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The Raid (2011): classico istantaneo del menare

Non vorrei che passasse come il mio modo di parafrasare una
battuta famosa di Benigni, però sapete qual è il problema più grave dell’Indonesia?
Il traffico.

Immaginatevi i problemi di mobilità della città più
trafficata dove vi siete ritrovati imbottigliati con l’auto, ecco, a confronto
di Jakarta l’esaurimento nervoso che vi è venuto al volante quella volta, loro lo
chiamano mercoledì e nemmeno nell’ora di punta.

Un mio amico una volta, ha avuto la pensata di visitare Jakarta e i
luoghi da essa raggiungibili su gomma nel modo più economico possibile, ovvero
affittando un motorino, solo dopo ha capito come mai costava così poco, perché si
sono modi meno truculenti per morire. Basta dire che sull’equivalente locale
della tangenziale fuori da Jakarta è stato superato a destra. Vabbè, so cosa
state pensando, tutto qui? Prima o poi quello che ti sorpassa a destra in un
tratto di strada che non lo consente lo abbiamo beccato tutti, sì ma il mio
amico è stato superato a destra sulla tangenziale da un carello elevatore
lanciato a tutta forza, per di più con le pale sollevate ad altezza uomo (storia
vera). Iko Uwais, prima di sfondare nel cinema, per guadagnarsi da vivere a Jakarta,
faceva le consegne con il furgone. Quando Gareth Evans gli ha chiesto se voleva
sfidare la morte insieme alla banda di aspiranti suicidi che per comodità
chiameremo cast, per lui sarà stato l’equivalente di un comodo lavoro alla
scrivania, dopo anni passati a scavare in miniera.

«Facevo le consegne a Jakarta, questo palazzo è vacanza per me»

Su come il gallese Gareth Evans sia sbarcato in Indonesia,
ve ne ha già parlato Quinto Moro nel
primo capitolo della “Trilogia del Silat”, tutto è cominciato con la volontà di
girare un documentario sull’arte marziale più amata dagli indonesiani e sulla
sua strada il nostro, ha trovato uno dei maggiori artisti della specialità ovvero Iko Uwais. Ma Merantau era il riscaldamento, messa
insieme la sua squadra di ninja senza alcuna paura della Nera Signora, Evans
era pronto ad alzare la posta in gioco.

Il piano prevedeva di fare un film su una banda di ex teppisti usciti di prigione, ovviamente con Iko Uwais e Yayan Ruhian come colonne portanti, il primo trailer di “Berandal” cominciò anche a girare in rete, ma il progetto si rivelò troppo
ambizioso (e costoso). Un anno e mezzo dopo un po’ a sorpresa, Evans annuncia “Serbuan
Maut”, “The Raid” per il resto del mondo e il pianeta, esplode.

Quindi piano di morbidezza violenza.

Seguitemi che questo è un passaggio un po’ complesso: lo
avete visto tutti il secondo film su Dredd no? Uscito un anno dopo “The Raid” è
lo stesso film. No, non ho detto ha la stessa trama, intendo proprio che è lo
stesso film, sulla questione ha già detto tutto Lucius con il suo pezzo sulle
pagine del Zinefilo, che vi invito
caldamente a leggere. In estrema sintesi è andata più o meno così: nell’ottobre
del 2010, Alex Garland deposita una sceneggiatura intitolata “Peach Trees”, come
il nome dei palazzi alveare di Mega City One in cui la storia è ambientata,
dopodiché tra lavorazione e post produzione, il film verrà presentato in
anteprima al Comi-Con di San Diego solo nell’estate del 2012. In un punto
imprecisato del continuum tempo spazio, il gallese Evans sente parlare del
soggetto dell’inglese Garland, si tratta proprio di quello di cui ha bisogno per contenere
i costi di produzioni e si porta l’idea laggiù in Indonesia, dove vince grazie
all’esecuzione, perché non conta chi ha avuto prima l’idea, ma chi la esegue
meglio: Galles 5, Inghilterra 0, tengo valido il punteggio del rugby prima
della trasformazione, che per restare in tema, avviene grazie ad un
calcio.

Due punti aggiuntivi per Mad Dog dopo la trasformazione.

