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The People vs. Paul Crump (1962): chiamo a testimoniare William Friedkin

Lo sapete che non posso stare a lungo senza una rubrica
monografica dedicate ad un regista, anche perché i prediletti di questa bara
sono quegli autori (magari anche controversi) in grado di scuotere le coscienze e
i gusti del pubblico.

Ci ho pensato un po’ su e dopo l’omaggio a Stuart Gordon ho
deciso di restare dalle parti di Chicago, quasi un ritorno alle origini perché
finalmente dopo il Maestro John Carpenter, ho la possibilità di scrivere di un
altro regista impallinato di pallacanestro (olè!), spero di far cosa gradita a
Bariste e Bariste dando il via oggi al primo capitolo di una rubrica dedicata a
William Friedkin che ho deciso di intitolare… Hurricane Billy!

Pochi registi hanno saputo nella stessa carriera mandare a
segno classici della storia del cinema, titoli talmente monumentali da
diventare metro di paragone ancora oggi, eppure allo stesso tempo sbagliare
così tanto, non è un caso che nella sua autobiografia (“Il buio e la luce – la
mia vita e i miei film” edita qui da noi da Bompiani), il nostro Hurricane
Billy abbia deciso di cominciare con l’elenco di una serie di occasioni
mancate, come il rifiuto di dirigere un video per Prince tratto dal suo “Purple
Rain”, oppure aver rifiutato una quota di maggioranza nella dirigenza dei
Boston Celtics, la squadra per cui Billy Fridkin ha sempre tifato, fin da
ragazzino quando rimase folgorato dai fantascientifici passaggi (dietro alla
schiena) di Bob Cousy.

Freidkin, nato e cresciuto a Chicago, è figlio di immigrati ucraini di origini ebraiche, suo padre, un giocatore (quasi) professionista di
softball gli passò l’amore per lo sport e il cognome, prima che il figliolo
rimase solo con mammà, venerata e costantemente tenuta in palmo di mano dal
nostro Billy che non ha mai esitato a definirla una santa, anche perché papà morì molto presto abbandonato su una barella in una corsia d’ospedale, alimentando un senso di colpa con cui il futuro regista, avrebbe fatto i conti in futuro, in qualcuno dei suoi film (almeno uno molto famoso in particolare). William Friedkin
cresce tra le strade di Chicago con il sogno di entrare nelle giovanili di
pallacanestro, probabilmente l’essere stato scartato dalla squadra è stata solo la prima di parecchie delusioni disseminate lungo la sua vita e la sua
carriera, ma malgrado tutto Billy non ha mollato davvero mai, oggi useremmo una
parola tanto in voga come “resilienza” per descriverlo, ma mi sembra più sensato
parlare di fame, un vero desiderio che aveva solo bisogno di essere incanalato
da qualche parte e poi si sa, tutti quelli che non sono stati salvati dalla
pallacanestro, di solito li ha salvati il cinema.

Here comes the story of the Hurricane (Billy) / The man the authorities came to blame (quasi-cit.)

Ancora bambino un giorno, mamma Friedkin decise di portare
il piccolo Billy al Pantheon Theater lungo la Sheridan Road di Chicago, il film
in programma era “None but a lonely hear” (1944) con Cary Grant, le luci si
spengono, la sala è piena, parte la musica, lo schermo esplode in una luce
abbagliante e William Friedkin fa l’unica cosa sensata: si arrampica lungo il
braccio della madre terrorizzato, per poi trascinarla fuori nel panico, solo
nelle quattro miglia (a piedi) verso casa Billy ha ritrovato la calma. Qualcuno
potrebbe dire che quella sensazione di terrore e angoscia, anni dopo Friedkin
la fece provare ai suoi spettatori con tanti dei suoi film, ma l’esordio tra il
nostro Billy e la forma d’arte che lo avrebbe reso celebre è stato piuttosto in
salita.

Qualche anno dopo, in cerca di un lavoretto per portare a casa
due spicci (tenendosi lontano dai guai) Friedkin risponde ad un annuncio,
“Opportunità di carriera in televisione”, anche se bisognerebbe iniziare come
fattorino nell’ufficio corrispondenza, con l’entusiasmo che gli sarebbe valso
negli anni il soprannome di “Hurricane Billy”, il nostro si getta nell’impresa,
raggiunge il Wrigley Field, campo dei Chicaco Cubs, ma sbaglia civico, invece
che al 441 bussa al 448, cercava la WBBM-TV, ma la concorrenza della WGN
apprezza lo sforzo e lo assume lo stesso. Ed io che mi preoccupavo di essere
arrivato in ritardo di dieci minuti al mio primo colloquio di lavoro!

