Al fin giungemmo a riveder le botte. L’ultimo capitolo della
Trilogia del Silat, quella con cui il
gallese Gareth Evans e l’indonesiano Iko Uwais hanno portato questa arte
marziale ad esprimersi al massimo livello possibile, anche perché The Raid è letteralmente esploso in
faccia al pianeta.
Diventato un classico istantaneo fin dalla sua uscita, The Raid non è solo assorto a nuovo
standard di altissima qualità per i film di arti marziali contemporanei, ma è
anche diventato il titolo citato a pappagallo da tutti quelli che i film di
menare non li guarderebbero nemmeno con gli occhi di un altro, ma che comunque
non voglio restare tagliati fuori dalle discussioni, insomma gli studenti del
DAMS e coloro che hanno nel Sundance il loro festival cinematografico di
riferimento, che non a caso è stato uno dei primi ad occidente a presentare “The
Raid 2 – Berandal”.
Piccolo passo indietro: dopo essersi scaldati i muscoli con Merantau (per gli amici “Menantau”), Gareth
Evans aveva già in testa “Berandal”, che in indonesiano vuol dire teppisti,
proprio quelli che uscivano di prigione nella sua storia e abbracciavano in
pieno la vita criminale. Non trovando i fondi per questo suo ambizioso
progetto, ha pensato ben di vabbè, robetta, dirigere il nuovo classico del
cinema di arti marziali contemporaneo e di intitolarlo “The Raid”. Poi non pago, giusto per tenersi in allenamento, aiutato da Timo Tjahjanto ha diretto la porzione più riuscita di “V/H/S/2” (2013), quella intitolato “Safe Haven”, che ancora oggi è a mani basse, il migliore segmento
tra tutti quelli visti in questa nutrita saga che ormai sforna un nuovo capitolo all’anno. Capite da
voi che quando “Berandal” è rinato come seguito ufficiale di “The Raid”, l’attesa era leggerissimamente
spasmodica.
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Il contributo del gallese a V/H/S/2 (solo il miglior episodio) |
Ufficialmente “Berandal” come dicevo lassù vuol dire
teppisti, anche se suona come un farmaco per il mal di gola, che poi è
francamente quello che serve arrivati alla fine dei 150 minuti di questo terzo
film, anche perché lungo il percorso, ci sono momenti talmente esaltanti che il
mal di gola vi verrà a forza di esultare per la gioia. Rispetto al primo
capitolo è per certi versi un passo indietro, ma per contenuto, maturità
registica e qualità delle scene d’azione, “The Raid 2 – Berandal” conferma il
dominio indonesiano sul genere, sarei più matto di quello che sono davvero a
non accoglierlo tra i Classidy.
Differenze rispetto al monumentale predecessore? Una,
sostanziale, se “The Raid” era facilmente riassumibile in una frase sintetica ovvero
un poliziotto entra in un palazzo e mena tutti, “The Raid 2 – Berandal” invece, essendo basato su quello che gli Yankee chiamano “High concept” ha una
trama. Niente di spaventoso eh? Anche perché Gareth Evans è riuscito in maniera
molto intelligente a coniugare la sua esigenza di sequel alla precedente
incarnazione di “Berandal”, pescando a piene mani dal cinema di Hong Kong,
quindi ci trovate dentro un po’ di “Infernal Affairs”, un po’ di Ringo Lam e soprattutto un po’ di John
Woo, brutto? No dai, tutto potete dirmi ma non che sia stata una brutta pensata
quella del gallese.
“The Raid 2 – Berandal” è talmente onesto nei suoi intenti
da fare una cosa che come spettatore, personalmente mi fa impazzire: Rama (Iko
Uwais) è sopravvissuto alla più violenta riunione di condominio mai vista al
cinema, ed è uscito con in mano le prove per far crollare l’impero criminale, di
cui il boss in canotta Tama era solo uno dei tasselli di un mosaico più grande.
Avete presente quando a fine film i buoni hanno con fatica raccolto la prova
schiacciante con cui inchiodare i cattivi e come spettatori, possiamo andare a
dormire felici e contenti? Ecco è una bella balla cinematografica, perché
spesso nella realtà, nemmeno prove inoppugnabili servono a rallentare i
cattivi. “The Raid 2” parte da questa premessa.
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«Lui me lo fai a tocchetti sottili ok? Al massimo spessi un dito» |
Rama avrà pure sgominato una gang ma ha attirato le
attenzioni dell’organizzazione criminale di cui quella gang era solo una delle
tante teste dell’Idra, un corpo di polizia corrotto fino al midollo, della sua
prova schiacciante non sa che farsene, l’unico modo per arrivare al cuore dell’organizzazione
guidata da Bangun e tenere al sicuro la sua famiglia dalle possibili ritorsioni
è andare in galera sotto falsa identità, guadagnarsi la fiducia di Uco, il
figlio del boss e poi infiltrarsi nell’organizzazione, una missione sotto
copertura che altro non è che la regola aurea dei seguiti (uguale al primo ma
di più!), ma che questa volta non si può riassumere solo con la stringata
frase: Rama mena un palazzo.