I primi vent’anni del 2000, per essere le terre desolate di
un cinema morente, sono stati benedetti da due apparizioni tipo miraggi nel
deserto, tutti ricorderemo la prima volta che abbiamo visto Mad Max – Fury Road e ancora prima, dove
eravamo quando abbiamo scoperto “The Raid”. Io ero al cinema, per la precisione
alla 29esima edizione del Torino Film Festival, quando ancora dava per davvero
spazio e visibilità ai film di genere, ottima abitudine che pare essere andata
purtroppo persa. Nella sezione Midnight Madness pescai questo titolo d’azione
di cui non sapevo un accidente, che era più o meno quello che conoscevo del
cinema Indonesiano, penso che ricorderò per sempre quella serata in sala come
una delle più travolgenti della mia vita di cinefilo, anche perché il film venne
presentato come merita di essere visto, in lingua originale (anche perché il
doppiaggio è pessimo, ma lascio la parola agli esperti di Doppiaggi Italioti) e soprattutto senza la colonna sonora
definitiva, quella che potete sentire nel Blu-Ray del film composta, con echi
volutamente Carpenteriani, da Mike Shinoda dei Linkin Park.

Mai presentarsi con una pistola ad una rissa tra indonesiani.

Uscito dalla sala ero così frastornato da non aver
realizzato per davvero quello che avevo appena visto, ero sicuro di una cosa
però: quella che credevo essere la nuova Terra Santa dei film di menare, ovvero
la Thailandia di Tony Jaa era appena
stata sorpassata a destra dall’Indonesia. Su un carrello elevatore lanciato a
tutta forza e con le pale sollevate, incuranti della morte.

Può un film diventare un Classido un minuto dopo i titoli di
coda? Si e quel film non può che essere “The Raid”, classico istantaneo del
menare, nuovo messia delle botte e in generale, uno di quei film spudoratamente
di genere in grado di mettere tutti d’accordo e di concludere di colpo ogni
discussione. Al pari del film di George Miller, quando citi “The Raid” in una discussione di cinema le chiacchiere
si riducono automaticamente a zero. Tanto che chiunque, anche chi non ha mai
apprezzato (o anche solo speso tempo a guardare) i film di menare, con un po’
di puzzetta sotto il naso ha iniziato a citare come esempio virtuoso, ma si sa
che in alcuni Paesi del mondo (sicuramente in uno a forma di scarpa) lo sport
nazionale è il salto sul carro del vincitore, proprio come in Indonesia è il Pencak
Silat.

Se Merantau era un
dramma con le botte, per stessa ammissione di Gareth Evans, “The Raid” è più
simile ad un horror. Anche perché è stato concepito, oltre che per essere una seconda e
ancora più esplosiva vetrina per il Silat, con coreografie più aggressive e
toni più violenti, quasi da commedia nera. Anche se nel suo DNA il capolavoro
di Gareth Evans dimostra di avere preso qualcosa da tutti i film giusti.

La pace prima della tempesta di mazzate.

La trama è semplice, non esiste. Anzi se esiste è un
pretesto, la scintilla che dà inizio all’esplosione: Rama (Iko Uwais) si
sveglia, prega e fa le trazioni. Bacia la moglie incinta e poi addominali. Scalda
le nocche a colpi di pugni contro il sacco e saluta il padre, con la promessa
di riportare suo fratello Andi (Donny Alamsyah) a casa. Poi sale sul furgone
con gli altri diciannove poliziotti della squadra d’assalto guidata dal
sergente Jaka (Joe Taslim) e qui la
parte romanticona del film finisce, inizia l’azione. Per dirla come la
locandina Australiana di “The Raid”: un minuto di romanticismo, cento di
carneficina.

Per questa e non solo, un saluto ai Calci.

L’obbiettivo è uccidere il signore del crimine Tama Riyadi (Ray
Sahetapy), barricato nel suo palazzo al centro di un quartiere che è il suo
regno, 50% la brutta fama delle Vele di Scampia e 50% grattacielo della Nakatomi da scalare. Joe Taslim spiega
tutto questo in un dialogo sul retro del camion che conduce la SWAT al palazzo,
poi Gareth Evans introduce al meglio il suo cattivo: Tama, spara a sangue
freddo alla nuca ad alcuni poveretti inadempienti in fila in ginocchio del suo
ufficio, l’ultimo dei quali si salva perché la pistola finisce le pallottole.
Tama gliela appoggia sulla spalla, apre un cassetto pieno di proiettili con cui
potrebbe tranquillamente ricaricarla e finire l’opera, ma preferisce prendere
il martello per farlo. Questo è il cattivo del film, ma a ben guardare anche il
manifesto programmatico di Gareth Evans, infatti arriva nei primi cinque minuti
di film, quelli che storicamente ne definiscono tutto l’andamento.

