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The Mist (2007): la nebbia agli irti artigli, piovigginando sangue

Legatevi una cordicella intorno alla vita (se non volete perderla), passo felpato e niente rumore, il vostro Quinto Moro vi accompagna nella nebbia.

A volte mi prende una specie di mania omicida di completismo per cui ho fatto una regola di non scrivere di certi film senza aver pure letto i libri (veramente è più un indirizzo che una regola). The Mist è il racconto d’apertura della raccolta “Scheletri” di Stephen King, molto furbescamente ripubblicato anche singolarmente, ma se volete farvi un favore prendete il pacchetto completo.

Il film è uscito nel 2007, con quell’approvazione e osanna mistico che si dava ad ogni prodotto appena al di sopra della sufficienza in quegli anni un po’ così per un cinema horror in cerca d’autore. Bene accolto in patria e pure in questo strambo paese a forma di scarpa, “The Mist” è riuscito guadagnarsi la rara fama delle robe buone tratte “da un racconto/romanzo di Stephen King”. Papà dell’operazione il buon Frank Darabont, che per il Re nutre un affetto speciale, e la cui stima King ricambia (raro privilegio). Sarà che questo horror socio-politico di romeriana memoria è rispettosissimo del materiale originale con una sola, grande e necessaria licenza: il finale, con un cazzotto dritto allo stomaco che basta e avanza a non fartelo più dimenticare.

La solita banda di americani medi pronti a farsi rovinare la vita dagli incubi di zio Stephen

Il dilemma per l’esordio di Frank Darabont dietro la macchina da presa era tra l’adattamento di “The Mist” e “The Shawshank Redemption/Le ali della libertà”. Direi che gli è andata di lusso ma la fissa non era mai passata, anche se per arrivarci Frank ha dovuto fare il giro lungo, prima di buttarsi sulla tv con “The Walking Dead”. Tra l’altro è proprio da questo film che viene metà del cast dei Camminamorti: l’onnipresente Jeffrey De Munn (attore feticcio di Darabont), passando per Laurie Holden sino a Melissa McBride (qui poco più che un cameo, ma dal peso specifico enorme).

Guarda i fiori la nebbia. Guarda la nebbia.

L’amore di Frank Darabont per l’horror non è mai stato un segreto, da sceneggiatore è passato per la saga di Nightmare, il remake di Blob e “La mosca 2”. Mostri, cose viscide e orrori vari, a Frank piacciono, e lui s’era scocciato d’essere percepito come un regista che fa robe più rigorose, misurate, tipo “Il Miglio Verde” o “Le ali della libertà”. Che ci sta, Frank ha tutto il mio rispetto per essersi messo a giocare con mostri e frattaglie, ma una capatina agli alcolisti anonimi non guastava, Stephen King gli avrebbe fatto da sponsor.