Ecco perché il minutaggio lievita a dismisura, dai 101
minuti di The Raid si passa ai 150 di
“The Raid 2”, tutti molto scorrevoli perché Gareth Evans bontà sua (e nostra!)
non ha nulla da dimostrare a nessuno, il suo soffermarsi sui dialoghi, la
costruzione dei personaggi e le loro dinamiche, insomma quell’orpello noto come
“trama” che spesso affossa i film di arti marziali e su cui si schiantano le
ambizioni “alte” dei loro registi, qui fila senza farci
mai sentire come parcheggiati in sala d’attesa dal dentista, in attesa della
prossima gloriosa scena di menare. Anche perché il cuore e la testa di Evans
stanno proprio lì, sui momenti d’azione che sono gli stessi del primo film, ma
possono contare anche sugli odiati giapponesi nel ruolo dei cattivi e
permettono al regista di esibirsi anche in un altro classico, ovvero gli
inseguimenti in auto, che sono il sale del cinema.
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Tecniche di ripresa (l’uomo vestito da sedile è il mio grande mito) |
L’unica differenza rispetto a The Raid è che per passare da una scena grandiosa all’altra,
bisogna passare (tutto sommato indenni) attraverso dinamiche che già
conosciamo: il poliziotto infiltrato che deve guadagnarsi la fiducia, il figlio
del boss pazzo e ambizioso con cui l’eroe crea comunque un legame e la
presentazione dei vari “mostri di fine livello” che qui diventano più coloriti
che mai, ma come avrebbe detto Anders Celsius, andiamo per gradi.
Digerita la delusione per Rama, legata al fatto che aver menato un
palazzo non è bastato, il nostro finisce sotto copertura in galera, dopo circa
quindici minuti arriva la prima scena causa del vostro mal di gola sui titoli
di coda, ovvero il primo combattimento uno, anzi Iko contro tanti del film, l’unico
che era già stato girato per la versione 1.0 di “Berandal” e che Evans ha
voluto rifare forte dell’esperienza accumulata con “The Raid”. Siamo di fonte
ad un classico, ovvero il tipo in prigione, senza amici, che attira subito le
attenzioni degli altri carcerati, solo che più che una normale rissa nel cesso,
con Evans e Uwais diventa la battaglia delle Termopili combattuta in interni,
con la porta del bagno che è lo spartiacque contro cui si infrangono le orde di
Re Serse Benni, mentre i 300 pugni e calci di Rama fanno la parte degli
Spartani di Leonida. E siamo solo all’inizio del film.
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Fatti due occhi neri a Benni e attirata l’attenzione del
figlio del boss Uco, ora tocca sopravvivere alla ritorsione armata, che arriva
attorno alla prima mezz’ora di film. Una scena quella della rissa nel cortile
reso fangoso dalla pioggia, che per qualunque altro film di menare sarebbe la
scena madre, ma per “The Raid 2” è solo il secondo, clamoroso combattimento.
Benni manda il suo sgherro più grosso armato di coltello, Rama risponde
svitando il bastone dello scopettone e mettendo su una rissa nel fango che per
crescendo Wagneriano del menare è già una roba che scatena l’esultanza. Le
prese, i calci, le rotule frantumate sono ancora solo l’inizio per questo film.
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Non proprio i vostri rilassanti fanghi termali. |
L’ambizione di “The Raid 2” sta nell’ampliare il mondo
tracciato dal primo film, un luogo dove il caro vecchio Mad Dog è assorto allo
stato di profeta. Lui che odiava le armi considerandole la via d’uscita facile,
qui sembra che abbia idealmente fondato una scuola di pensiero che tutti i
personaggi seguono, ecco perché quando Rama viene mandato a riscuotere sul set
del film porno clandestino, dove spunta anche Epy Kusnandar, direttamente da “Safe
Haven”. I colpi del Benelli inchiodato sotto il tavolo terminano presto e tutti si
inseguono a piedi e si picchiano con gli stessi, perché se The Raid toglieva le
armi dall’equazione dopo circa mezz’ora di film, “The Raid 2” non le considera
proprio, in un mondo dove tutti sono figli di Mad Dog, ecco, parliamo un po’ di Yayan
Ruhian.
