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The Mask – Da zero a mito (1994): la maschera che portiamo (meeetaforicamente parlando)

Quando il mio Bro Marco ha lanciato l’iniziativa tra blogger per questo “ballo in maschera” di Carnevale con film che avessero come protagonisti personaggi che indossano una maschera, mi sono sforzato tantissimo, ci ho pensato su per circa un secondo (pieno eh!) e ho scelto “The Mask” che è la scelta più banale del mondo, ma siccome erano anni che volevo rivederlo ho imparato che certe occasioni vanno colte al volo! Un tempo, bambine e bambini Internet non esisteva…

[Urla disperate in sottofondo, rumore di vetri rotti, allarmi che suonano, qualcuno urla «Moriremo tutte!»]

Calma! Calmaaaaaa! Sì, è vero non esisteva Internet, ma se volevi vedere un film appena uscito al cinema, nell’universale modo conosciuto come “Aumma aumma” (immaginatemi pure mentre faccio il gesto con la mano) esistevano dei professionisti del settore che ti fornivano dei VHS, chiamiamoli pirata, ma solo perché a me sono sempre piaciuti i pirati, eh? Non per altro. Spero che i lettori più giovani digeriscano la questione della VHS, ancora sconvolti a pensare ad un mondo senza Wi-Fi.

Molto strano che a casa Cassidy avessimo cassette pirata, siamo sempre stati ghiotti consumatori, tra film, noleggiati e registrati dalla tv, ma non siamo mai andati a caccia di primissime tv, quindi non so come fosse finita tra le mie mani quella VHS, non lo dico per la finanza, eh? Proprio non lo ricordo, sta di fatto che come Stanley Ipkiss mi sono ritrovato questa reliquia e allo stesso modo ne ho abusato, a fin di bene – spero – ma senza controllo. In ogni caso appena ho potuto ho comprato una copia del film uscita con qualche giornale, quella dovrei ancora averla (storia vera).

«Se vedete la finanza, acqua in bocca. Ed ora, a commentare il film viiiiiiiia»

Malgrado la copia pirat… Ehm, quella cosa lì, non si vedesse proprio benissimo, non mi sono mai fatto problemi a vedere e rivedere “The Mask” un numero criminale di volte, cioè più criminale di avere una cassetta pirata intendo. Malgrado i venti a passa anni trascorsi senza vederlo, quando me lo sono rivisto l’altra sera, ricordavo tutte le battute a memoria e questo film è donatore sano di frasi memorabili che negli anni sono diventate per me “Citazioni involontarie”, parte della mia parlata quotidiana. Sì, sono sempre stato strambo fin da bambino, allora!?!

Solo più tardi, nel corso degli anni ’90 ho scoperto il fumetto omonimo, da cui questo film prendeva ispirazione, in America usciva per la Dark Horse Comics, la stessa di uno dei miei preferiti Hellboy, mentre qui da noi, credo arrivò in una seconda ristampa pubblicata dall’allora Marvel Italia, penso verso il 1995, con i disegni di Doug Mahnke e i testi di quello che è ancora uno dei miei autori preferiti, il grande John Arcudi.

Di riffa o di raffa, sto sempre a parlare di fumetti alla fine.

Parliamo di un’epoca in cui, oltre a non esistere Internet, i film tratti da fumetto non erano la normale routine odierna e “The Mask” per arrivare al cinema ha subito qualche modifica sostanziale, a partire dal nome del personaggio che nel fumetto viene chiamato da tutti “Big Head” e, soprattutto, era molto, ma molto più violento. Sì, perché Ipkiss usava i suoi nuovi poteri per raddrizzare i torti subiti a colpi di omicidi, tutti molto esagerati e ispirati ai cartoni animati dei Looney Tunes, ma con un tasso di emoglobina che nel film è totalmente assente. Malgrado questo, “The Mask” resta uno degli adattamenti più fedeli di un fumetto, forse ancora oggi, anche se si trattava di una distorta versione del classico di Robert Louis Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” (1886) con un protagonista che si ritrovava ad essere una specie di Joker esagitato, perdendo ogni inibizione come solo una maschera può fare, una in cui era intrappolato il dio Loki anche di più.

Per la nuda cronaca, ai tempi Tom Hiddleston era quasi un mio coetaneo, quindi nessuna signora diceva il suo nome ululando come Jim Carrey in questo film quando si citava il dio norreno della menzogna e delle burle. No, lo dico per inquadrare il momento storico.

«Mi sta dicendo dottore, che con questa diventerò Tom Hiddleston? Ho capito bene?»

Al soggetto del film, oltre a John Arcudi collabora un altro autore che arrivava dai fumetti e che in quel momento stava per invadere il cinema, anche se poi la sceneggiatura è stata affidata a Mike Werb che ha dovuto ordinare tutte le idee raccolte mettendole in ordine logico, molti dei momenti più memorabili del film, sono farina del sacco di Mark Verheiden come, ad esempio, la spassosa scena di danza sulle note di “Cuban Pete”, in cui Verheiden aveva già pensato anche al look da ballerino di flamenco del protagonista, vedere per credere.

