Lo sapete che non so nulla di videogiochi, quindi come per la prima stagione, ecco tornare un terzo dei Tre Caballeros, ovvero Sergio per raccontarci anche la seconda stagione di The last of us, ancora una volta vi lascio nelle capaci mani di “The voice” Sergio, l’unico che può salvarci da spore, muffe e funghi.
La seconda stagione di “The last of us” inizia dove era finita quella precedente, con Joel ed Ellie che arrivano a Jackson. Li ritroviamo 4 anni dopo, Joel impegnatissimo ad aiutare la comunità, mentre Ellie, ormai 19enne, è sempre lei: anarchica e amante del rischio. Entrambi nascondono l’immunità di Ellie agli abitanti di Jackson, con l’unica eccezione di Tommy, fratello di Joel. La vita per loro scorre relativamente tranquilla, quanto può esserlo l’esistenza in un mondo dominato da infetti cannibali e predoni pronti a sgozzarti per un pezzo di pane. La situazione costringe gli abitanti di Jackson a barricarsi nella loro città, inviando regolarmente piccole squadre nelle zone circostanti per cercare scorte e far fuori i pochi infetti che trovano per evitare che ne richiamino altri. Tra i jacksonesi (scritto così proprio), oltre a una gradevole comparsata di Gustavo Santaolalla, il compositore delle musiche di “The last of us” qui impegnato a suonare nella band che si esibisce alla festa di Capodanno, troviamo Dina, da cui Ellie è segretamente attratta, e Jesse, responsabile dei pattugliamenti ed ex fidanzato di Dina. Con un breve flash-back facciamo anche la conoscenza di Abby e dei suoi amici, una mezza dozzina di ex Luci sopravvissute al massacro avvenuto a Salt Lake City nel finale della stagione precedente. Il gruppo vuole vendicare quella strage, in particolare Abby, che nella sparatoria ha perso una persona molto cara. Ma in attesa che il piatto della vendetta si raffreddi prima di papparselo con più gusto Abby & Co. trovano rifugio a Seattle in una comunità di stampo militare: il W.L.F., o Lupi come si chiamano tra loro (“Wolf”, appunto). Dopo aver mangiato pane e cattiveria per 4 anni, Abby e la sua allegra compagnia vengono a sapere che a Jackson si trova un tizio che corrisponde alla descrizione del responsabile della strage di Salt Lake City. Il primo episodio si chiude con l’arrivo del gruppo di Abby a Jackson.
Con questa seconda stagione gli autori Craig Mazin e Neil Druckmann replicano il lavoro fatto in precedenza, cioè realizzano un adattamento complessivamente fedele al videogioco da cui la serie è tratta, ma con qualche piccola modifica qua e là, che non stravolge il testo di partenza… e in certi casi lo migliora anche. Il fatto che Joel vada in cura da un’analista di Jackson è coerente con la rilettura del personaggio che Mazin aveva iniziato nella stagione 1. Joel è sempre il duro-ma-anche-no che conosciamo da sempre, ma le sue fragilità qui emergono con più evidenza. Il fatto che ci siano anche trascorsi poco gradevoli tra lui e la sua analista fa aumentare il dramma e rende il tutto più interessante. Anche nella serie ci sono delle ruggini tra Ellie e Joel per la pietosa (ma egoistica) bugia che l’uomo ha detto alla ragazza nel finale della prima stagione e che lei ha “nasato” subito. A differenza del videogame però viene lasciano intendere che Joel, ignorato da Ellie, potrebbe compensare i suoi istinti paterni grazie a Dina, che qui ha il doppio ruolo di interesse amoroso di Ellie e potenziale “figlioccia” di Joel, cosa che rende ancora più credibile la sua scelta di seguire Ellie a Seattle quando la storia si mette in moto dopo il fattaccio, quello brutto-brutto di cui non si può parlare, lo stesso che all’uscita del videogioco ha fatto incazzare il 250% dei giocatori.
