Sapete perché ho scelto questo titolo per la rubrica? Ok, perché mi piacciono gli Who, ma soprattutto perché ci sono film che mettono in chiaro chi sia bravo e chi sia John Woo, ovvero il migliore. Senza altri indugi benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Who’s Better, Woo’s Best!
Da quando esistono i film di genere con protagonisti maschili, esiste qualcuno che ironizza e semplifica il tutto alludendo al fatto che il “broomance” tra i protagonisti sia l’anticamera d’altro, fateci caso, dai Western con Jimmy Stewart e il Duca John Wayne, giù fino a Top Gun, il più delle volte riassunto ripetendo (e pappagallo) la frase di Tarantino, che poteva permetterselo perché QT non avrebbe mai avuto una carriera se non fosse per il suo padrino Tony, lo Scott giusto.
Prendi un film d’azione con due maschietti come protagonisti e ci sarà sempre qualcuno che semplificherà il tutto, alludendo all’omosessualità latente dei personaggi per passare ad altro, anche se va detto, Hong Kong in quella manciata di anni in cui è stata il centro nevralgico di una rivoluzione cinematografica iniziata con A better tomorrow, era anche un porto (dei fiori) non tanto franco, tipo Casablanca ma senza i nazisti (cit.) che proprio per i suoi trascorsi da colonia, sulla questione omosessualità non scherzava, quindi mettete anche tutto questo come sfondo ad una storia che comunque, parla davvero di un’amicizia virile, in odore di rivalità.
Dopo l’enorme successo di A better tomorrow, a John Woo chiedevano solo film così, tanto che lo stesso Chow Yun-fat temeva di restare eternamente incastrato in ruoli fotocopia, inoltre Woo e il suo compare Tsui Hark ormai erano quasi separati in casa. A better tomorrow II era figlio dei loro travagliati compromessi ma ormai i due erano personalità troppo grandi per stare idealmente nella stessa stanza, Tsui Hark ragionava anche come produttore prima che come regista, Woo invece aveva in testa altro, se volete vedere scorrere davanti agli occhi la loro differenza di vedute, basta guardarsi uno dopo l’altro A better tomorrow III e “The Killer”. Di base sono più o meno la stessa storia, anche qui abbiamo un trio di protagonisti, solo che Tsui Hark è rimasto legato al personaggio di Mark Gor e la sua storia dando più spazio al triangolo amoroso con la bella Anita Mui. John Woo invece attornoal suo trio di protagonisti costruisce molto di più, per questo “The Killer” è stato prodotto da Tsui Hark ma è il frutto di un uomo solo, un’artista che come i suoi personaggi, era mosso da un’esigenza che per lui era quasi una missione, non è un caso se in più di un’intervista, il regista nato Wu Yu-sen ha dichiarato che su quel set, si è sentito più volte solo (storia vera).
Una delle fonti d’ispirazione di Woo arrivava dall’oriente, la romanticheria di fondo della scena nel porto di “An outlaw” (1964) di Teruo Ishii è stato indicata dal genietto di Hong Kong come quell’atmosfera che stava cercando per il suo film, il resto, nel puro stile del porto dei fiori, vero punto di contatto tra oriente e occidente, John Woo lo ha pescato dai suoi Maestri. Nei contenuti speciali del film il regista dichiara che prima dei titoli di testa di “The Killer” avrebbe voluto infilare la frase: dedicato a Jean-Pierre Melville e omaggio a Martin Scorsese. Non è difficile capire perché vedendolo e mi auguro per voi, rivedendolo.
Proprio con Frank Costello faccia d’angelo negli occhi e nel cuore, John Woo andò dal suo Alain Delon per convincerlo ad accettare la parte, Chow Yun-fat non ci mise poi moltissimo a dire di sì, perché aveva capito che il personaggio di Jeffrey Chow non era un altro Mark Gor, pur condividendo con lui parecchi ideali da vecchia cavalleria, eppure il resto della produzione non è filata così liscia.
