Da bambino ho avuto la fortuna di passare del tempo in Canada, proprio sul confine con Detroit, un’esperienza che per uno cresciuto guardando Robocop definirei formativa. Come ogni bravo bimbo teledipendente (vizio che non ho mai perso) guardavo la tv che, poi, era stessa dei vicini di casa Yankee.
Uno dei programmi che sfracellò il mio cervellino era senza ombra di dubbio “Cops”, un classico del preserale dei palinsesti americani, noi abbiamo “Blob” oppure “Striscia la notizia” (in base ai gusti e all’orientamento politico) loro le grezze registrazioni delle irruzioni in casa degli sbirri, impegnati ad ammanettare dei galantuomini che ogni tanto resistevano all’arresto, spesso scappavano il più delle volte rispondevano a colpi di sonori “BIIIIIIP” a coprire le numerose parolacce che emergevano tra il chiacchiereccio in slang inglese di cui allora capivo poco o niente.
A mente fredda (e adulta), una roba reazionaria da morire, perché i colpevoli erano sempre neri e ispanici dei quartieri poveri che vivevano in catapecchie, non capitava mai di vedere gli sbirri sfondare la porta di qualche cattivo e sbattere faccia a terra qualche riccone incravattato, colpevole di aver rubato miliardi facendo fallire qualche grossa azienda, quello mai. Ma cosa ci volete fare, avevo dieci anni e non potevo resistere ad una roba che iniziava con una sigla cazzuta degli Inner Circle che cantavano: Bad boys, bad boys / Whatcha gonna do / Whatcha gonna do, when they come for you.
Per vedere qualcosa in grado di spaccarmi il cervello come “Cops”, ho dovuto aspettare il 2002 e la serie creata da Shawn Ryan intitolata “The Shield”, un caposaldo della cattiveria televisiva che ha fatto la storia del piccolo schermo e troppo spesso non viene ricordata come merita. Qui da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa, andava in onda in seconda serata su Italia 1 ad un orario che mi tornava comodo, tornavo dall’allenamento di basket giusto in tempo per questa cura di bastardaggine, poi hanno cambiato l’orario e ciao, ho perso quel mastino di Vic Mackey per sempre.
Almeno fino a qualche tempo fa quando con la mia Wing-Woman ci siamo tritati le sette stagioni di “The Shield” nell’ordine giusto, facendo la solita scoperta: avevo visto molti meno degli 88 episodi che compongono le sette stagioni della serie, ma quelli più bastardi sì, tipo il caso dello stupratore che costringe le sue vittime a telefonare ai compagni durante la violenza, tutta roba che non manca a questa serie che non avrà gli Inner Circle, ma si difende benissimo con una sigla che per me urlerà sempre fortissimo una parola che suona tipo «PARMIGIANA!» quando attacca la tostissima “Just Another Day” di Vivian Romero.
“The Shield” è il serial poliziesco che insieme al “cugino” e coetaneo – quel capolavoro di “The Wire” di cui prima o poi dovrò decidermi a commentare come merita – ha cambiato per sempre le serie poliziesche del piccolo schermo, spostando un po’ avanti il limite della cattiveria sul piccolo schermo, se oggi viviamo nell’età dell’oro della serie tv, un po’ lo dobbiamo anche alla squadra d’assalto di Vic Mackey.
L’ispirazione a Shawn Ryan arriva dal brutale pestaggio di Rodney King, ma soprattutto dallo scandalo Rampart, un grave caso di corruzione interno alla polizia di Los Angeles che ha preso il nome dal quartiere del famigerato distretto. La serie, brutta sporca e cattiva, era proprio quello che il canale FX stava cercando per fare il botto, nato come il contenitore delle repliche dei prodotti targati 20th Century Fox (immaginatevi il nostro Cielo rispetto a Sky), il canale gratuito voleva qualcosa di forte per rilanciarsi, complice anche un’arrogantissima frase di lancio: «Come l’HBO, ma gratis». Il successo di “The Shield” ha generato la serie stretta partente “Sons of anarchy” e ancora oggi sforna le varie American Horror Story, quindi tutto sommato la strategia ha pagato i suoi dividendi.