Alla prima inquadratura Darabont mostra di avere il cuore da lato giusto: il protagonista David Drayton – quel ciocco di legno di Thomas Jane – dipinge locandine per il cinema, sulla parete del suo studio brilla il poster de La cosa e sul treppiede una locandina perfetta per la “La torre nera”. Fun fact: l’autore è lo stesso, quel Drew Struzan che ha sfornato decine di locandine iconiche dagli anni ’70 in poi, ma che s’è visto bocciare quella realizzata per questo film.
A sinistra: le citazioni, quelle belle. A destra: la locandina bocciata.
Velleità artistiche a parte, il protagonista è il tipico americano della classe media con moglie, figlio e un vicino avvocato (inequivocabilmente ottuso). In una notte buia e tempestosa, la casetta sul lago della famigliola felice viene strapazzata e il mattino seguente invece dell’oro in bocca porta con sé una nebbia impenetrabile che inizia a spandersi sul lago. Mentre David col figlio e il vicino di casa vanno in città a fare provviste parte una sirena di silenthilliana memoria che fa venire la strizza a tutti: qualcuno corre, un tizio sporco di sangue si fionda nel supermercato mentre urla delle fottute cose escono dalla fottuta nebbia, che un attimo dopo ha già inghiottito la città.
«La miseria che branco di fessi. Dico sul serio ragazzi, siete fortunati ad essere vivi con una nebbia del genere!» (cit.)
Il soggetto di King funziona meglio se immaginato in un’epoca o un luogo specifico, tipo l’entroterra americano degli anni cinquanta. Ottanta persone chiuse in un supermercato per paura della nebbia non è esattamente facile da accettare al volo, senza dover scomodare la società iperconnessa da cellulari e internet. Già in Val Padana, una storia così, sarebbe un corto di 5 minuti dove tutti che escono dopo aver finito la spesa. Magari con dei mostri diversi nascosti nella nebbia, che so, bassotti tarchiati dall’accento sardo o immingrati che non vogliono tornare a casa loro. Me li vedo i fieri padani armati di portal-gun per sparar via gli intrusi in quelle dimensioni parallele a sud del Po.
Restando in territorio a stelle e strisce invece, un branco di americani spaventati con una sola pistola a disposizione, UNA, quella sì che è fantascienza. Ambientato in Texas veniva fuori un western, o un film di guerra. Comunque la scarsa fiducia nell’umanità messa di fronte alla crisi oggi funziona pure meglio che nel 2007, se col trumpismo le dinamiche da carro bestiame trainato da agitatori di folle che baciano il crocifisso non è più così surreale. Isolamento e assedio portano sempre storie interessanti, citofonare casa Romero con annessa saga zombesca o al Distretto 13 di carpenteriana memoria. Se poi avete visto “L’angelo Sterminatore”, un branco di persone assediate da Dio solo sa cosa non vi lascerà troppa sospensione dell’incredulità.
L’unico con la pistola nonché vero eroe cazzuto del film, il vendicatore dei commessi e di tutti gli uomini occhialuti, bassi e tarchiatelli: due hurrà per Toby Jones!
Il film segue passo per passo il racconto di King, quasi ogni dialogo e situazione. I sopravvissuti all’ondata di nebbia sono il solito campione della società che di fronte alla crisi va rapidamente in pezzi. C’è chi non ascolta o non vuole capire e la religione da conforto si trasforma in schegge di follia. Il racconto di King ti torce lentamente le budella con sadismo lovecraftiano e gusto da fantascienza rétro, il film galoppa più deciso e senza tempi morti, con qualche scena frettolosa ma prendendosi il tempo che serve al gran finale.
Il risultato è un mezzo miracolo per quanto il film è stato girato di fretta: sei settimane di riprese e sei mesi scarsi di post-produzione, forse troppo pochi per degli effetti visivi che dire rivedibili è poco. Ci sono cadaveri smembrati e schizzi di sangue, peccato che le creature della nebbia siano realizzate con una CGI discontinua e a tratti inguardabile.
Due ore di Spielberg-face senza effetti speciali no eh? Sembrava brutto?
La regola non scritta dell’horror, del non visto che fa più spavento di qualsiasi effettaccio non viene rispettata a dovere. Sbattere i mostri in faccia ai malcapitati – e allo spettatore – funziona a piccole dosi, ma l’invasione di tentacoli e sgorbi volanti dal design discutibile finisce per rovinare l’atmosfera. E dispiace dirlo se al look dei mostri ha lavorato pure quel veterano di Greg Nicotero, maestro di effetti artigianali usati ben poco.
La creatura finale è forse l’unica che meritava d’essere davvero mostrata. Ma le cose più spaventose sono gli umani in carne e ossa, con la fanatica religiosa che da elemento di disturbo si evolve in un villain. Non mi viene in mente nessuna faccia migliore – o peggiore? – di Marcia Gay Harden per il ruolo della Signora Carmody, il cui sguardo spiritato e lingua forcuta sono l’incarnazione del peggior fanatismo religioso e complottista. La colpa è dei militari, l’umanità superba ha fatto incazzare Dio, chi ragiona è un privilegiato del cazzo e solo le menti semplici saranno salvate, perciò domani a colazione sacrifici umani. Se vi sale il WTF è normale, ma è quello che fa funzionare il film.
La sirena. La nebbia. I fanatici religiosi. Bentornata a Silent Hill, Laurie!
Al netto di tutti i difetti, i venti minuti finali sono una bomba. Darabont prende il finale di King e aggiunge quel che serviva a renderlo cattivissimo, la nebbia assume un fascino apocalittico e la colonna sonora rende il tutto poetico e straziante. Se non l’avete ancora visto, correte a recuperarlo (sta su Prime Video).
 

Qualcosa nella nebbia ha preso John Lee Cassidy! (il parere estemporaneo non richiesto e rafforzativo)

Frank Darabont questo film avrebbe voluto dirigerlo in bianco e nero (storia vera). Ai produttori che hanno rifiutato la locandina analogica e vecchia scuola di Drew Struzan, a sentir parlare di bianco e nero è venuto un colpo apoplettico, perché niente mette in fuga gli spettatori più dell’assenza del colore. Eppure sarebbe stata la soluzione ideale, anche per mascherare le magagne di una CGI con le rughe, avrebbe messo in chiaro il riferimento di Frankuzzo, la fantascienza degli anni ’50. Ma capisco anche perché tanto pubblico non ama “The Mist”, per due ragioni essenziali, la prima è la coltellata alle spalle, Tu quoque Frank, fili mi! Ti sei fatto una fama con tutti quei film Kinghiani dall’aria ottimista e poi ci scarichi addosso una storia che è più pessimista della novella originale? Che per altro manda a segno un finale migliore di quello etereo e perso nella nebbia di zio Stevie? Da sempre, il suo tallone d’Achille. Per non passare per la signora Carmody di turno, partiamo dai difetti.