Prima di arrivare a quel punto però possiamo goderci una grossa scena di assedio, altra novità esclusiva della serie. Mentre Abby e Joel sono impegnati a rileggere le regole del golf in modo creativo e Ellie guarda la partita tifando a squarciagola, Tommy e i suoi concittadini sono impegnati a difendere Jackson da un attacco di centinaia d’infetti, rimasti in letargo sotto la neve della vallata e risvegliati all’improvviso. Sequenza che ricorda un po’ la battaglia a Kansas City della prima stagione, ma mentre allora avevamo dovuto aspettare diversi capitoli prima di vedere una scena d’azione figa, questa la ritroviamo nell’episodio 2. L’impressione generale al di là della tamarraggine o meno delle singole scene è che a questo giro il budget sia stato gestito un po’ meglio, cosa che va a vantaggio non solo di azione ed effetti speciali, ma anche e forse soprattutto della scenografia. Mentre Kansas City non rendeva giustizia alla Pittsburgh degradata del videogame (città di cui faceva le veci), la Seattle che ritroviamo nella serie è proprio quella del gioco: piena di erbacce e ridotta a un rudere come deve essere una metropoli che non è sottoposta a manutenzione da 20 anni. Tralasciando il fatto che molte ambientazioni riproducono fedelmente i luoghi presenti nel videogioco – perché in fondo chissenefrega se la serie è o non è una copia carbone dell’originale – è proprio la credibilità degli spazi a far guadagnare punti al lavoro di Mazin, al netto di alcuni fondali realizzati con una CGI un po’ troppo vistosa.
Purtroppo non posso parlare di un vero miglioramento per quanto invece riguarda la fotografia, che ha gli stessi pregi e difetti di quella della prima stagione: ben poco criticabile quando si tratta degli interni, soprattutto nelle scene meno illuminate, ma decisamente anonima negli esterni diurni, con una camera a spalla che mi dà sempre la sensazione di un lavoro fatto a tirar via. Del resto è un’impressione che mi lasciano circa il 90% dei lavori televisivi da anni a questa parte. Ci va discretamente bene che i primi episodi immersi nella neve hanno una forte luminosità diffusa imposta proprio dalle condizioni atmosferiche. Poco male, perché comunque la serie fa riflettere parecchio su come la stessa storia possa essere raccontata in mille modi diversi senza venire snaturata e mantenendo una certa forza. Per esempio, prima della partenza di Ellie e Dina, assistiamo alle votazioni del Consiglio di Jackson, che deve decidere se inviare o meno un contingente contro i Lupi. Pur non essendo presente nel gioco, la scena in sé non solo contiene una certa tensione, ma offre anche la possibilità di rendere più sfaccettato il rapporto tra Ellie e Seth, l’omofobo che la bacchetta alla festa di Capodanno.
Parlando di narrazione, salta all’occhio come i contenuti siano stati un po’ attualizzati. Nel primo episodio Joel si lamenta con la cognata per la facilità con cui i profughi vengono accolti a Jackson. Lei gli fa notare che anche lui tempo prima aveva chiesto e ottenuto asilo. Difficile non pensare al tema dei migranti, molto sentito negli Stati Uniti e non solo. Jackson finisce così per rappresentare gli Usa e Joel diventa simbolo di quegli americani i cui antenati avevano mendicato accoglienza, e che oggi vorrebbero scaricare gli stranieri. A differenza di questa breve digressione sui migranti, la parte dedicata alla guerra tra Lupi e Iene – fanatici che rivendicano alcuni territori di Seattle – era già presente nel videogame. Qui viene automatico pensare al conflitto israelo-palestinese: da una parte un esercito “occidentale” organizzato in rigide gerarchie e dall’altra una tribù più “esotica”, che usa tattiche da guerriglia ed è unita da un credo estremista. Questa sottotrama introduce un paio di nuovi generi: il film di guerra e il folk horror, con tanto di sacrifici umani e Iene che squartano i nemici ripetendo mantra come “Accogli il suo amore” e via dicendo.
