trenino dei dirigenti del popolare calare di streaming: «Abbiamo azzeccato un fi-film! Abbiamo azzeccato un
fi-film! Ehhhh meu amigo Tyler Rake!»
un solidissimo film d’azione, tratto da un fumetto poco famoso. Evidentemente i
tipi di Netflix hanno pensato di replicare il successo ripetendo la formula,
questa volta la storia scelta è un fumetto di quel genietto di Rick Remender e disegnato
da Greg Tocchini nel 2009.
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Dopo aver visto il film, ho solo voglia di leggermi il fumetto. |
Benedetti da qualche potenza superiore (forse il Dio dei
fumetti in persona, che io immagino abbia il volto di Jack “The King” Kirby),
Netflix azzecca in pieno anche le tempistiche, far uscire sulla sua
piattaforma, proprio in questi giorni, una storia distopica su un futuro in cui
alla polizia viene concessa carta bianca (e abbastanza tecnologia) per
stroncare con la forza la criminalità. Eppure nemmeno mettere a disposizione il
film il giorno 5 giugno 2020, nel pieno delle proteste per l’omicidio di George
Floyd, ha fatto abbastanza scalpore, anche perché “The Last Days of American Crime” è piatto senza quasi possibilità di appello.
come Rick Remender, ma lo fai adattare al cinema dallo sceneggiatore di
“Oblivion” (2013), un film che aveva proprio nella trama tutti i suoi punti
deboli, non è che fai proprio un affare cara Netflix. Ancora meno poi, se affidi
la regia a quel tamarro senza freni di Olivier Megaton, l’uomo lanciato da Luc
Besson, che ha diretto “Transporter 3” (2008) ma anche Taken 3, il film per cui Liam Neeson ha
dichiarato: «Basta! Torno a fare film drammatici!» (storia vera).
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“Stavo cercando Liam Neeson, lo avete visto per caso?” |
L’intuizione di Rick Remender è valida e parte dalle basi
del noir e dell’Hard boiled, avete presente il criminale che in una storia
annuncia l’ultimo colpo in carriera prima di ritirarsi? Un classico vero? Da “Strade
violente” (1981) in giù lo hanno usato tutti prima o poi. Qui il concetto viene
espanso e reso ancora più intrigante: entro sette giorni gli Stati Uniti di
Yankeelandia, rilasceranno nell’etere un segnale chiamato API, in grado di
interferire con la capacità del cervello umano di infrangere la legge. Un
sistema altamente sperimentato (seee! Credici) che metterà fine alla
criminalità, se per caso ci fosse qualcuno contrario alla sperimentazione
umana, potrà sempre provare ad attraversare il confine e scappare da quei
“femminielli” dei Canadesi, sempre se è in grado di evitare i valichi e le
mitragliatrici piazzate lungo il confine. Non un bel muro? Strano non abbiano
messo un muro, quello nella realtà di questo film, sarà stato costruito al
confine con il Messico.
precisione pinne gialle chiamato Edgard Ramìrez) pensa bene di sfruttare questo
grande “rompete le righe”, per raddrizzare gli ultimi torti subiti e sistemarsi
per sempre, per farlo incappa in quella che la voce narrante, descrive come una
donna che cambia tutto, quella per cui saresti pronti ad uccidere. A questo
punto ti aspetti che ad interpretare Shelby Dupree, arrivi una fatalona tipo Eva
Green, una tutta curve tipo Christina Hendricks, invece… Ciccia! Arrivano i
trenta chili bagnati di Anna Brewster, che quel tamarro di Olivier Megaton
sottolinea, usando come sottofondo alla sua entrata in scena “Give me a reason to
love you” dei Portishead, salvo saltare un secondo dopo agli Stooges con “I
wanna be your dog”, mentre i due personaggi fanno sesso in bagno, con lei
ovviamente sollevata e contro il muro come la convenziona cinematografica delle
scene di sesso insegna. Qui i trenta chili della Brewster dimostrano la loro
utilità.
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Il cappotto di plastica un tempo lo usava Joanna Cassidy (nessuna parentela giuro), una femme fatale di ben altro livello. |
La trama si complica (e diventa più noiosa) con l’entrata
in scena di Kevin Cash, figlio di un boss in cerca di riscatto, matto come un
cavallo ed interpretato da uno che di norma trasuda follia come Michael Pitt.
Nella sagra dello spreco però, Pitt arriva secondo, perché pur recitando sempre
sopra le righe, nemmeno con tutta la sua capacità di fare la parte del matto,
l’attore riesce a bucare lo schermo e a smuovere lo spettatore dal torpore in
cui “The Last Days of American Crime” lo farà sprofondare.
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“Look at my shit!” (Cit. che vale come imitazione di James Franco) |
Un film d’azione che dura la bellezza di 149 minuti, molti
dei quali, sprecati a vedere attori come Sharlto Copley, nella parte del super
poliziotto che non vorrebbe per nulla mollare per sempre il suo lavoro da
sbirro, ma che qui risulta piatto e anonimo come non mai. Cioè, Sharlto Copley
anonimo? Come cacchio si fa a rendere tappezzeria uno nato sopra le righe come
l’attore sudafricano? Chiedetelo ad Olivier Megaton perché io proprio non lo
so, sta di fatto che Copley, entra in scena e scompare come se fosse il
campione del mondo di nascondino.
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“Ora mi vedete, ma tra poco scomparirò come David Copperfield” |
La premessa di “The Last Days of American Crime” ribalta
lo spunto di La notte del giudizio, qui
è la polizia ad avere carta bianca per stroncare la criminalità, proprio ora
che nel mondo si susseguono le proteste per il brutale omicidio di George Floyd,
un film così poteva essere sul pezzo, pronto a mordere se necessario, facendosi
forte di un tempismo imprevedibile ma impeccabile, un po’ come quando siamo
tutti finiti a vedere Il buco (per
citare un altro titolo Netflix), mentre eravamo tappato in casa durante la Fase
uno.
procede piatta ed eccessivamente verbosa per un film che dovrebbe promettere
ritmo (il protagonista ha solo sette giorni a sua disposizione) e anche l’azione latita, anzi, arriva quasi tutta nel finale e di certo non per merito di quel
tonno pinne gialle del protagonista, quando più che altro del grosso camion
nero che utilizza nell’ultima scena. Sentire le sgommate coprire
finalmente due ore abbondanti di inutile ciarlare, non ripaga del tempo perso
ma almeno regala un finale che in parti giustifica l’etichetta “Action” data al
film.
e per confermarsi tamarro dai buoni gusti musicali, sui titoli di coda infila a
caso “Personal Jesus” dei Depeche Mode, giusto per confermare che guardare
questo film è un po’ come lasciare Spotify aperto sulla modalità casuale, senti
partire pezzi fighi a caso senza sapere il perché, tanto a pagare i diritti per
le canzoni ci pensa Netflix, che ci frega!
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Le facce degli spettatori, dopo i 149 minuti di questo film. |
Insomma, questo film mi ha lasciato solo con la voglia di
recuperare il fumetto di Rick Remender, uno che è riuscito a firmare una run di
storie bellissima, anche utilizzando come protagonista quel fagiolone di
Capitan America, uno che partendo da una premessa cretina (Frank Castle morto e
risorto) ha reso “Franken-Castle” una storia di mostri spassosissima, mentre il
suo Black Science è pura fantascienza
con un ritmo a rotto di collo, insomma ragazzi di Netflix, i fumetti tante
volte è meglio leggerli piuttosto che adattarli male in film anonimo come questo.