“The Shield” è ambientata del distretto di Farmington e segue le vicende di quattro detective una “Strike team”, la squadra d’assalto assemblea per rispondere con forza alla criminalità Los Angelina, una gang di sbirri con carta (quasi) bianca per portare a casa arresti e risultati con ogni modo possibile, uno scudo dato dal distintivo (così abbiamo anche spiegato il titolo) che Vic Mackey non si farà nessun problema ad usare, anzi abusare.
La squadra d’assalto è composta dal fedelissimo Ronnie Gardocki (David Rees Snell) di fatto quello con i baffi del gruppo (finché non li taglierà perdendo anche la sua ultima caratteristica chiave), ma anche da Curtis “Lem” Lemansky (Kenny Johnson) grande e grosso, ma l’anima candida del gruppo, quello che più di tutti soffre delle malefatte eseguite il più delle volte a fin di bene del gruppo. Una menzione speciale la merita Shane Vendrell, interpretato dai denti e la faccia da folle di Walton Goggins, semplicemente il più grande attore mai emerso da una serie televisiva, partito da qui per conquistare il mondo.
Shane è l’altra personalità forte del gruppo, finché tutto fila liscio, il compare perfetto per Vic Mackey, ma quando la cacca arriverà a colpire il ventilatore (come direbbero gli Americani, ma usando un’altra parola) sarà il loro scontro degno di Caino e Abele a tenere banco e a dare una direzione forte alla serie.
Di poliziotti ruvidi in tv ne abbiamo visti tanti, a partire dalla combinazione cravatta su camiciotto a maniche corte di Andy Sipowicz di “NYPD Blue”. Con la differenza che il personaggio interpretato da Dennis Franz poteva risultare rozzo, ma sempre ligio nel far rispettare la legge, Vic Mackey, invece, ha alzato l’asticella diventando un personaggio mitico, ma ancora più controverso e per questo interessante.
Lui è il “frontman” della squadra d’assalto e di conseguenza della serie, un uomo con un fortissimo senso della famiglia (che sia quella biologica oppure quella lavorativa), per lui i componenti della squadra d’assalto sono fratelli al fronte, più forte della sua fedeltà alle famiglie che si è costruito, solo la sua volontà di giustizia ed occhio, non ho detto legge, perché per Vic conta solo “giusto” e “sbagliato” la legge che sta nel mezzo e che dovrebbe garantire la differenza, per lui è spesso raggirabile, il fine giustifica i mezzi, almeno fino a quando smette di farlo.
La bellezza di “The Shield” è tutta qui, la compattezza con cui per sette stagioni non ha mai mollato un colpo, senza mai fare un passo indietro proprio come il suo protagonista (e se avete in testa il finale di stagione e la scena finale, sapete di che parlo). “The Wire” ad ogni stagione cambiava punto di vista e ambientazione restando fedele a se stessa, “The Shield”, invece, ha fatto il percorso opposto tenendo tutti uniti negli intenti come Vic Mackey provava a tenere insieme le sue famiglie.
I suoi intenti questa serie li ha sparati dritti in faccia al pubblico a partire dal pilot della serie, quando David Aceveda (Benito Martinez) tenta di infiltrare uno dei suoi nella squadra d’assalto per smascherare le attività illecite di Vic, lui lo uccide senza pietà facendo passare il tutto come un’irruzione finita male, perché fin dal primo episodio dev’essere chiaro che lui è fatto di un’altra pasta, per citare le sue parole: «Il poliziotto buono e quello cattivo non ci sono oggi, io sono un tipo di poliziotto diverso».