Nemmeno le basse temperature fermano un temerario della regia come Friedkin.

Friedkin fa la gavetta e di riffa o di raffa alla fine alla
diventa uno dei registi per la WGN-TV, dove si fa con un mucchio di regie
televisive, avete presente quando nei film si vede il regista televisivo
davanti a molti monitor scegliere la macchina da presa migliore per offrire al
pubblico l’inquadratura più accattivante? William Friedkin impara così, a
ragionare velocissimamente e già in termini di composizione dell’immagine,
pochi secondi per azzeccare l’inquadratura migliore, la primissima palestra del
suo stile, estremamente realistico, ma anche tecnico. Ma la svolta vera arriverà
poco dopo, imbeccato da un collega Friedkin getta via un sabato pomeriggio al
cinema per vedere una replica di un vecchio film del 1941 a detta di molti
piuttosto meritevole, il titolo in questione era “Quarto Potere” di Orson
Welles, fu proprio quel pomeriggio che Friedkin decise che da grande avrebbe
fatto il regista (storia vera).

Dicono le la fortuna aiuti gli audaci, oppure quelli che
fanno di tutto per essere nel posto giusto al momento giusto, come finire
(forse imbucato) ad un’elegante festa nel North Side di Chicago, organizzata
dalla WGN-TV e animata da avvocati, pezzi grossi, insomma la crema della città.
Qui Friedkin attacca bottone con un prete, anzi per la precisione il cappellano
protestante della parrocchia della Cook Country Jail. Padre Robert Serfling
raccontò a Friedkin di uno degli “ospiti” del braccio della morte, un posto
dove tutti dicono di essere innocenti, ma Paul Crump, 32 anni di colore,
arrestato in circostanze più che sospette, potrebbe esserlo davvero, in quella
festa il nostro Billy ha conosciuto personalità di spicco come il comico Lenny
Bruce (quello che non aveva paura nel testo di una canzone celebre dei R.E.M.), ma è l’incontro con padre Robert
Serfling prima e con Paul Crump poi che gli ha cambiato la vita.

Una fotografia di Paul Crump nel braccio della morte.

Le speranze per Paul Crump sono poche, che sia innocente o
colpevole per davvero, era già stato giudicato tale dalla Corte Suprema, quindi
l’idea balzana di Friedkin di dirigere un documentario su di lui non avrebbe
mai davvero potuto modificare il giudizio. Ma i due in carcere si parlano,
l’aspirante regista crede alla versione di Crump e nel frattempo, ascolta anche
il suo compagno di cella Vincent Ciucci, Italo-Americano finito dentro, a sua
detta ingiustamente, quando moglie e figli sono morti nell’incendio di casa sua,
peccato che l’autopsia sul corpo dei familiari confermava la morte: colpi di
pistola antecedenti all’incendio e i trascorsi da truffatore di Ciucci gli
avevano aperto le porte della cella, alla cui parete erano appese solo le foto
di moglie e figli. Il tipo di contraddizione che per certi versi, Friedkin
sarebbe finito a raccontare nei chiari e scuri di tutti i film della sua
carriera.

Friedkin trova il modo di farsi finanziare seimila fogli
verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, siccome in carriera il nostro
Bill, avrà fortuna anche collaborando grazie a suoi omonimi, come cineoperatore
sceglie uno dei più talentuosi della WGN-TV, Wilmer C. “Bill” Butler,
uno che in carriera è finito a curare la fotografia di film come Lo Squalo, Capricorn One e parecchi Rocky,
questo solo per citare qualche titolo, anche se tutto questo è iniziato con il
sogno matto dell’altro Bill, Friedkin, che intanto lo ha tirato dentro questa
idea folle (storia vera).

Portiamo avanti la tradizione delle rubriche monografiche della Bara: i titoli di testa.

“The People vs. Paul Crump” buca il budget stabilito per un
piccolissimo problema, i due Bill entrambi talentuosi, ma senza la minima
esperienza, fanno ogni genere di errore possibile, come ad esempio applicare
alla pellicola originale la loro idea di montaggio, letteralmente tagliando e
incollando insieme la pellicola originale, senza la minima idea su che cosa
fosse una “Copia lavoro”, perdendo così anche i punti segnati sulla pellicola
necessari a sincronizzare l’audio, ritrovandosi così a doverlo fare a mano,
cercando di leggere il labiale delle persone inquadrate (storia vera).

