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The Irishman (2019): la leva criminale della classe ’40 (Gangster Stars)

Martin Charles Scorsese, classe 1942. Robert Anthony De Niro Jr., 1943. Alfredo James Pacino, 1940. Joseph Frank Pesci, 1943. Harvey Keitel, 1939. Insieme accumulano uno sull’altro 388 anni, praticamente un’altra era, una andata che poteva essere omaggiata solo da questa combriccola di “bravi ragazzi”, quindi in alto i calici, perché siamo qui a celebrare la fine di un’epoca, tanto vale farlo all’irlandese.

388 anni. Portata discretamente direi.

Sapete cosa vorrei? Essere vecchio. Non per forza come uno dei signori qui sopra citati, ma anche solo di qualche anno in più, vorrei essere in un futuro remoto, alle prese con una rubrica dedicata a zio Martin Scorsese, in cui forte di Padre Tempo (il miglior giudice di sempre, anche in fatto di cinema) potrei archiviare tutta la faccenda con due righe tipo: “Quando “The Irishman” uscì in una manciata di sale cinematografiche e distribuito su scala mondiale sulla piattaforma di Netflix, ci furono alcune polemiche”. Punto, a capo, sotto con il film. Invece niente, è ancora il 2019, quindi l’argomento va affrontato anche se non mi va.

Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster vedere “The Irishman”. Saranno almeno dieci anni che zio Martino insegue questo progetto, ma è stato soltanto grazie al finanziamento di Netflix che il film è potuto diventare realtà, quindi se la pellicola è stata al cinema per troppo poco tempo, non è certo colpa di Netflix, perché i film prima di poterli vedere (come e dove preferite) bisogna dirigerli e completarli, altrimenti ciccia.

Nel mezzo mettiamoci anche la “polemica” che ha visto Scorsese da una parte e i film della Marvel dall’altra. Con tutto che io queste crociate da tastiera le trovo utili come un paio di pantaloni con il fondo cucito, devo dire che TUTTI, ma proprio TUTTI si sono sentiti in dovere di dire la loro sulla faccenda, una Cambogia di cinefili colti, con la pipa e gli occhiali, che per dieci anni non sono riusciti a spiccicare una critica costruttiva contro i film della Marvel, che improvvisamente si sono sentiti legittimati dalla voce autorevole di Scorsese. I fanatici dei film della Distinta Concorrenza (che il più delle volte sono roba dimenticabile) che zitti in un angolo hanno seguito il tutto, come il compagno di banco che oggi doveva essere interrogato, ma la maestra si è scordata e ha mandato te alla lavagna lo stesso. Nel mucchio mettiamoci anche i giornalisti, in cerca di “click” facili, svelti a mettere il microfono sotto il naso di tutti i registi che palesemente non hanno nulla da sparire con i film di supereroi (tipo Ken Loach, eh dai su!) che, però, sono stati traditi dalle affermazioni di uno come Bong Joon-Ho (storia vera).

«La Bara Volante? Non è cinema, è un parco a tema. Ed ora vedi di svolazzare via»

Inoltre, sembra che il mondo abbia scoperto solo ora che i film di Martin Scorsese durano tutti attorno alle tre ore. Cioè, va bene spararsi una serie tv da dieci puntate da cinquanta minuti ciascuno, ma i 209 minuti di “The Irishman” sono troppi? Anche Silence durava un sacco, ma non ho sentito tutto questo gran casino alla sua uscita, eppure era un film bellissimo anche quello. Non ci capisco più niente, come mi giro non trovo nessuno quasi nessuno con cui sono d’accordo, mi sembrano tutti esagitati, questi giovani con le loro diavolerie moderne!

Davanti a tutti questi personaggi illustri che si prodigano ad alimentare l’inutile caciara, reagisco come i protagonisti di “The Irishman”, sarà il tempo a decidere, io al massimo posso continuare a fare il mio dovere, imbiancando case, scavando fosse per le mie bare, presentandomi alle riunioni in giacca e cravatta, tipo becchino. Ah! Quanto vorrei essere vecchio e antico in casi come questo!