“The Killer” è il lapidario e se vogliamo anche un po’ anonimo titolo con cui il film è conosciuto qui da noi in occidente, in originale “Die xue shuang xiong” (… nel dubbio ‘a soreta!) vuol dire “Due proiettili eroici”, che ammettiamolo ha tutto un altro fascino per un film che malgrado la allora già lunga e nutrita filmografia di Woo, è stato girato dal regista in modo differenze, meno pianificazione per le singole scene, più improvvisazione lasciandosi ispirare dal momento e dalle prove degli attori, alla Peckinpah insomma, consapevole che è in sala di montaggio che poi il film trova la sua forma definitiva. Problema: sul set nessuno stava dietro a Woo e a quello che tutti consideravano un fumoso piano, a partire dal direttore della fotografia Peter Pau, che minacciò più volte di mollare tutto e andarsene. Woo dovette trattare con lui, quello che ottenne furono quarantacinque giorni sul set, non uno di più, allo scoccare dei quali Pau prese le valige e se ne andò sbattendo la porta, anche se sfido chiunque di voi a dirmi, al netto del risultato finale, se l’estetica di “The Killer”, sembra il frutto di un regista e di un direttore della fotografia ai ferri corti.
Come riassumerei John Woo ad un alieno? Gli direi di quella volta, sul set di quello che è probabilmente il suo film più riuscito (perché è emotivamente intenso quanto A better tomorrow, ma decisamente più raffinato sotto tutti i punti di vista), il regista spiegava al cast e alla troupe la sua idea, facendo paragoni con Blow-Up (storia vera). Trovatelo un altro regista di film d’azione in grado di coniugare Antonioni e le sparatorie a colpi di 45 automatica e poi ne riparliamo.
Un altro elemento chiave per apprezzare a pieno “The Killer” è l’infarinatura di cattolicesimo ricevuta dal regista, religione di cui Woo ha sempre riconosciuto il fascino esercitato su di lui e che ammettiamolo, è un altro elemento in comune con Martin Scorsese. Questo spiega il senso di colpa e di responsabilità che guida i personaggi del suo film che non a caso inizia (e finisce) in una chiesa, un senso di circolarità costellato da elementi religiosi non invasivi ma ben presenti, questo dovrebbe aiutarvi a capire meglio una delle inquadrature più ricercate del film, quella dall’alto durante la sparatoria finale, con la statua della Madonna che quasi sembra stia osservando i protagonisti e le loro gesta.
Tutto questo mescolatelo ai temi cari a John Woo, uno nato sul continente ma adottato da Hong Kong, un luogo dove quel sentimento di fratellanza era ben presente, in una città contesa tra due imperi (quello inglese e quello cinese), dove aiutarsi e spalleggiarsi era l’unico modo per tirare a campare. Non è un caso che Woo cresciuto in questo contesto, si sia sempre ritrovato nelle storie di cappa e spada, con valori quasi da vecchia cavalleria e anche se nessuno sul set capiva esattamente dove la storia e il regista volessero andare a parare, lo hanno capito benissimo dopo, all’uscita di quello che è senza ombra di dubbio un Classido!
“The Killer” come detto inizia in chiesa («Tu credi in Dio?», «Mai visto in faccia»), con Jeffrey tra mille candele e un volo di colombe, pennuti simbolo di purezza che diventeranno una delle cifre stilistiche del regista. Per poi passare dal sacro al profano di un Night Club, dove Jeffrey (Chow Yun-fat) entra fichissimo e sicuro dei suoi mezzi, con la sua sciarpetta bianca sembra Alain Delon se fosse nato ad Hong Kong.
La prima sparatoria unisce già classe, stile e sostanza oltre ad introdurre la cantante Jennie (Sally Yeh), che perde la vista per un errore di Jeffrey, che da qui in poi sarà un personaggio animato fondamentalmente dai suoi sensi di colpa. Pur di ripagarle la costosa operazione alle cornee che potrebbe ridare la vista alla donna, Jeffrey resta all’interno del mondo della criminalità che ormai gli va troppo stretto, un tormento, un modo per lasciare aperte le sue ferite lavorando sul suo senso di colpa che ammettiamolo, è un sentimento molto cattolico se vogliamo, che rende Jeffrey un anti-eroe affascinante, un diavolo custode che veglia su Jennie, ma anche un corto circuito di contraddizioni (killer si, ma dal cuore d’oro) che di norma al cinema risulta insopportabile, qui invece ha lo stesso quantitativo di carisma e fascino di Chow Yun-fat.
Se l’entrata in scena di Jeffrey è magnifica, quella del non convenzionare Ispettore Li (Danny Lee) non è da meno, i suoi metodi spicci da sbirro lo portano ad inseguire criminali di corsa fin sopra un tram, che volendo potrebbe rientrare nella mia teoria sulle scene in metro nei film, tutti quelli belli se ne meritano una.