Forse l’unico vero problema di ritmo di questo secondo
capitolo è rappresentato proprio da Yayan Ruhian, che ad una prima occhiata
pare Mad Dog redivivo e ritornato nella sua nuova condizione, barbuto e
capellone come il barbone pazzo che urla alla stazione, in realtà ci si mette
proprio poco a comprendere che se l’attore è lo stesso, il personaggio è un
altro, chiamato Prakoso, che pare un nome scelto frettolosamente (Pracoso!) ma in realtà
ha un ruolo chiave nella trama, anche se monopolizza il secondo atto di “The
Raid 2”, però davvero io non me la sento di criticare Gareth Evans per aver
trovato il modo di far tornare Non-Mad-Dog in questo seguito, anche perché il
risultato finale parla da solo.
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Anche Jason Voorhees avrebbe paura ad incontrarlo per strada. |
Lo sgherro di Yayan Ruhian deve uccidere uno a colpi di
machete, ed esegue il compito alla lettera, addosso gli arrivano qualcosa come
ventordici uomini, ma lui li stende tutti spezzando loro le ginocchia a calci,
spaccandogli il naso contro i tavolini e colpendoli con le sedie di legno, il
tutto con una mano occupata dal machete riservato esclusivamente al suo bersaglio, io ve lo
dico. Il tutto con una coreografia di combattimento lunga e intricatissima,
eseguita con una precisione chirurgica da Yayan Ruhian, mentre la macchina da
presa di Evans gli gira intorno trovando scientificamente sempre l’angolo
migliore per mostrarci i colpi e farci sentire lì, ad un metro da
Mad-Dog-Che-Non-È-Mad-Dog, testimoni oculari del suo massacro.
Un altro dettaglio che mi fa impazzire di “The Raid 2” e che
denota un ulteriore miglioramento da parte di Evans come regista è l’uso della
musica, se il primo film nella sua versione definitiva si giocava un’ossessiva
e onnipresente colonna sonora proto-Carpenteriana in salsa Linkin Park
(sovrapposta e sovrapponibile a quella usata nella prima proiezione in sala del
film al Torino Film Festival nel 2011), qui la musica ha un valore assolutamente
cinematografico e anche cinefilo, visto che per l’estremo saluto al personaggio
di Yayan Ruhian, il regista gallese si prende la Sarabande di Handel
direttamente da “Barry Lyndon” (1975), ricordando a tutti che gli appassionati
di cinema veri possono amare i film di menare e Kubrick con lo stesso ardore.
Tutti gli altri sono snob con la puzza sotto il naso.
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«I’m baseball BAT-MAN» (cit.) |
Nel suo immergersi nel canone di Hong Kong facendolo proprio,
Gareth Evans introduce i due letali mostri di fine livello noti come “Hammer
Girl” (Julie Estelle) e “Baseball Bat Man” (Very Tri Yulisman), un po’ Baseball Furies di Hill e un po’
personaggi a cui Tarantino avrebbe dedicato uno spin-off a tema. Se il ragazzo
del Baseball mi fa impazzire con il suo gonfiare tutti a colpi di mazza e poi
chiedere loro indietro la palla da usare a sua volta per colpirli ancora, la
mia preferita è Hammer Girl, eroina di tutti quelli come me, che gli occhiali da
sole li terrebbero anche di notte. Oltre ad insegnarci un utilizzo alternativo
di entrambi i lati del martello. La sua spettacolare entrata in scena dove
avviene? In metropolitana, giusto per darmi altro materiale sulla mia bizzarra teoria
per cui ogni grande film si merita almeno una scena in metro.
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Stacchi: di gambe, di montaggio e di teste (dal collo) |
Ma il vero momento spartiacque arriva quando Gareth Evans
dimostra di avere davvero tutto del regista d’azione, gli inseguimenti in auto
sono il sale del cinema, se dimostri di saper fare un inseguimento, nella settima
arte puoi fare tutto. Evans non solo dimostra di avere le carte in regola, ma
adatta il vostro normale inseguimento in auto al suo canone, quindi Iko Uwais
può esibirsi in un’altra coreografia di lotta in spazi strettissimi, anche più
stretti dell’ascensore di Merantau, visto
che gonfia di mazzate tutti dentro l’abitacolo di un’automobile in corsa, mentre si
consumano ciocchi fortissimi di lamiere, sgherri schiacciati contro i “New
Jersey” lungo l’autostrada e salti da un finestrino all’alto. Ogni singola
scena d’azione di “The Raid 2” è lunga, articolata, ultra frenetica, una
vetrina per il talento di uno come Iko Iko, che come Michael Jordan, lascia che
la partita (o in questo caso il film) venga a sé. Nessuno ha mai capito cosa
volesse dire per davvero questa frase, ma MJ lo faceva alla grande e Iko Iko
pure, quindi la parola ai fuoriclasse sul rispettivo campo.