I film di Martin Scorsese sono tutti lunghi, vero, eppure mai nella mia vita ne ho trovato uno che ho faticato a seguire, discorso che vale anche per “The Irishman”, perché per zio Martino vale quello che di lui una volta ha scritto Stephen King: gli altri raccontano storie, Martin Scorsese scrive romanzi.

«Fatece largo che passamo noi, sti giovanotti del ’42»

Anche se nello specifico “The Irishman” è tratto da un saggio del 2004 intitolato “L’irlandese: Ho ucciso Jimmy Hoffa” (titolo originale “I heard you paint houses”) scritto da Charles Brandt e adattato per il grande schermo cinema Netflix oh, insomma, da Steven Zaillian, autore di uno dei miei film di zio Martino preferiti (“Gangs of New York” 2002), ma anche di tanta roba non proprio memorabile per lo Scott sbagliato.

Per raccontarci il romanzo sulla vita di Frank “The Irishman” Sheeran, zio Martino ha voluto i suoi amici, tutti, ecco perché Joe Pesci è di fatto stato richiamato in servizio dal suo ritiro, per impersonare Russell Bufalino e, se devo essere onesto, nel cast lui mi è sembrato il più impressionante di tutti.

Ma prima dell’inutile polemica con la Marvel, di Netflix contro la sala cinematografica e in generale di tutto il «Non è Cinema» che ci ha perseguitato in questi mesi, un fattore per me ha avuto un peso più degli altri, la famigerata tecnica di “De-aging” voluta da Scorsese che, per assurdo, viene proprio dai parchi a tema che zio Martino poco sopporta e ha fatto lievitare i costi del film alla bellezza di 160 milioni di fogli verdi con sopra le facce di altrettanti ex presidenti defunti (fischia! Quanto avrebbe dovuto incassare se fosse uscito solo in sala? Meditate gente, meditate) necessari a ringiovanire i personaggi, ma soprattutto Robert De Niro, nei vari momenti della storia del suo personaggio.

«Sai che a ripensarci, quella storia del botox non era tanto male»

Parliamo di Robert De Niro, una delle facce più riconoscibili della storia dell’intera umanità, lo abbiamo visto giovane al cinema e diventare più vecchio che in “C’era una volta in America” (1984) nella realtà, quindi per me il risultato finale del costoso “De-aging” risulta strano, non strano alla Gemini Man per fortuna, ma straniante lo stesso. Nella scena ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, De Niro sembra un soldato uscito da un “Call of Duty” a caso, mentre in altri momenti è impossibile non notare che il volto sarà stato anche ringiovanito al computer, ma il corpo resta quello di uno nato nel 1943, nella scena del pestaggio (in tutti i sensi), dove vediamo Frank spaccare la mano ad uno per futili motivi, le movenze del personaggio a livello fisico restano quelle di un settantenne e, devo ammetterlo, per qualche minuto la magia del “De-aging” mi ha tirato fuori dalla magia del film, con il rischio di far sembrare Scorsese il nonno che si lamenta con il nipote perché non riesce ad usare lo Smart-Coso, cosa che in effetti un po’ è anche accaduta.

Call of Duty: Bob De Niro.

Questa scelta così moderna fa un po’ a cazzotti con una ricostruzione storica impeccabile che copre un periodo storico anche vasto, dagli anni ’60 agli ’80, automobili, vestiti, ambientazioni tutto riprodotto in maniera fedele. In un film che guarda al passato, forse sarebbe stato più logico far interpretare il giovane Frank ad un altro attore (anche se questo avrebbe limitato l’utilizzo in scena di De Niro), ma davanti all’affermazione di zio Martino, mi trovo nuovamente d’accordo con lui e capisco: Scorsese questo film voleva farlo con i suoi amici, infatti quando finalmente nel film Frank raggiunge l’età giusta per non aver più bisogno di queste diavolerie moderne, il film migliora nettamente.