Visto che tutti i personaggi sono mossi dal senso di colpa e dai loro melodrammatici tormenti, bisogna per forza citare il collega di Li, ovvero Sydney Fung (interpretato da Chu Kong), il personaggio che con la sua mano ferita, da solo si carica sulle spalle uno dei temi che a Woo sta più a cuore, se l’amicizia virile per il regista è il più alto dei valori, il tradimento è il più deprecabile dei peccati. Tra tutti i “traditori” che popolano la filmografia di John Woo, Sydney è quello con più sfaccettature, costretto a giurare fedeltà al boss locale, farà poi di tutto per riconquistarsi con i fatti la stima del suo amico e collega, con quantitativi di tragedia, pallottole sparate e melò che sono il DNA stesso dell’Heroic bloodshed.
Eppure “The Killer” è scandito piuttosto nettamente dal percorso di avvicinamento dei due “proiettili eroici” del titolo originale, fateci caso, prima si sfidano da lontano, quando Jeffrey con occhiali da sole fighi e baffi finti, uccide da distanza siderale con fucile di precisione Tony Weng (Yip Wing-Cho) sparando dalla piattaforma galleggiante, per poi fuggire in motoscafo. Una scena già magistrale di suo per uso del montaggio, che diventa una scena di inseguimento in barca e poi, culmina in un’altra sparatoria sulla spiaggia. Basta così? Ma va!
Subito dopo i due protagonisti si inseguono in auto aggiungendo un altro po’ di sensi di colpa sulle spalle di Jeffrey, perché la bimba innocente finita sulla spiaggia per caso, va aiutata per forza, giusto per ribadire quando il personaggio di Chow Yun-fat ricopra il ruolo che storicamente in un poliziesco è quello del cattivo, ovvero l’assassino, ma si comporti con il più puro dei puri, proprio per cercare di espirare un passato da cui non può scappare. Ecco perché il primo incontro-non-incontro tra i personaggi avviene quando Jeffrey porta la bimba in ospedale, location che in linea di massima a John Woo piaciucchia, ne parleremo in uno dei prossimi capitoli della rubrica (non vedo l’ora!), qui va detto che tra le tante inquadrature bellissime della sua filmografia, il regista ne ha sfornata una delle sue più riuscite, quando “Dumbo” e “Topolino” stando all’infelice scelta del doppiaggio italiano (e la Disney… MUTA!) si puntano le pistole a distanza, nel primo dei tanti “stalli alla messicana” del film, mentre i medici stanno operando la bambina.
Più si avvicinano, più i due personaggi si capiscono, si annusano e si riconoscono come simili, qui di solito è il punto dove chi non ha voglia di approfondire, etichetta il tutto come «AHAH siete Ghei!» (scritto così) e si perde la profondità di un film che invece non è solo “Bromance” scappato di mano. Anche perché parliamoci chiaro, l’abilità di Woo di narrare per immagini ha fatto scuola, quando l’Ispettore Li sulle tracce di Jeffrey, ne imita i movimenti, sedendosi sulla stessa poltrona, dando lo stesso calcio all’indietro e puntando la pistola allo stesso modo, ci viene raccontato da John Woo con un montaggio alternato da applausi, ed è qui che sembra quasi di guardare un modo di sovrappone, quelli che per convenzione chiameremo il buono e il cattivo del film, che altrove, così bene, ha saputo raccontare solo Michael Mann con le “visioni” del suo Will Graham in Manhunter. Non basta come paragone “alto”? Fermi lì che ho altri proiettili da sparare per voi.
Forse il momento più poetico di “The Killer” arriva subito dopo, i due personaggi, facce della stessa medaglia sono profondamente soli, isolati (come Woo sul set del film), tutto questo ci viene raccontato usando un elemento calmante come sfondo, la scena di Jeffrey che guarda da solo l’oceano è una “Siamo uomini soli” immersa in un blu che più Manniano di così, è stato appunto, solo diretto da Michael Mann, infatti io dalla prima volta che ho visto questo film, non sono mai riuscito a capire se sia il più Manniano film di Woo o se il regista di Chicago abbia un fratello mancato ad Hong Kong. Le date di uscita dei film lascerebbero propendere per la seconda opzione, io sono grato di vivere nella realtà alternativa dove abbiamo avuto entrambi questi Maestri, impegnati ad elevare il poliziesco ad arte su pellicola.
