Ripetete dopo di me: “Il nuovo film di Steven Spielberg, il nuovo film di Steven Spielberg”. Se questa frase non vi mette già automaticamente di buon umore, non vi conosco e non vi voglio conoscere.
“The post” non è certo il film di Spielberg che vi farà rivedere la vostra personale versione della classifica dei migliori film del regista con gli occhiali tondi, ma è un’opera estremamente etica e coerente che andrebbe ammirata al suo meglio, ovvero in lingua originale per non perdersi le prove dei singoli attori. Al pari di L’ora più buia è un film estremamente parlato, in cui il registra sfoggia tutto il suo talento visivo (e l’ottima fotografia di Janusz Kaminski) per dare dinamismo ad una trama che ruota attorno agli attori come la macchina da presa di Spielberg.
Il film inizia nel Vietnam, anno 1966 e in sottofondo i Creedence che cantano “Green River” e se non vi basta il mantra “Il nuovo film di Steven Spielberg” a mettervi di buon umore dovrebbero riuscirci i CCR che se poi non vi piacciono, vale lo stesso discorso di cui sopra sulla mia volontà di conoscervi.
Ma la storia entra davvero nel vivo quando l’ambientazione si sposta nel 1971, la trama ruota intorno al contenuto dei “Pentagon Papers” i documenti che provavano i contatti tra il governo americano e quello vietnamita ed in particolare la consapevolezza da parte di svariati presidenti americani che la vittoria laggiù nel “Fottuto ‘Nam” non era possibile, come dicono nel film, rimandata per varie ragioni, il 70% delle quali per evitare un’umiliazione internazionale.
Lo Spielberg di “The Post” è quello che presta il suo talento alla trama ed idealmente insieme a “Lincoln” (2012) e Il ponte delle spie, questo film compone una specie di trilogia dedicata all’analisi dei fondamenti della democrazia americana, d’altra parte è al cinema che i nostri amici Yankee elaborano davvero la loro storia, Spielberg in quanto miglior regista vivente, in contumacia con Martin Scorsese (e John Carpenter ovviamente!) non è certo uno che si tira indietro.
Come ne Il caso Spotlight, Spielberg parte da eventi reali per la sua storia, anzi, ancora di più rispetto al film Tom McCarthy è chiaro che il titolo di riferimento sia “Tutti gli uomini del presidente” (1976), di cui “The Post” potrebbe quasi essere un prequel, o per lo meno, se per caso voleste spararvi una serata a tema, aspettate l’uscita in DVD dell’ultima fatica di Spielberg e poi guardatevela subito prima del film di Alan J. Pakula.
Per raccontarci come i documenti scottanti per Richard “Tricky Dicky” Nixon arrivano nella mani della redazione del Washington Post, Spielberg si affida a due mostri sacri, la proprietaria del giornale Katherine Graham, interpretata da un’intensa Meryl Streep e il deciso direttore editoriale Ben Bradlee che ha il volto del solito Tom Hanks, se non ho fatto male i conti, con questo sono cinque film insieme a Spielberg.
Attorno a loro gli altri personaggi che chi più o chi meno vengono coinvolti dal dubbio morale dei due protagonisti: è giusto andare contro il proprio presidente pubblicando lo scottante contenuto dei dossier, oppure è meglio abbassare testa e orecchie e lasciare che Nixon l’abbia vinta?
La regia di Spielberg è ottima nel sottolineare il momento chiave del personaggio di Katherine Graham, quella telefonata notturna in cui la donna, sola in un consiglio di uomini (dettagli che Spielberg butta nel mucchio, ma non in faccia allo spettatore) prende la decisione chiave, perché alla fine il vero pregio di “The Post” è proprio questo: la coerenza interna del cinema di Spielberg che è tutta lì da vedere.
Sono passati quasi trent’anni (anzi, tenetemi l’icona aperta che sto preparando la torta di compleanno) da quando il regista con gli occhiali tondi chiedeva a François Truffaut, con il suo inglese così così, di pronunciare la frase che forse è la chiave di gran parte del cinema spielberghiano, ovvero: “Persone ordinarie in circostanze straordinarie”.