Frank Darabont ha fatto un film di mostri, in grado di dare valore e spazio alle creature disegnate da Sua Maestà Bernie Wrightson e realizzate da Greg Nicotero, ma poi ha avuto poco tempo per girarlo e poca esperienza con la CGI. Si vede, con un po’ più di tempo avrebbe potuto curare meglio alcune soluzioni di montaggio e l’interazione con gli effetti speciali. Ma ai miei occhi, da sempre abituati alla nebbia, nei film e nella realtà essendo cresciuto in luoghi nebbiosi, tutto questo è un “difetto” come poteva esserlo l’uomo carota che non piaceva nemmeno ad Howard Hawks, ma non intaccava minimamente il messaggio di “La cosa da un altro mondo” (1951), giusto per fare un esempio celeberrimo. Altro difetto? Tom Jane.

Cena a portar via.

Attore limitato ma non scarso, che qui incarna l’eroe Kinghiano per eccellenza: democratico, padre di famiglia, artista, pragmatico, si chiama David Drayton ma potrebbe essere lo sceriffo Alan Pangborn, comparso in tanti romanzi del Re e relativi adattamenti cinematografici, una volta anche con il faccione di Michael Rooker, non a caso uno dei pochi ad interpretare un personaggio interessante nella prima fase dei “Camminamorti”, quella ancora gestita da Darabont. Problema: per quel finale lì, tu avresti bisogno di Denzel, ma Tom Jane non lo è, quindi si arrangia e si vive la scena con la disperazione di chi ha appena fatto qualcosa di orribile. Prendetevi un secondo per ragionare sul suo gesto, poi ditemi se voi al suo posto, vi curereste di apparire plastici e fighi in un momento del genere. Fine dei difetti, perché in realtà “The Mist” è un film con due palle sotto monumentali.

Si prende sul serio nel raccontare una storia di mostri e vince la sua scommessa, perché i mostri di cui parla non sono quelli nella nebbia, ma quelli dentro il supermercato. Darabont parte da King, da un cinque alto a Lovecraft e a Romero e ci porta giù fino ad un cinismo Carpenteriano che ti costringe a fare l’unica cosa che molti horror non sono in grado di fare, farti pensare per tutto il tempo: e se fossi io in quel supermercato, cosa farei? La risposta data d’istinto è che sarei come David, ma il sospetto di essere la signora Carmody è dietro l’angolo. Perché “The Mist” è un film senza speranza, lo è dal minuto sedici del film, quando Darabont dedica l’unica inquadratura quasi eroica alla vera protagonista del film, il personaggio di Melissa McBride che affronta la nebbia con la paura e il dovere di una madre nel cuore, lasciandosi dietro un branco di cadaveri, che hanno scelto il loro destino (alcuni con più motivazioni di altri), quando hanno lasciato andare una signora da sola là fuori. “Uomo morto che camminano” ripetevano ossessivamente in un altro film di Darabont (tratto da King), me lo ripeto ogni volta che guardo “The Mist”, che a ben guardare riesce ad essere totalmente cinico ma anche ottimista, forse più degli altri film Kinghiani di Frankuzzo.

#Andrà tutto ben… Oh cazzo!

Perché ottimista? Perché è un inno a non arrendersi mai, nemmeno quando sembra finita, quando hai quattro pallottole e siete rimasti in cinque. David passa automaticamente dalla parte dei cattivi perché si arrende e smette di combattere. Subito dopo Darabont allarga l’inquadratura di un film dal taglio stretto e realistico (girato chiamando gli operatori di “The Shield”, per ottenere l’effetto desiderato), diradando la nebbia e mettendo fine al suo film che parla di mostri, anche quelli che tu, bravo padre, hai scoperto di avere dentro di te e con cui dovrai fare i conti per sempre.

Asciugando una storia già medio/breve come la novella originale, Darabont crea un mondo che contiene tanti film al suo interno, io ne vorrei uno (anche un corto) con “The Mist” raccontato dal punto di vista del personaggio di Melissa McBride, uno dal punto di vista dei proseliti della signora Carmody, dopo la loro sbornia di sangue e vecchio testamento, oppure perché no, uno sulla vita di David dopo essere stato “salvato”. Ma forse non servono perché basta evocarli, sono già tutti qui dentro, nella nebbia. Ma poi francamente, non ci meritiamo altre storie così, perché questa in tanti non l’hanno capita, non chi ha lanciato la serie televisiva omonima, che non ha capito che mostri e dramma (in parti uguali) si danno forza gli uni con gli altri e senza, sono solo chiacchiere dentro un supermercato. Ma non l’hanno capita nemmeno quelli che poi, hanno assaltato i supermercati, quelli che ridevano delle reazioni esagerate di Tom Jane. Lui almeno non si è reso ridicolo con il lievito per pizza e le penne lisce.

Non ci meritiamo un film così perché #andrà tutto bene, beh andrà tutto bene un cazzo oserei direi. Perché guardo gli horror mi chiedono ogni tanto? Per film così: metti l’umanità in spazi ristretti ed eccolo il tuo film di mostri, anzi mi prendo tutte le responsabilità fino in fondo, eccolo il vostro Classido.

Dopo questo doppio parere, dovreste avere le idee meno nebbioso sul film o forse no, chissà. Nel dubbio ringrazio Quinto Moro e vi ricordo i suoi racconti, li trovate QUI.

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