«Sei uno strano poliziotto», «E tu uno strano killer», se volete potete ridere dell’ambiguità dietro all’aggettivo “strano”, oppure potete gioire per il fatto che “The Killer” ha già molto di Heat, pur essendo uscito diversi anni prima, il tutto mentre l’avvicinamento tra “Dumbo” e “Topolino”, ci regala scene come il loro stallo alla messicana, mentre fingono dialoghi da vecchi amici attorno alla non vedente Jennie. Una serie di momenti da antologia che ci portano alla scena chiave, quella dove i due (non a caso in prossimità di un fiume, quindi di nuovo l’elemento calmante dell’acqua) hanno un contatto, con lo sbirro che estrae una pallottola dal corpo dell’assassino, ormai due alleati, anche se si potrebbe dire che la sigaretta per cauterizzare la ferita, pare proprio quella che uno si accende beh, dopo aver consumato.
Mezzo globo-terraqueo è impazzito perché era la “penetrazione” (anche se al contrario, visto che la pallottola viene estratta dal corpo) che tutti volevano per eleggere questo film a manifesto d’azione “queer”. John Woo ogni volta si è detto estraneo a questa chiave di lettura, se volete sapere la mia (tanto ve la dico lo stesso) io sto dalla sua parte, perché non è questione di candore, ma come dicevo il “Broomance” del film è un elemento in un affresco ben più complesso, sghignazzare sull’amicizia virile tra Dumbo e Topolino (anche i nomignoli hanno!) è un po’ come guardare il dito e non vedere la luna che sta indicando.
“The Killer” è una storia di personaggi spezzati, qualcuno ha una mano inferma, altri non ci vedono. Ma proprio il tema del guardarsi è fondamentale, per un film che parla di due opposti che tra la folla si vedono e si riconoscono come simili. Lo fanno nelle peggiori condizioni possibili, in guerra, prima piantandosi le pistole in faccia e poi spalla a spalla, regalandosi la piccola e vana speranza di poter essere amici anche dopo, quando tutto sarà finito, consapevoli che un dopo non esiste, perché non ci sarà un domani migliore per due proiettili eroici come loro.
John Woo ci racconta di due uomini che hanno re-imparato a vedere, trovando l’unico alleato possibile dove in teoria, avrebbe dovuto esserci un nemico. Riassumere tutto questo a semplice storia d’amore, sarebbe sminuire una trama che sfoggia sofferenza, ossessioni, tradimenti e senso di colpa, spesso motore degli eventi, il tutto con un DNA che si porta dietro parti uguali di stile e di sostanza, la prova che si possono dirigere le scene romantiche come spettacolari scene d’azione e le sparatorie come momenti intimi, quasi toccanti.
Per questo la sparatoria finale è grandiosa, epica, con le sue mille candele e diecimila pallottole, con le sue colombe in volo, ma anche carica di quel senso di colpa opprimente da cui non si può scappare (la statua della Madonna, che veglia e osserva tutto dall’alto), la scena finale nuovamente in chiesa è una gioia per gli occhi, per coreografia, montaggio, gestione dello spazio e ruoli dei protagonisti, che si definiscono in movimento, un balletto di morte in pieno stile Sam Peckinpah, anche se ormai possiamo tranquillamente dire in puro stile John Woo, visto che tutti, anche nomi come Rodriguez, hanno pescato a piene mani dallo stile del Maestro di Hong Kong.
La bellezza di “The Killer” sta tutta nel riuscire a farci credere, ogni singola volta, che per questi due proiettili eroici possa esserci un finale che non sia quello scontato, puoi aver visto il film anche cento volte (e credo di esserci sinistramente vicino) ma si arriva alla fine con negli occhi la speranza per un domani migliore per tutti, eppure il finale in chiesa sta li per ricordarci il senso di colpa, molto cattolico, per cui non si scappa dai propri peccati e un po’ come farebbe il Karma. Proprio la vista è l’elemento che viene a mancare, quello che prima ha liberato i protagonisti e poi nel finale li condanna, inchiodandoli eternamente alle loro colpe. Come si faccia a riassumere tutto questo solo al “Broomance” tra i protagonisti, proprio non lo so, o meglio si può, ma vuol dire cogliere solo una sfaccettatura del tutto che è questo film, il più personale di John Woo, quasi sicuramente anche il suo film più bello e intenso, almeno insieme all’altro grande film pieno di sfaccettature in arrivo, ma di quello parleremo a breve su queste Bare, questa rubrica continua la sua corsa.
Sepolto in precedenza venerdì 2 giugno 2023
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