Uno ancora in piedi contro tanti sdraiati doloranti a terra.

“The Raid” è straordinario sotto tutti i punti di vista, il
perfetto film action perché porta avanti la trama proprio così, a colpi d’azione.
A tutti gli effetti per 100 minuti Evans dirige un assedio in movimento, che
guarda in parti uguali a John Carpenter
e a Walter Hill. Basta dire che se la
scena del frigo-bomba sembra l’equivalente del monitor del computer carico di C4 di John McClane, il buco nel pavimento
aperto a colpi d’ascia per passare da un piano all’altro, arriva dritto da 1997 – Fuga da New York, ma con il
dinamismo di una regia agile quanto le mosse di Pencak Silat, con la macchina da
presa che si infila nel buco seguendo a ruota Iko Uwais, solo una delle cento
invenzioni brillanti della regia del gallese.

Hai chiuso la porta del frigo?

Ma le radici di “The Raid” sprofondano nel terriccio del
cinema d’azione, di quello più nobile per altro. Il Maestro Bruce Lee aveva un
grande sogno, una storia su più livelli di una pagoda, su ognuno di essi un
avversario sempre più forte da dover sconfiggere, purtroppo è stato chiamato ad
assorgere allo stato di leggenda prima del tempo. Senza paura di passare per
blasfemo, posso dire che “The Raid” probabilmente sarebbe piaciuto anche al
Maestro Lee, perché fa sua la lezione di Game of Death e la applica alla perfezione con Iko Uwais come protagonista.

Se non trovate meraviglioso tutto questo, forse avete sbagliato blog.

“The Raid” è in totale controllo di tempo e spazio, tenendo
conto di tutti gli elementi, dal numero di pallottole sparate fino a chi è
stato menato e in che punto esatto del palazzo le ha prese. Dopo trenta minuti
di film (e di irruzione) la SWAT ormai non ha più proiettili e tocca arrangiarsi
a mani nude o tuttalpiù, con un frigo convertito a bomba, perfetto per spalmare
gli sgherri di Tama sulle pareti. Gareth Evans non spreca nemmeno un minuto del
suo film, lo fa con il totale controllo di ogni elemento che lo compone, per
darvi un’idea di quanto il gallese abbia l’assoluto dominio di tempi e spazi, vi cito uno dei miei passaggi preferiti, ovvero quanto Iko Uwais
lascia a terra una serie di sgherri, che non si curano di attaccarlo uno alla
volta, ma tutti insieme, con coreografie di combattimento incredibilmente articolate. Quando per esigenze narrative Iko Iko deve tornare indietro, i malcapitati ancora
pesti e piedi di lividi sono ancora lì, qualcuno nel mondo dei sogni altri
nello stesso punto dove il nostro Rama li ha lasciati, a colpi di mazzate.

Anche perché dopo colpi così, non hai nemmeno più la voglia di respirare.

Se questo non fosse abbastanza per fare di “The Raid” il
miglior film di arti marziali delle ultime due decadi, mettete in conto come la
narrazione non rallenti mai nemmeno quando sembra farlo. Un’altra delle mie
scene preferite è la sortita nell’appartamento dell’inquilino occhialuto, dimostrazione
che nel palazzo non sono proprio tutti criminali. In teoria sarebbe un momento “defaticante”
che serve ai protagonisti a cercare rifugio, di fatto offre un approfondimento
sugli abitanti del palazzo e la scena dei colpi di machete attraverso la
parete, ennesimo momento che ti lascia aggrappato ai braccioli della poltrona. Anche perché ad ogni pugno seguono dei denti sporchi di sangue, ad ogni faccia sbattuta contro un muro, una crepa su di esso, l’azione è sempre chiarissima così come le sue violente conseguenze.