Quando dico che Scorsese questo film lo ha voluto fare con tutti i suoi amici, intendo proprio tutti. A partire da De Niro (al suo nono film in coppia con zio Martino) passando per Pesci, Keitel e uno che, per assurdo, in un film di Scorsese non ci aveva lavorato mai, ma che qui non poteva mancare, perché solo lui poteva andare sopra le righe come faceva Jimmy Hoffa delle sue sparate pubbliche, sto parlando, ovviamente, di Al Pacino, ma penso fosse chiaro.

Sembra Al Pacino, ma in realtà è Silvio “Steven Van Zandt” Dante che fa l’imitazione di Al Pacino con il “De-agin” (cit. inutilmente articolata)

Attorno a loro Scorsese ha voluto anche gli altri suoi amici, Felix “Skinny Razor” DiTullio, Tony Pro e Robert F. Kennedy, hanno i volti di Bobby Cannavale, Stephen Graham e Jack Huston che erano uno più bravo dell’altro in “Boardwalk Empire”, serie prodotta e diretta (il primo episodio almeno) proprio da zio Martino, insomma: c’è aria di famiglia in questo film.

Dopo essere stato un Al Capone incredibile, Stephen Graham regala un altro personaggio mitico: Tony Pro.

I gangster di “The Irishman” non sono quelli per cui fare il criminale è anche meglio che fare il Presidente degli Stati Uniti di “Quei bravi ragazzi” (1990), no al massimo questi Irlandesi vivono la morte di uno di “loro” (JFK) come un momento drammatico. Sono la generazione precedente ai Ray Liotta di allora (qui grande assente, forse non a caso) per parlare in termini “Sopraneschi”, più che Tony, sono Corrado “Junior” Soprano, personaggio che forse per via degli occhiali, Joe Pesci qui mi ha ricordato molto. Ma poi mettici anche che ad un certo punto, a cantare in ottimo Italiano un pezzo che ricordava il titolo di un film di Scorsese («Al di là della vitaaaaaaaa!») mi sono visto spuntare il “mio” Steven Van Zandt, una comparsa che dalla comodità del divano di casa mia mi ha fatto urlare: «Little Steven!» (storia vera).

Suona la chitarra per Springsteen e recita per Scorsese. La
noiosa vita di Little Steven.

Ma malgrado la presenza del chitarrista di Bruce Springsteen, il tono e il ritmo di “The Irishman” non è il Rock ‘N’ Roll di titoli come “Casinò” (1995), ad esempio. Quello che riesce sempre in maniera impeccabile a Scorsese oltre alla regia (qui davvero sono tre ore e mezza di lezioni su montaggio e movimenti di macchina da presa) è la narrazione, anche se il film in certi momenti si riduce ad alcuni vecchi che parlano, la storia resta più appassionate e facile da seguire della semplice esposizione dei fatti che sono parecchi, perché si passa dall’omicidio Kennedy a quello Hoffa, passando per la baia dei porci e tutti i legami della malavita con questi eventi chiave della storia americana.

Vi dicevo lassù che vorrei essere più vecchio di quanto sono per scrivere di un film così, ecco “The Irishman” in certi momenti mi guardava dicendomi «Che faccia tu fai. Sembro tanto vecchio a giovani occhi?», non l’ho trovato più potente del suo ideale successore più giovane “Quei bravi ragazzi” (1990), ma è uno dei quei film che fa a lungo valere il peso del suo passato, un po’ come The Mule, ma allungato a 209 minuti di durata. Perché riesce a portarsi dentro l’omaggio ad un’era ormai andata e un po’ come Scorsese con le nuove tecnologia, i suoi protagonisti non si adattano e ricordano ancora come funzionavano le cose ai loro tempi.

Who’s got the brain of JFK? What’s it mean to us now? (Cit.)

Ecco perché ogni personaggio che entra in scena ci viene presentato con una didascalia che riassume come morirà (male) in futuro, perché, in fondo, anche i nostri nonni facevano così: ti raccontavano quella vecchia storia dei tempi andati, ma solo dopo averti elencato come sono venuti a mancare tutti i protagonisti di allora. Ed ecco anche perché il viaggio in auto verso Detroit, diventa l’occasione per Frank e Russell di fare un viaggio indietro nei ricordi che sarebbe stato perfetto con qualche pezzo recente di Springsteen nell’autoradio.

