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The hurt locker (2008): vite appese a un filo rosso

Tutti al riparo! Il nostro artificiere Quinto Moro si prepara ad affrontare una bomba di film, muoversi! Muoversi! Qui la faccenda sta per diventare esplosiva!

Padre tempo è il miglior giudice d’ogni opera, più delle ciance all’uscita, dei premi, di tutto quanto il resto. Ricordo ancora la sera d’ottobre in cui, passando davanti al cartonato con bomba in primo piano e la scritta “dalla regista di Point Break e Strange Days” mi sono ritrovato in sala come rapito nella succhiozona (niente battutacce, è una citazione colta).

“The hurt locker” era uscito in Italia prima che nel resto del mondo e l’avevamo visto in quindici, mentre in patria, ancora in piena invasione americana in Iraq, dovette passare dalla trafila dei festival per trovare una distribuzione decente, rosicchiando sale un weekend alla volta per ripagare i costi (15 milioni scarsi).

Hai voglia ad essere la regista di Point Break se tutti i tuoi lavori successivi si sono schiantati male al botteghino e nessuna major vuole produrti, ma va detto che l’indipendenza è stata la fortuna di un progetto che doveva solo rispondere a Kathryn Bigelow. Nessuna major sarebbe stata così pazza da spedire una crew in Giordania, a un tiro di schioppo dalla vera guerra in Iraq, non il posto più tranquillo e sicuro del mondo.

La normale giornata di lavoro di un artificiere a Baghdad

Di norma nei film di guerra c’è una missione da compiere, un filo rosso che unisce il racconto dall’inizio alla fine e che serve a giustificare la storia o la guerra stessa. Qua il filo rosso va tagliato, un giorno dopo l’altro, in una missione la cui utilità e l’obiettivo non si riescono a vedere. I soldati stanno lì, punto. La missione c’è ma non riguarda loro, solo le teste (di voi sapete cosa) a Washington.

La missione per il sergente William James, lo specialista Owen e il sergente Sanborn è restare vivi sino alla prossima rotazione del personale. E se nelle pellicole che raccontano il Vietnam il senso di straniamento era esasperato dal fatto che si trattasse di ragazzi portati a forza dall’altra parte del mondo, in “The hurt locker” si sta al livello successivo perché questi sono soldati veri, addestrati e volontari. Nessun convocato da una cartolina ma soldati di professione. Ma come ogni guerra iniziata con una bugia il risultato non è diverso per gli uomini sul campo, in una terra straniera dove nessuno ti vuole e sei visto come un usurpatore al netto delle buone intenzioni che ti racconti o ti raccontano.

«Se prima non era un ribelle ora lo è di sicuro» dirà James dopo un incontro ravvicinato con un passante che s’è visto puntare una pistola alla testa. La guerra di “The hurt locker” tutto sembra tranne che una guerra per nobili intenti, né condita da nobili azioni. Tensione e paranoia circondano i soldati con un costante senso di minaccia che grida forte: non vi vogliamo, siete estranei, invasori, anche se vi atteggiate a salvatori.

Dubito siano i resti di un’antica civiltà

La storia avanza tra una serie di situazioni in cui l’unico filo conduttore sono i personaggi, sintetizzati dalle vere esperienze di veri soldati conosciuti da Mark Boal, giornalista al fronte in Iraq e sceneggiatore che qui inizia il sodalizio con Kathryn Bigelow, una che aveva la fascinazione per uomini al limite e spiriti kamikaze da tempi non sospetti.

Il film inizia con la vestizione dell’artificiere interpretato da Guy Pearce, visto e morto, giusto per mettere in chiaro che no, quella tuta imbottita non basta a salvarti la vita, non se i regali di benvenuto ai visitatori americani sparano onde d’urto in grado di sverniciare le automobili. Perciò quando il sostituto di Guy indosserà quella tuta, sapremo che ogni volta potrebbe essere l’ultima.

Far uscire di scena la faccia nota al grande pubblico, per sostituirlo con un ancora sconosciuto Jeremy Renner era di per sé una dichiarazione d’intenti: non c’è l’attore famoso che sopravvivrà a tutte le difficoltà per dirvi che alla fine, nonostante tutto, gli eroi vincono la guerra perché noi siamo i buoni. Qui nessuno è al sicuro, non conta il grado, non conta la faccia. All’epoca Jeremy Renner non dava alcun punto di riferimento allo spettatore, nessuna garanzia che sarebbe arrivato vivo alla fine, anche per l’atteggiamento da kamikaze.