Qui gli autori premono sull’acceleratore del dubbio etico: chi ha ragione e chi ha torto? I mezzi brutali usati dalle due parti giustificano i loro fini? E soprattutto le continue rappresaglie inflitte da entrambe le fazioni porteranno mai a una soluzione del conflitto? Senza scomodare il Munich di Spielberg – nome che ritorna spesso quando si tratta di Druckmann – si può dire che “Gli ultimi di noi 2” affronta argomenti tosti in modo non banale. Oltre a questo (ricchissimo) contorno, la trama principale rimane una storia di vendetta: “Voi mi avete fatto un torto, io vi troverò e vi ucciderò”. La tradizione è sempre quella lì, quella di Impiccalo più in alto con Clint Eastwood, della saga d’azione con Liam Neeson (detto Nason), fino ad arrivare a Il conte di Montecristo di Dumas, non a caso citato chiaramente nel videogioco. Ovvio che l’effetto “già visto” faccia capolino, tra frasi ad effetto, interrogatori che vanno ben oltre il terzo grado e altri luoghi canonici del genere. Chi può apprezzare questa serie senza (molte) riserve, sono gli spettatori che non hanno troppe pretese in termini d’inventiva o chi non ha masticato centinaia di film di vendetta.
Capitolo musiche: come molti altri ingredienti, anche queste sono riprese in gran parte dal gioco. C’è il fidato Santaolalla con il suo ronroco, che dà un bel contributo alla riuscita di alcune scene come quella nel museo dell’episodio 6. E ci sono le canzoni, che anche qui vengono utilizzate dai protagonisti per comunicare qualcosa ad altri personaggi, come la versione lenta di Take on me degli A-ha che Ellie dedica a Dina o Future days dei Pearl Jam, ripresa più volte, e che sarebbe già esageratamente commovente di suo, ma qui, cantata da Pedro Pascal, abbinata alla storia di questo duro dal cuore tenero, diventa una bomba emotiva non indifferente. Appunti sulla colonna sonora? Nessuno in definitiva. Spiace un po’ che siano stati sacrificati un paio di brani che Mac Quayle aveva composto per il videogame e che avrebbero dato ancora più grinta, rabbia e senso di pericolo alle scene d’azione, ma possiamo accontentarci, già così molti fan di vecchia data potrebbero lamentarsi che la serie, in diversi tratti, ricorda fin troppo il gioco. Ripescando da quello altri elementi avrebbe esposto ancora di più la serie a queste critiche.
Critiche che comunque non mancano, perché questo prodotto, per quanto buono, non è perfetto. Abbiamo già detto dell’effetto deja vù generale, aggiungo anche un ritmo a tratti sballato, veloce quando dovrebbe soffermarsi di più e lento quando potrebbe accelerare. C’è poi un grosso punto interrogativo sulla digressione presente nell’episodio 7. Ellie si sta dirigendo verso il suo obiettivo finale e fin qui tutto ok. Mi va anche bene che a un certo punto la sua barca abbia un incidente. Ma l’incontro seguente a cosa serve? Non ad aggiungere tensione all’episodio, perché la sequenza è talmente breve che lo spettatore non ha manco il tempo di spaventarsi. In quei due minuti succede il mondo, tutto si riduce a un niente di fatto e poi Ellie riprende il suo percorso in barchetta. Vedremo se ci sarà un collegamento nella stagione 3, ma a meno di sorprese clamorose la scena così com’è non porta avanti la storia e non ha utilità. Il finale aperto mantiene tutto in sospeso fino alla prossima stagione, parecchio rischiosa, soprattutto se gli autori vorranno seguire, come è probabile, il sentiero tracciato da Druckmann. La cosa farà incazzare un’ampia fetta del pubblico come era capitato 5 anni fa? La serie continuerà ad avere buoni ascolti o gli spettatori si saranno già rotti i coglioni come capita con la quasi totalità delle serie da anni, in questi tempi di facile tritamento di testicoli da parte di un’audience che in quanto a fedeltà verso uno show è stabile come lo era Matthew McConaughey ne “La rivolta delle ex”? Ma soprattutto, quando sarà uscita la terza stagione saremo già tutti morti tra lentissime e indicibili sofferenze? Per avere una risposta a queste domande dovremo attendere l’evolversi degli eventi.
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