They call me Cuban Pete, I’m the king of the Rumba beat (Chick chicky boom-chick chicky boom)

La trama è celebre e semplicissima, Stanley Ipkiss è un modesto impiegato di banca, con una passione sfrenata per i cartoni animati e un romanticismo che fa a cazzotti con il suo essere imbranato, impacciato con le donne e, in generale, una specie di zerbino umanoide che tutti usano per pulirsi i piedi. Quando entra in possesso della maschera, la sua vita cambia perché indossandola diventa verde come Hulk (ma con più denti e meno muscoli) e invece di spiaccicare tutti al grido di «Mask spacca!» si diverte a umiliarli usando dei poteri che gli concedono di fare tutto, anche infrangere la barriera della quarta dimensione, quella che divide i personaggi del film dal pubblico, esattamente come faceva un altro personaggio verde dei fumetti come She-Hulk, il primo personaggio della Marvel ad essere consapevole di appartenere all’immaginario, ben prima di Deadpool, oppure, considerata la passione di Stanley, come un personaggio dei Looney Tunes.

A ben guardarlo, il nostro mascherone è una proiezione delle passioni di Stanley, uno che ha un cuscino di Tazmania sul divano di casa e quando si trasforma rotea su se stesso come un tornado proprio come faceva lo sputazzante personaggio, non è l’unico atteggiamento che prende in prestito dai personaggi creati da Tex Avery, nei momenti in cui fa il gradasso provocatore sembra di guardare uno strambo Bugs Bunny con la faccia verde e il romanticismo fuori controllo, con tanto di accento francese, sembra quello di Pepe Le Pew quando corteggia la gatta Penelope.

Il francese è la lingua dell’amore, sarà per quello che lo chiamano “bacio alla francese”?

Per uno come me che è sempre andato matto per i Looney Tunes e i fumetti, “The Mask” è sempre stato uno spasso, questa specie di Bruiser in chiave comica ha ancora un ritmo micidiale, nei suoi 97 minuti non ne ha uno di stanca e funziona alla perfezione nel suo essere una fantasia adolescenziale con tanto di bellezza da conquistare, se necessario dando fuoco alle suole delle scarpe ballando sulle note di “Hey! Pachuco!”. In questo senso, il sottotitolo italiano riassume bene, anche se mi sembra un classico caso di “frase di lancio” presente sulla locandina americana scappata di mano e diventata parte del titolo in uno strambo Paese a forma di scarpa.

“The Mask” riesce ad assottigliare il confine tra i cartoni animati e i film con attori in carne ed ossa, non dico proprio come faceva quel capolavoro senza sterzo di Chi ha incastrato Roger Rabbit, anche perché Chuck Russell in vita sua ha diretto un capitolo di “Nightmare” molto amato (il terzo, del 1987 “I guerrieri del sogno”), ma con tutto il rispetto, non è certo Robert Zemeckis.

Mi serve per spiegare il prossimo paragrafo, non è una scusa per mettere una foto sexy di  Cameron Diaz (seeeee credici!)

Eppure, gli intenti sono gli stessi: usare il linguaggio e le trovate splastick dei cartoni animati anche con gli attori, tanto che in una scena sembra di guardare due film gemelli, Zemeckis in un locale retrò del tutto simile al “Coco Bongo Club”, lasciava che una bella cartona animata (si dice? Vabbè, ci siamo capiti) seducesse gli umani seduti ai tavoli, ben rappresentanti dalla mandibola di Bob Hoskins, qui la situazione è la stessa, ma a ruoli invertiti, la ragazza è in carne ed ossa, mentre al tavolo c’è un cartone animato allupato, nel vero senso della parola!

Manca solo Betty Boop che sospira «Eh sì… che ragazza fortunata!»

La ragazza in questione sono sicuro che la ricordiate tutti, perché Cameron Diaz più bella di qui non lo è stata mai più, roba davvero da affermare «Inchioda le gomme, schianto ad ore quattro!». Non ha fatto in tempo a fare un passo fuori dall’agenzia di modelle dove lavorava che le proposte per lavorare nel cinema le sono rimaste attaccate addosso come le palline sull’albero di Natale. Cameron Diaz al suo primo film qui ha battuto anche la concorrenza dell’allora più affermata Anne Nicole Smith (storia vera), ma per la parte di Tina non avrebbero davvero potuto trovare di meglio, perché la Diaz con il sorrisone su cui ha costruito una carriera, è perfetta per la parte di una che dev’essere la bellona del film, ma anche la fidanzata dei sogni di Stanley. Pare che Cameron Diaz abbia sostenuto sette provini per la parte, ma secondo me solo perché il direttore del casting finiva ad ululare come Jim Carrey.

