono i brutti tempi in cui
viviamo che hanno ancora bisogno di questa serie.

Questo è l’inizio della prima puntata, tranquilli, poi peggiora.

Scrivendo della prima stagione, criticavo una
mancata spiegazione sul ruolo degli uomini nel “Coraggioso nuovo mondo”
chiamato Gilead, voi direte: “E’ una storia che ruota attorno alle ancelle, una
in particolare, che ti frega del ruolo degli uomini? Maschilista!”. Eh lo so, ma
in questo portatore sano di cromosoma Y, ho una deformazione che porta a farmi
questo tipo di domande, inoltre sono un noto rompicoglioni, quindi prendere o
lasciare.

La seconda stagione NON risponde alla mia domanda,
coraggiosamente cerca di prendere le distanze dal lavoro di Margaret Atwood
introducendo, ad esempio, le Colonie dove ritroviamo Emily (Alexis Bledel) e per
un episodio pure Marisa Tomei, nella parte di una padrona caduta in disgrazia.
Ruolo che da solo solleva più domande che altro, perché ogni volta che ti
sforzi per capire quali siano le regole di Gilead, diventa chiaro che il lavoro
di “World building”, la costruzione di uno scenario credibile per questa storia
distopica, non è affatto buono, è proprio qui che l’elefante nella stanza ti fa
“Ciao ciao” (con la proboscide), perché a “The Handmaid’s Tale” interessa zero
essere una serie di fantascienza, la sua missione è quella di essere la serie
militante dei palinsesti americani.

“Sempre odiato andare in colonia, anche da piccola”.

Sarebbe fin troppo facile etichettarla come la serie della
rivolta femminile e del movimento #metoo, anzi per me sarebbe pure riduttivo, se
proprio devo dirla tutta, ma è chiaro che questa seconda stagione sostituisca
volutamente le allusioni con le prese di posizioni anche esplicite, un esempio?
Enorme enfasi attorno al personaggio di Eden e nemmeno una riga di dialogo sul
poveretto che ci saluta insieme a lei. Ma molto più semplicemente basterebbe
una domanda: “Cosa fa l’utilissimo marito di June lassù in Canada per tutta la
stagione?”. Ecco appunto, avete la vostra risposta.

In alcuni passaggi, la violenza pare infilata a forza
nella storia per provocare lo spettatore, tutto vero, ma questo non mi ha
impedito di soffrire lo stesso sul mio divano di casa durante l’episodio 2×10 (The
Last Ceremony), grazie all’ideona dei coniugi Waterford per provocare il
travaglio: coniugi Waterford mille grazie di cuore, eh? A buon
rendere!

Ho sempre preferito tuo fratello Ralph anche prima… ‘Stardo.

La dico fuori dai denti perché fino a questo punto sono
stato fin troppo signore, se presa di posizione dev’essere che lo sia come si
deve, The Handmaid’s Tale poteva diventare un santino del movimento #metoo,
d’altra parte mentre questa seconda stagione veniva scritta, il movimento
raggiungeva il suo apice, sarebbe stato facile cavalcare l’ondata ed
accontentarsi del suo ruolo, dicendo l’equivalente di cose tipo «Brutto Weinstein!
Cattivo Weinstein!», quello che fa, invece, “The Handmaid’s Tale” è l’equivalente
di quello che faceva Peter Finch in “Quinto potere” (1976) per prima cosa s’incazza e poi viene a vedere quanti sono disposti a seguirlo, in tal senso è
l’esatto opposto della seconda stagione di Tredici, quella davvero è una palla senza più nulla da dire.

No, “The Handmaid’s Tale” ha ancora delle cose da dire
perché sarebbe uno spreco perdere l’occasione e non fare niente, June è un
personaggio davvero troppo riuscito per lasciarlo andare, un’icona di
resistenza umana a cui ogni volta che qualcuno dice «Sia Benedetto il frutto»,
con le parole risponde «Possa il Signore schiudere», ma con lo sguardo dice
«Vaffanculo!» e proprio per questo bisogna solo essere felici se Bruce Miller e
soci sono riusciti a trovare un modo sensato per portare avanti la storia.

Uno sguardo vale più di mille vaffanculo.

…Ora che ci penso per altro, questo Sia Benedetto il frutto/Possa
il Signore schiudere è la versione pettinata e ordinata di una roba da osteria
che terminava con “…Che Dio la benedica”. Ok, fine della riflessione colta,
torniamo alla serie!

Negli ultimi tre episodi la serie sale di colpi e non prende
più prigionieri, il personaggio di Serena Joy (Yvonne Strahovski, davvero
bravissima alle prese con un personaggio facile da odiare per il pubblico)
capisce che potrai anche vestire il blu anzichè il rosso, ma in questo
coraggioso nuovo mondo una donna deve stare comunque al suo posto, anche se si
ha ancora un cognome ed è Waterford. Tutte le contradizioni del personaggio nel
finale vengono fuori, mentre quella che si conferma una combattente è proprio
June.

Senza cromosoma Y, nemmeno il blu può tenerti fuori dai
guai.

L’episodio 2×11 (Holly) potrebbe essere da solo il finale di
stagione, penso che sia impossibile non fare il tifo per lei vista la sua
condizione e se il celebre pezzo di Tom Petty era un gran utilizzo di musica
fuori contesto (nel finale della prima stagione), qui davvero si superano, dopo anni senza poter leggere, scrivere
o ascoltare musica, il primo pezzo che June sente è “Hungry Heart” di
Springsteen, si spara ai pesci in un barile lo so, perché colpire al cuore uno Springsteeniano
come me con un pezzo del Boss è facilissimo, ma la scena in sé è pazzesca perché
le prime parole cantante che June sente dopo anni di silenzio sono quella che
riassumono la piega presa dalla sua vita (“Got a wife and kids in Baltimore
Jack / I went out for a ride and I never went back”), infatti spegne la
radio, spara un vaffanculo è da quel momento in poi quella con l’Hungry Heart è
lei.

Miglior singola scena di una serie tv dell’anno, anche se non siete Springsteeniani.

Questo ci rimanda dritto filato a quel finale lì, in cui da
spettatore pensi: “Beh dai è fatta, ora va”, invece no, cappuccio in testa, più
per protesta che per la pioggia e i Talking Heads che prendono il testimone da
Tom Petty per concludere la stagione, il lavoro di June e di questa serie non è
ancora finito, a Gilead e non solo, ci sono ancora troppe cose che fanno
incazzare e non possono lasciare indifferenti e non fatemi usare la solita
banalissima frase sul fatto che non ci sia all’inferno una furia peggior di,
dai su, molto meglio David Byrne che parlava di ridurre in cenere la casa.

Funziona tutto alla perfezione in questa seconda stagione di
“The Handmaid’s Tale”? Magari no, ma non esiste una serie più necessaria di
così in questo momento, proprio ora che in troppi pensano di essere migliori di
altri solo per diritto di nascita, Nolite Te Bastardes Carborundorum resta in
voga, anche perché continuo a pensare che il compito dell’arte sia anche quella
di far riflettere e ditemi che non abbiamo un gran bisogno di gente che il
cervello lo usa in tempi come questi.

Burning down the house Gilead.
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