Il documentario racconta l’arresto di Paul Crump con uno
stile che non esiterei a definire aggressivo nel suo realismo, le ricostruzioni
delle scene descritte, invece (come l’arresto di Crump o il suo interrogatorio),
sono già un assaggio dello stile futuro di Friedkin, quel realismo ottenuto
grazie ad una tecnica affinata negli anni che, però, sembra risultare naturale,
quasi come se fossero immagini vere rubate e messe su pellicola.

L’enfasi nel raccontare, quel bisogno di dirigere quasi
fisico di Friedkin, ormai completamente calato nel progetto, con quel tipo di
energia e testardaggine che avremmo poi ritrovato in tanti dei suoi film (e con
cui faremo i conti nel corso di questa rubrica), venne alimentata anche
dall’esecuzione di Vincent Ciucci, a cui venne concesso a Friedkin di
assistere. Se mai il regista di Chicago avesse avuto bisogno di una lezione su
quanto l’ideale cinematografico (tutto scintille e urla) di una morte sulla
sedia elettrica, potesse differire dalla realtà, il nostro Hurricane Billy lo
ricevette quella sera, non solo assistere di persona ad un evento tanto
drammatico ha motivato il regista dandogli “materiale da romanzo” come lo
avrebbe definito monsieur Honoré de Balzac, ma era anche una spinta a dare il
massimo con il suo documentario.

La luce del sole vista a strisce verticali.

Forse anche per questo, per ottenere il massimo da Paul
Crump, durante la sua testimonianza su come la polizia gli abbia estorto una
piena confessione a forza di botte, William Friedkin era pronto a tutto.
Durante i loro dialoghi in prigione, Crump aveva raccontato gli eventi con
trasporto e con le lacrime agli occhi, ma intimorito dalla macchina da presa il
massimo che riusciva a spremersi era il nudo e freddo resoconto del suo punto
di vista. Ecco perché Friedkin decise di ricorrere a metodi da regista poco
ortodossi, gli stessi di cui aveva letto abusava Henri-Georges Clouzot con i suoi attori.

«Paul mi vuoi bene?», «Beh, sì, lo sai che ti voglio bene»,
«Paul ti fidi di me?», «Ho messo la mia vita nelle tue mani, certo che mi
fido», «Mi vuoi bene e ti fidi di me?», «Sì!». Ceffone a mano aperta di
Friedkin sul volto di Paul Crump. «E ora racconta la tua storia!». Brutale, ma
efficace, perché la sorpresa consentì a Crump di rivivere le percosse subite,
trovando il modo di raccontare alla più vasta platea del mondo la sua versione
dei fatti, solo un’altra volta un pentito, ma consapevole Friedkin tornò ad
utilizzare un trucco del genere per cui oggi qualunque regista verrebbe
condotto alla cinta daziaria di Hollywood, lo ha fatto per il suo primo film da
regista e per il suo titolo più famoso, avremo modo di parlarne diffusamente,
ma il succo è questo: se le regie televisive erano state la palestra di William
Friedkin, le contraddizioni di questo documentario girato per passione,
desiderio e voglia di fare del bene, anche piuttosto naif, sono state il fuoco
che ha continuato ad alimentare tutto il cinema di Hurricane Billy.

Gli effetti degli schiaffoni del vecchio Billy.

Il suo scavare nei chiaro scuri anche dell’animo umano è
iniziato proprio con “The People vs. Paul Crump”, Friedkin aveva creduto alla
bugia di un carcerato? Probabilmente. E chissà se avrebbe mai deciso di
impegnarsi in questa impresa se Crump si fosse dichiarato colpevole fin da
subito, il regista di Chicago aveva scelto di credere alla versione di Paul
convinto che non lui non era stato il primo (e purtroppo nemmeno l’ultimo) uomo
di colore arrestato e malmenato dalla polizia della città, forse questa era
solo la sua versione, sta di fatto che Billy iniziò la sua carriera e Crump
ottenne la libertà dopo l’ennesimo appello, quindi quella versione dei fatti,
reale o immaginaria che fosse, ha finito per diventare la più conosciuta. Ma
d’altra parte anche il cinema è finzione, no? Infatti, da quella storia Friedkin
ha tirato fuori un racconto fatto di contraddizioni su un uomo colpevole, ma
trattato così prima di tutto per essere nato nero in America, giudicato da un
giudice orgoglioso di aver contribuito a progettare un modello di sedia
elettrica, tanto da sfoggiare tutto impettito un modellino in scala della
stessa sulla sua scrivania, nemmeno fosse un personaggio di un film della
Troma.