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Una scena resa possibile dal mio mito, l’uomo sedile. |
Rama capisce che difendersi non basta più, l’unico modo per
essere di nuovo libero e poter tornare dalla sua famiglia è colpire l’organizzazione
al cuore, passando così all’attacco nell’ultimo atto del film, che qui si,
diventa un The Raid in piccolo, perché
siamo di nuovo di fronte ad una scalata verso il boss finale.
Si parte dal magazzino dove Iko Uwais lascia a terra una
trentina di sgherri, per poi fare fuori i due “mosti di fine livello” insieme. Infatti affronta Hammer Girl e Baseball Bat Man nello stesso corridoio, perché
tanto dopo essersi fatto le ossa in un palazzo di Jakarta, loro per quanto iper
violenti, sono quasi una passeggiata.
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« |
Esattamente come The Raid poi, il momento emotivo più alto non coincide con la lotta contro il
Boss finale, ma con lo sgherro più pericoloso appena prima, se nel primo film
era Mad Dog, qui tocca all’assassino con i baffetti interpretato da Cecep Arif
Rahman, un piccoletto tutto nervi e cazzimma, con lo sguardo di chi ha sempre
ragione anche se vi taglia la strada con il semaforo rosso.
Quando lui e Iko Uwais si manifestano insieme nella stessa
cucina, tutti quelli ai fornelli fanno come gli umani durante un combattimento
tra Goku e Vegeta, spariscono, anche perché i due mettono su delle pacche in
questa cucina da incubo che Antonino Cannavacciuolo lèvati, ma lèvati proprio.
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«Sei fuori dalla cucina di Master Chef, nel senso che ti faccio fuori io» |
Se la prima parte del loro combattimento è da urlo, con una
varietà di colpi paragonabile solo al dinamismo della regia, la seconda, quella
che inizia dopo il mezzo defenestramento di Cecep Arif Rahman, lanciato
attraverso la vetrata dei vini (e non provate e dirgli che sa di tappo), la
seconda è ancora più spettacolare perché sul palcoscenico del Pencak Silat, con
tutti quei suoi movimenti a bacino, fa il
suo esordio l’arma ufficiale di questa disciplina, quella che si sposa alla
perfezione con i suoi colpi fulminei, ovvero il Karambit una sorta di coltello
a mezzaluna con un anello all’estremità, che qui viene utilizzato senza cura
per la vita dell’avversario, con fendenti diretti, relative lirate di sangue e
spesso estratto a strappo dalle carni. Altro che cucine da incubo!
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Tutto questo con le Converse ai piedi, devi proprio voler male a uno per prenderlo a calci con quelle scarpe. |
Sul combattimento non ho altro da aggiungere è l’apice
emotivo del film anche grazie al sapiente utilizzo della colonna sonora (la notevole Showdown),
quasi sette minuti di violenza in crescendo, di poesia in movimento con una coordinazione
perfetta tra tutte le parti. Quando la musica cresce aumenta
anche l’incedere dei colpi, quando termina sei senza fiato tu, seduto comodo sul
divano, al massimo con il mal di gola per l’esultanza.
Il finale di “The Raid 2 – Berandal” è emotivo, siamo all’intimismo
del menare. Padre e fratello (a suo modo anche del pazzo Uco), poliziotto e
criminale, Rama deve fare i conti con tutto questo, dopo quel massacro in
cucina con Cecep Arif Rahman manca davvero solo la “coda strumentale” al film di Gareth
Evans. Infatti il fuoco più che sugli ultimi avversari da abbattere, sta tutto sul nostro
Iko-Iko, che si aggira come uno spettro, anzi come uno dei tredici spettri dell’azzeccatissimo
pezzo dei Nine Inch Nails scelto per
concludere il film. Si aggira come uno con l’acufene da post concerto, o come gli ultimi
tre sopravvissuti del Distretto 13,
tanto che la musica è come il fumo della battaglia per Carpenter, copre tutto,
anche i dialoghi e quando cala, ci lascia con un solo protagonista, ancora in
piedi, ancora vivo, con una sola frase di commiato conclusiva: «No, ho finito».
Ora potete risvegliarvi dalla trance agonistica del menare di questo film e
realizzare che avete mal di gola da eccessiva esultanza.
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«Hai da fumare?» (cit.) |
Ogni tanto balenano notizie di un “The Raid 3”, annunciato
da Gareth Evans e Iko Uwais che già così, avrebbero alzato l’asticella piuttosto
in alto, visto che in questi anni tanti hanno parlato della “Trilogia del Silat”,
ma ancora nessuno è riuscito a scalzare l’asse Galles/Indonesia dalle mappe
geografiche del menare cinematografico. Se mai la trilogia dovesse diventare una
tetralogia, saremo qui pronti a braccia aperte per accoglierla, ma anche così
direi che è andata benino, quindi per ora come Rama, ho finito.