Ogni tanto a Spielberg scappa la mano con la spolverata di zucchero, ad esempio la sorella che parla di suo fratello ancora laggiù in Vietnam, è un passaggio un po’ stucchevole dai, lo sappiamo è Steven, è fatto così, ma gli uomini e le donne ordinarie del Post, prendono una decisione straordinaria, la scintilla di una piccola rivoluzione, quella di cui voleva essere parte Ben Bagdikian, il personaggio interpretato da Bob Better Call Saul Odenkirk che ultimamente si vede spesso al cinema, che zitto zitto è arrivato a recitare per Spielberg e qui risponde con una prova dove per svariati minuti, sembra lui il protagonista e non Tom Hanks… Mica male!
Difetti? Una certa retorica di fondo, per un film che, però, è spudoratamente democratico, ma forse sarebbe meglio dire più classico che davvero retorico. Certo qualche attore risulta un pochino sprecato, non mi riferisco tanto a Jesse Plemons quanto più che altro ad Alison Brie che si vede in mezza scena (che spreco!) e a Sarah Paulson, chiamata a riempire la parrucca bionda della moglie di Tom Hanks e poco altro, però capisco anche che per qualunque attore, la possibilità di aggiungere nel curriculum la partecipazione ad un film di Spielberg è un’occasione cha va presa al volo.
Tra i difetti veramente grossi metterei le musiche di un John Williams che probabilmente ha deciso di comporre i pezzi, tenendo una mano dietro la schiena. Ok, che da Williams ci si aspetta sempre qualcosa di grosso, in particolare se associato a Spielberg, ma qui il vecchio John mi sa che non era particolarmente ispirato ecco, o se non altro forse è una colonna sonora che risulta un po’ troppo anonima una volta associata alle immagini.
Quello che per una grossa parte di pubblico sarà un difetto è sicuramente la struttura estremamente dialogata del film, Il ponte delle spie poteva contare su un secondo tempo in cui la tensione ti incollava allo schermo, prima che Spielberg mettesse mano al vasetto di miele per il finale. “The Post”, invece, parte da un presupposto differente e non può contare su una spia che deve attraversare il confine, quindi deve fare scelte differenti, che una parte del pubblico potrebbe anche ritenere pallose.
Ma a ben guardare questo film somiglia davvero molto a Detroit di Kathryn Bigelow: entrambi ricostruiscono un evento reale, per parlarci dell’America di oggi. Spielberg si affida ad un Tom Hanks più garrulo del solito e ad una Meryl Streep bravissima nel tratteggiare un personaggio estremamente umano per ribadire la sua posizione sulla libertà di stampa.
Coerenza dicevo, si perchè la fiducia di Spielberg nel ruolo della carta stampante, più in generale della parola scritta, viene dimostrata dal regista affidandosi proprio alle parole scritte della sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer, un regista che si mette al servizio della storia e che utilizza la sua arma migliore, ovvero il cinema, per ribadire concetti che nell’America di oggi (e quindi in tutto il mondo occidentale!) sono estremamente d’attualità.
Non manca un certo occhio amorevole verso un’Era che non c’è più, se posso dirla fuori dai denti io che sono molto meno zuccheroso di Spielberg, direi un’epoca in cui i giornalisti facevano giornalismo vero e non creavano articoli sfogliando i profili delle persone sul Faccialibro. Questo occhio di riguardo rispetto ad un giornalismo più genuino Spielberg lo consuma con tutte le inquadrature sulle rotative o sul giornale che va in stampa.
Risultato finale: “The Post” è un film rigoroso ed estremamente democratico, un tipo di storia che richiede mano ferma ed un regista con una certa credibilità per essere narrata, direi che non potevamo capitare meglio di così, no?
Sepolto in precedenza lunedì 12 febbraio 2018
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