Black Lives Matter quando ancora non era un acronimo famoso.

“The People vs. Paul Crump” ottenne un discreto successo a
livello di ascolti quando venne passato sui canali della ABC, dalle parti di
Chicago riaccese qualche polemica e William Friedkin venne etichettato come un
giovane regista di talento, ma anche come un crociato della giustizia. Il
documentario non poteva cambiare il destino di Crump, ma determinò il futuro di
Hurricane Billy, a cui vennero affidati un’altra serie di documentari, tutti
sulla falsariga del suo esordio, tutti orientati a raccontare le luci e le
ombre dei rispettivi soggetti, titoli come “The Bold Men” (1965) dedicato ad
alcuni giovani scavezzacollo (vah che parola che vi tiro fuori oggi!) pronti a
lanciarsi in volo senza paracadute, oppure “Mayhem on a Sunday afternoon”
(1965) sui gladiatori del Football professionistico americano per finire con
“The thin blue line” (1966), primo incontra tra Billy Friedkin e il mondo delle
forze dell’ordine che in linea di massima sarebbe diventato un tema caldo per
il regista di Chicago, ma anche per questo, avremo tempo modo e maniera di
parlarne nel corso della rubrica.

Ogni maledetta domenica nella versione di Friedkin.

Nel corso del 1962, dopo essersi messo sulla mappa
geografica proprio grazie a “The People vs. Paul Crump”, William Friedkin finì
per incontrare l’uomo che per anni sarebbe stato il suo agente, Tony Fantozzi
della William Morris Agency di Chicago aveva un cognome che è tutto un
programma e il piglio giusto per conquistarsi la fiducia di Hurricane Billy,
infatti proprio il nuovo agente gli fece la proposta giusta: sbarcare a Los
Angeles, andare a fare il cinema laggiù ad Hollywood forte di un biglietto da
visita notevole, quello di “Mr. Documentario”, laggiù le occasioni per uno con
il suo talento non sarebbero mancate, l’ultima cosa che Billy disse all’amata
madre prima di partire? Una promessa: sarebbe tornato per portarla con lui
nella Città degli Angeli quando avrebbe avuto successo (storia vera). La città
sarà stata anche quella degli angeli, ma Friedkin avrebbe fatto vedere loro
anche i demoni, nel vero senso della parola!

Da ragazzo timorato di Dio ed appassionato di cinema,
Friedkin non si è lasciato intimorire da Hollywood, il suo primo lavoro
importante lo ha riportato per un po’ sul piccolo schermo, i produttori di
“L’ora di Hitchcock” lo scelsero per la regia di un episodio intitolato “Off
season”, una puntata che tutti sostenevano si sarebbe potuta dirigere senza
fatica in modo anonimo in mezza giornata, lasciando che fosse la sceneggiatura
e i dialoghi a portare a casa il risultato. Tutti, tranne il giovane Billy che
tenne in ostaggio attori, troupe e staff tecnico perché sapeva che quella
storia avrebbe funzionato meglio con un piano sequenza.

Una scena dell’episodio “Off season” diretto da Friedkin.

Nel tentativo di dissuaderlo, facendolo ripiegare a più miti
consigli, la produzione scomodò il titolare, Sir Alfred Hitchcock in persona si
presentò sul set, accolto come l’imperatore di Persia. Friedkin sperò in un
consiglio, una buona parola, ma il massimo che portò a casa dal leggendario
regista fu un: «Signor Friedkin vedo che a differenza dei nostri registi lei non
indossa la cravatta» (storia vera) per poi veder sfilar via zio Hitch, che io
immagino uscire di scena sulle note di “Alfred Hitchcock presenta”, ben poco impressionato dalla risposta di Billy: «Devo averla dimenticata a casa», che simpaticone eh?

“Off season” malgrado non aver ottenuto nemmeno un “vaffa”
da parte di Hitchcock, ad oggi è ancora considerato uno dei migliori episodi di
“L’ora di Hitchcock”, proprio grazie alla regia curatissima di William
Friedkin, l’uragano Billy era arrivato ad Hollywood ed era qui per restare, ora
ci voleva solo una vera occasione da regista, ma di quella parleremo tra sette
giorni, questa rubrica è appena cominciata, non mancate!

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