Dolorose conseguenze oserei dire.

“The Raid” non ha una scena o un solo momento fuori posto,
il sorriso alla finestra dell’inquilino occhialuto quando vede Rama nel
cortile, pesto ma trionfante va mano nella mano come il flashback nel mezzo del
laboratorio di droga, in cui Iko Uwais per darsi motivazioni pensa alla moglie
incinta, senza pause o righe di dialogo ad appesantire una trama che si muove
agilissima come Yayan Ruhian. Sì, tra poco parleremo anche di Mad Dog, portate pazienza.

Ditelo a lui che preferiti i gatti.

Ad ogni piano Iko Uwais deve affrontare un avversario sempre
più folle e pericoloso, il risultato è una serie di prodezze dietro l’altra,
per alcune è davvero impossibile non credere che qualcuno degli stunt, del
tutto incurante delle regole sindacali, delle leggi della fisica e della
concreta possibilità di morire, non ci abbia davvero lasciato le penne. La
prima volta che ho visto il tizio lanciato di schiena sulla balaustra ho avuto
male io ai reni per lui per una settimana, ancora non ci credo che quella scena
sia stata realizzata montando insieme tre inquadrature diverse, un uso sapiente
dei materassi e rimediando solo una brutta botta alla nuca per il cascatore. Secondo me Evans
mente nelle interviste e il tipo è morto, più guardo la scena e più me ne convinco.

In questi casi si dice: don’t try this at home.

Ma “The Raid” ha davvero di tutto dentro, le scene di
combattimento sulla breve distanza sono talmente veloci che quando finisci di
guardarle, sei tu spettatore ad avere il fiatone, figuriamoci doverle girare
per davvero. Una delle mie preferite è lo scontro con la banda del Machete nel
corridoio, a tutti gli effetti delle Baseball Furies in versione 2.0, come diventerà ancora più chiaro nel seguito del
film (a breve su queste Bare) con il Machete che viene usato al posto del Karambit,
il coltello da combattimento ufficiale del Pencak Silat, destinato anche lui a
tornare nel secondo capitolo.

Anche le gemelline di Shining hanno paura di incontrare Iko Iko nel corridoio.

Ma se Tama è un Boss finale di incredibile cattiveria, il
suo braccio destro Mad Dog (nome scelto in omaggio ad “Hard Boiled” di John Woo,
tanto per ribadire quanto Evans sia uno di noi) è il più pericoloso bastardo
mai visto. In questo film classico e moderno in parti uguali, Yayan Ruhian è un Al
Leong 2.0, infatti tocca a lui uno dei pochi dialoghi del film, quello che serve
a ribadire il manifesto programmatico di Evans: le pistole per Mad Dog tolgono
l’eccitazione, molto meglio utilizzare i pugni, che in linea di massima lui utilizza alla grande.

Come gli indonesiani interpretano il concetto di Triello.

La “redenzione” aggiunta in corsa come inutile sottotitolo
italiano al film, si consuma in un Triello finale, che non è più quello
Leoniano perché va in scena a colpi di Silat. I due fratelli contro Mad Dog
sono l’apice emotivo di un film che procede a colpi d’azione, uno spettacolo
visivo estremamente coinvolgente che è il punto più alto di questa scalata al
palazzo, infatti il conto aperto con Tama arriva subito dopo il Triello tra Iko
Uwais e Donny Alamsya contro Yayan Ruhian, perché serve a concludere i giochi, tutto
con il minimo sindacale di dialoghi. Tanto basta lo sguardo tra fratelli prima
di separarsi e poi dopo quel combattimento, non bisogna aggiungere altro, anche
il Maestro Bruce Lee sarebbe stato orgoglioso di vedere come Gareth Evans ha
imparato la sua lezione.

Dal 2011 “The Raid” è universalmente riconosciuto come un
classico del cinema, un modello da seguire, perché Gareth Evans, Iko Uwais, Yayan
Ruhian e tutta la banda di ninja senza paura di morire hanno fissato l’asticella
parecchio in alto a colpi di Pencak Silat. Tra sette giorni qui, su questa
Bara, completiamo l’opera con l’ultimo capitolo della trilogia, non provate a
mancare o vi sguinzaglierò dietro Mad Dog.

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