«Ma qui c’è scritto che devo morire subito!» – «Ordini del Comandante Bigelow, signore»

Oltre a descrivere bene l’atmosfera che si respira in Iraq, gli equilibri all’interno della squadra sono tra gli elementi più solidi del racconto. James è un personaggio complesso e più che un’evoluzione, abbiamo uno svelarsi della sua personalità una situazione dopo l’altra. Il suo atteggiamento non è spacconeria da maschio alfa, né da fanatico della divisa e della bandiera. In guerra, James ha semplicemente scoperto il suo talento e il suo posto nel mondo, tanto più vivo quanto più si avvicina alla morte.

Di contro, il sergente Sanborn di Anthony Mackie ne è quasi l’antitesi e lo dico, Mackie il suo vero ruolo da Capitan America l’ha avuto qui, ma anche lui senza patriottismo becero, solo un gran senso del dovere e di ciò che è giusto fare per portare a casa la pelle.

La terza anima è il giovane specialista Owen di Brian Geraghty, in cerca di un senso e un equilibrio (anche mentale), sballottato tra la confusione di ciò che accade e in bilico tra le personalità dei suoi compagni.

«Ci pensi che tra 15 anni saremo famosi solo per esserci messi addosso un costume?»

La regia della Bigelow punta al realismo, non solo nella scelta delle location, ma nell’approccio ad ogni singola scena e inquadratura. Sudore e sabbia sulle facce degli attori disidratati e al limite dell’insolazione sono veri. Le scene d’azione sono costruite senza coreografie, piovono addosso alla squadra e allo spettatore, dall’esterno di un mondo ostile.

Il senso di minaccia intorno ai soldati è costante, come la paranoia alimentata dagli sguardi per strada, dai balconi, dai tetti: chiunque può essere un nemico, il bombarolo col detonatore in mano.

Il taglio da documentario è croce e delizia soprattutto nella prima parte e in cui non mancano le inquadrature ballerine, per fortuna poche, frutto di videocamere piazzate ovunque per avere ogni possibile inquadratura. La mostruosa quantità di girato è stata ridotta da duecento (!) e passa ore alle canoniche due, dalla coppia di montatori Innis/Murawski, tra l’altro affezionati collaboratori di lunga data d’un certo Sam Raimi.

Katrina va come un treno (e dirige col berretto come fanno i grandi)

Alla Bigelow e a Mark Boal interessano i soldati, l’ultima ruota del carro, quelli su cui si riversano i maggiori rischi e pressioni. Il messaggio politico non è urlato, è sottile ma filtra chiaro. Non è un caso se i personaggi più in alto nella scala gerarchica (e sociale), siano delle comparse e appaiano del tutto scollegati dalla realtà sul campo. Il colonnello di David Morse che si bagna le mutande per quanti ordigni abbia disinnescato James, così come lo psicologo sul suo piedistallo d’idealismo che straparla di come può esser bella l’esperienza della guerra, sono due facce della stessa ipocrisia. Il che spiega perché gli americani non volessero vedere un film che trattasse la guerra senza pomposo patriottismo, tanto che per tutto il 2009 Kathryn Bigelow e la sua squadra d’assalto fecero il giro di tutti i festival possibili e immaginabili, incassando noccioline nel mercato americano e salvandosi dal flop commerciale con quello estero. Ma hey, una pioggia di statuette a forma di zio Oscar e tutto risolto. Il pubblico americano avrebbe poi dimostrato di gradire film guerreschi di ben altro tono.

«Ma è Bradley Cooper quello?» – «Si. Non mancarlo»

Questo è l’unico film di guerra che rivedo con una certa regolarità, forse perché nella scala della paraculaggine sta in basso come pochi. Non che manchino le sequenze avvincenti o spettacolari, ma non sono artefatte e pompate. Le esplosioni al rallentatore non stanno lì solo perché fa figo, ma per mostrare gli effetti di un’esplosione, letale anche a grande distanza. L’agguato dei cecchini nel deserto, con Sanborn che sta a rinsecchirsi sotto il sole e James che gli dà da bere, è un momento di grande cinema. La scoperta del corpo bomba è materiale da film dell’orrore, di quello vero. L’angoscia per la scomparsa del ragazzino che si chiama Beckham come il calciatore poi, porta il protagonista a rischiare la vita in una caccia all’uomo irrazionale. Ogni episodio svela qualcosa della personalità del sergente James, ben più profonda di quanto non appaia a prima vista, anche se lui fa finta di niente.