Ecco, Springsteen, tra qualche giorno in sala uscirà “Western Stars” il suo esordio alla regia, ispirato al suo ultimo disco omonimo che non è il migliore che Bruce abbia mai composto, ma ha la forza dell’esperienza e degli anni dalla sua, soprattutto è il primo disco in cui Bruce si spoglia un po’ del mantello da Superman che fa concerti da tre ore di durata e fa invecchiare gli eroi proletari delle storie che canta che, malgrado tutto, continuano a correre come hanno sempre fatto.

“The Irishman” è il “Western Stars” di Martin Scorsese (a questo punto lo ribattezzo in amicizia Gangster Stars e non ci penso più) inizia a finisce con un piano sequenza tra i corridoi di una casa di riposo ed in mezzo troviamo tutti gli amici di un tempo di Scorsese, solo che non tutti possono avere come amici De Niro, Joe Pesci e Al Pacino, ma avendo proprio loro gli concede di riflettere sui personaggi che hanno interpretato per tutta la carriera, da cui per me spicca Joe Pesci, perché sembra davvero quello più sereno di tutti, insolitamente pacato rispetto a quanto siamo abituati a vederlo di solito.

Intanto, un’altra potenziale frase di culto, il vecchio Joe la porta a casa.

L’ultima mezz’ora di “The Irishman” va oltre il semplice film di gangsters che fanno le loro cose da criminali, è un film su un mondo che diventa sembra più piccolo, come riflesso nello specchietto retrovisore, in cui un grande dramma personale, viene minimizzato da Padre Tempo e De Niro, si ritrova a parlare con il nuovo che avanza (la Dayanara di Orange is the new black, per restare in casa Netflix ), una giovane infermiera che nemmeno sa chi fosse questo famigerato Jimmy Hoffa.

Perché il tempo questo fa: riduce in polvere (come Thanos!) le polemiche sterili su cosa sia o non sia Cinema oppure un parco a tema. Ed io (come dicevo lassù da qualche parte, nemmeno mi ricordo più, ero giovane quando ho iniziato a scrivere questo post) vorrei un giorno essere vecchio e stare ancora qui a parlare del nuovo film di zio Martino, ma per ora “The Irishman” sembra una presa di coscienza sul tempo che avanza («Non ti rendi conto di quanto scorra veloce il tempo, finché non ci arrivi»), Scorsese fa fare al cinema quello che Springsteen ha fatto in musica ai suoi ultimi personaggi: rendersi conto che il tempo è passato senza per forza lasciarsi andare alla malinconia, infatti la porta della stanza di Frank, resta aperta nel finale.

«Che hai fatto in tutti questi anni Bob?», «Sono andato a letto presto» (la cit. più facile del mondo)

Forse è vero che ora il Cinema è cambiato, la sala cinematografica ha perso la sua egemonia e la serie televisive sono diventate più vicine al Cinema, in un modo che ai tempi di Scorsese era impensabile. Come Frank, zio Martino non è d’accordo (e si è fatto sentire in tal senso!) e magari vorrebbe anche porvi rimedio, ma il rimedio migliore al momento è questo viaggio in auto tra i ricordi del Cinema come piaceva a lui, fatto con gli amici che lo hanno accompagnato negli anni, un film che sa di testamento (oh! Cent’anni di salute Martin!), ma soprattutto di buon cinema.

Forse un giorno, se sarò fortunato (ma dovrò esserlo molto!) arriverò ad essere vecchio come questi “Bravi ragazzi” (del ’40 o giù di lì) e “The Irishman” lo sentirò molto più vicino, per ora sono ben felice di aver fatto questo viaggio di tre ore o trent’anni che vale più di mille polemiche sterili che dopodomani saranno già state dimenticate. Però, oh, intanto senza l’opzione lingua originale di Netflix, io Joe Pesci che dice «Minchia!» in sala non so se lo avrei visto, voi fate almeno un favore a zio Martin, non guardatelo sullo smartphone questo film, ok? Fate i bravi ragazzi.

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