Salve, sono una piccola didascalia che non leggerà mai nessuno, uffa.

Già, il buon vecchio Jim, Chuck Russell di lui ha detto che da solo Carrey è riuscito a far risparmiare un botto alla produzione, perché non era necessario utilizzare la grafica computerizzata per accentuare le movenze da cartone animato dal personaggio, Jim Carrey faceva tutto da solo (storia vera), gli bastava sostenere le quattro ore quotidiane di trucco et voilà, diventava davvero la Maschera, tanto che i dentoni del personaggio erano previsti solo in alcune scene, ma Carrey imparò a pronunciare le battute in maniera così buffa anche con i dentoni finti che finì per usarli per tutta la pellicola (storia vera).

Così è come appare PRIMA del trucco, no solo perché colore a parte, è difficile distinguere.

Il 1994 di Jim Carrey è stato l’apice della sua popolarità, questo film è arrivato poco dopo un altro di cui avevo la VHS (originale, giuro!) e che ho consumato come “Ace Ventura – L’acchiappanimali” e poco prima di un classico come “Scemo & più scemo”, tre tipi di umorismo diversi, ma in “The Mask” ha davvero dato fondo alla borsa dei trucchi, se il film funziona ancora oggi, è quasi esclusivamente grazie a lui.

“Sfumeggiante” non “Spumeggiante” (tutta la mia vita è basata su una bugiaaaaaaa!)

Sì, perché con un protagonista così “Sfumeggiante!” (e non “Spumeggiante!”, come per anni abbiamo creduto in tanti, uno dei più grandi traumi della mia vita) la produzione ha potuto centellinare la grafica computerizzata, limitandosi ad alcune scene, la sveglia spiaccicata, oppure quella «Guarda mamma! Sono dimagrito!», il che sulla lunga distanza è stata una benedizione, perché la CGI invecchia – come si può notare nella scena dell’ululato, oppure quando la Maschera sputa il teschio dalla bocca dallo spavento – ma del buon make-up e un’ottima prova d’attore resta nel tempo, quindi questo film ancora gustosamente analogico nei trucchi, si basa tutto sull’unico effetto speciale che serve: il talento di Jim Carrey che trasforma il film nel suo spettacolo personale.

Tipo l’imitazione di Clint Eastwood in Dirty Harry (un classico del repertorio di Carrey), oppure la mia preferita, la scena della “morte” con tanto di premio Oscar, ancora oggi quando mi capita l’occasione mi lancio nella mia versione del suo «Questo è amore! Questo è vero amore!» (storia vera).

«Do you feel like, punk?» (Cit.)

Al netto di un budget di diciotto milioni di ex presidenti defunti, anche loro con la faccia verde, perché stampati su fogli dello stesso colore, “The Mask” è stato un successo enorme, trecento e passa milioni portati a casa nel mondo, una serie animata durata tre stagioni, un videogioco e anche un seguito, uscito tardissimo solo nel 2005, che non ricordo se ho visto oppure no, ma che è stato realizzato così tardi perché si è aspettato fino all’ultimo, pur di avere ancora Jim Carrey nella parte (storia vera).

Ho sfruttato ogni occasione offerta dalla vita, per imitare questa scena (storia vera)

Ma il lascito del film è enorme, si misura in termini di “citazioni involontarie”, penso ci siamo almeno un paio di generazioni di spettatori che questo film lo conoscono a memoria, parola per parola, ma per me la vera influenza sulla cultura popolare è stata un’altra. Quanti Jack Russell di nome Milo avete incontrato nella vostra vita? Penso che buona parte della popolarità degli esagitati Jack Russell Terrier sia dovuta a questo film, anche perché al pari di Jim Carrey, il piccolo Milo si mangia tutte le scene in cui compare, con la stessa capacità di improvvisazione del comico canadese, la gag ricorrente di Milo che non molla gli oggetti che afferra, era tutta farina del sacco del cagnetto (storia vera).

Alla fine il vero protagonista era questo piccoletto qui.

Insomma, di tutti i film tratti da fumetto che ormai popolano il cinema, “The Mask” non è nemmeno tra i primi dieci a cui verrebbe da pensare così su due piedi, eppure è ancora una commedia molto riuscita, un grande omaggio ai personaggi creati da Tex Avery e la più “Sfumeggiante!” incarnazione dell’Io represso mai vista al cinema, d’altra parte cosa ci ha insegnato il film? A non indossare strane maschere Norrene? Sì, anche, ma soprattutto che tutti noi indossiamo una maschera, meeeeeetaforicamente parlando (cit.)

Vi ricordo il resto della rassegna a Blog congiunti, qui sotto trovate l’elenco completo.

La stanza di Gordie
Pietro saba world
Delicatamente perfido
Director’s cult
Non c’è paragone
Solaris

A carnevale ogni blogger vale!

Sepolto in precedenza martedì 5 marzo 2019

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