«Cerco cose che scoppiano, ne avete viste?»

Un’interpretazione, se vi va, per chi l’ha già visto

Del film si è sempre detto che descrive “la guerra come una droga”, come sembra essere per James (così bravi tutti eh, lo dice la frase sui titoli di testa). Ma nessuno dei suoi compagni appare entusiasta di trovarsi lì. Tutto lo odiano, quel posto del cazzo. Certo, James ci si sente più a casa che in America, ma c’è dell’altro. James non è quell’esaltato del pericolo come può sembrare all’inizio. E’ solo bravo in quello che fa, e vuol continuare a farlo come chiunque senta di avere un talento o una passione per qualcosa, per quanto pericolosa sia.

Il finale è la negazione dell’eroismo. Lo è il crollo di Sanborn, schiacciato dal dolore per aver sfiorato la morte ed essersi scoperto senza prospettive, rimpiangendo di non aver mai avuto un figlio. Lo è l’incapacità di James di vedersi in altro posto al mondo che non sia in guerra.

Quando James torna a casa, si trova a scegliere la vita. Ma scegliere tra cinquanta marche di cereali non è così importante, non fa differenza. Non come scegliere quale filo tagliare, che invece fa la differenza tra vivere o morire, per te e per altre persone. E la moglie che nemmeno risponde quando lui parla della guerra è l’emblema di tutto il mondo che non ascolta, che guarda dall’altra parte, o che vuole semplicemente andare avanti con la sua vita.

«Fossero tutte piene di C4 e dinamite sarei più tranquillo»

Le interpretazioni sul titolo “The hurt locker” si sprecano. Significa “l’armadietto / la scatola del dolore”, la scatola dove finiscono gli effetti personali dei caduti perché tornino alle famiglie – vediamo Sanborn maneggiarne una a inizio film – ma può essere la metafora per il dolore o la paura che ogni soldato nasconde, dove chiude la propria umanità per non impazzire. C’è anche chi ne ha scritto come una metafora della bomba stessa.

O forse è la scatola in cui James conserva i souvenir delle bombe che ha disinnescato, oltre che la sua fede nuziale, «Tutte cose che mi hanno quasi ucciso.»

Dev’esserci qualcosa di più per dare al film proprio quel titolo. Vi dico la mia: Sanborn scopre che il suo armadietto è vuoto, che non c’è nessuna vita dentro, non ha niente a cui tornare. Vorrebbe qualcosa da chiuderci dentro che dia un senso alla sua vita e nel caso, alla sua morte, come un figlio, una famiglia, ricordi che non siano solo di guerra. James invece quell’armadietto non ce l’ha. Lui che un figlio e una famiglia li ha ma non sono qualcosa da custodire, né a cui voler tornare.

James ha fatto saltare la chiusura, o il suo armadietto non ha mai avuto nemmeno lo sportello. Ha la sua scatola di trofei, aperta, a vista. Senza filtri. Tutto può entrare e uscire. Non devono esserci armadietti chiusi nella vita di James, perché magari dentro c’è qualcosa che scoppia, e se non puoi aprirlo in tempo non riesci a disinnescarlo. E se quell’armadietto ce l’hai dentro e custodisci qualcosa di più importante di quello che fai, esiti, ti fai uno scrupolo e non sei più il migliore, magari una volta o l’altra ti crea un dubbio, una distrazione e… boom. Quel che resta di te finisce in una scatoletta di metallo e magari i tuoi trofei sembreranno a immondizia a quella famiglia dall’altra parte del mondo che forse di te non ha mai capito niente.

«Tu sai perché io sono come sono?» chiede James a Sanborn che non gli sa rispondere. Nessuno lo sa. Io continuo a riguardarmelo questo film, magari un giorno riuscirò a capirlo.

Chiudiamo con Jeremy Renner nella posa degli eroi della Bara

Un ringraziamento al sergente Quinto Moro per non averci fatti saltare tutti in aria, noi e tutta la Bara. Vi ricordo che potete trovare i suoi racconti cliccando fortissimo QUI.

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