Attraverso un loschissimo sistema di favori, di soldi portati via agli spacciatori e riciclati in buona parte per essere usati proprio contro le gang, dalla loro “tana” la squadra d’assalto è un club a cui non si accede, in cui tutto viene gestito come al fronte e, per certi versi, il distretto di Farmington proprio questo sembra: un fortino di frontiera ricavato da una vecchia chiesa sconsacrata.
Il fatto che al figlio di Vic venga diagnosticato l’autismo potrebbe sembrare una piccola giustificazione alle sue azioni, un po’ come Walter White all’inizio di Breaking Bad mette via soldi per pagare le costose cure mediche, ma se per il professore di chimica era più che altro una scusa per giustificare il suo ego, Vic ci crede davvero ed è monolitico nel perseguire i criminali e i suoi fini personali, capite da voi che un personaggio così, senza l’attore giusto avrebbe fatto crollare tutta la struttura della serie. Per fortuna, Shawn Ryan ha potuto contare su Michael Chiklis, uno che per un po’ dopo la fine di questa serie, sembrava destinato ad un luminoso futuro, invece, se va bene, lo ritroviamo a capo di un’altra squadra d’assalto in qualche episodio di Gotham, la maledizione degli attori legati per sempre ad un ruolo.
Pensare che Ryan non lo voleva nemmeno Michael Chiklis per questa parte… Sì, perché l’attore era famoso per uno sbirro televisivo molto diverso da Vic Mackey, il bonario commissario Scali dell’omonima serie. Ma pur di avere il ruolo Chiklis si rasò a zero quei quattro peli che aveva sulla testa e dopo aver perso venti chili, era pronto per la parte.
L’arroganza spavalda del personaggio sta tutta nel modo in cui Michael Chiklis per sette stagioni va in giro con la giacca di pelle nel caldo di Los Angeles, armato di magliette aderenti a sfoggiare un fisico che non ha, un bulldog incazzato che si è scolpito a forza un ruolo tra i più grandi antieroi del piccolo schermo. Un “Cattivo tenente” in grado di conquistarsi i favori del pubblico, per la sua capacità di uscire sempre da tutte le situazioni spinose, mosso da un senso di giustizia e fedeltà tutto suo.
Paradossalmente impossibile da odiare, malgrado i modi deprecabili, un dettaglio che è diventato chiarissimo nella quinta stagione, quando ad indagare su di lui arriverà uno sbirro ligio al dovere e incorruttibile, interpretato da Forest Whitaker, che non solo non riuscirà a giocare allo stesso gioco (sporco) di Vic, ma nel giro di due episodi riesce a guadagnarsi tutto l’odio del pubblico, pur essendo il buono della situazione. Capite che tutto questo non aiuta uno come me, con un’insana passione per i cattivi dell’immaginario.
“The Shield” è stata innovativa sotto molti punti di vista, la regia con macchina da presa ballerina, una regia quasi in stile “Guerrilla” per sottolineare il realismo degli eventi che andava mano nella mano con la violenza dei contenuti e i dialoghi farciti di parolacce. Un attacco frontale ai serial polizieschi anche nella struttura che rinuncia quasi completamente al “caso della settimana” da risolvere, in favore di una trama orizzontale più lunga in cui sono i personaggi e i loro archi narrativi a restare maggiormente impressi.
Ci sono un’infinità di serie in cui i personaggio di contorno vengono dimenticati, mentre in “The Shield” anche quelli secondari sono così curati da restare impressi a fuoco nella mente dello spettatore, la coppia di detective Holland “Dutch” Wagenbach (Jay Karnes) e Claudette Wyms (CCH Pounder) altrove sarebbero stati i protagonisti di una serie tutta loro.
Ma anche il bastardissimo David Aceveda (Benito Martinez) con le sue ambizioni politiche diventa un personaggio incredibile, di fatto è il perfetto opposto di Vic Mackey nell’abbigliamento e nei modi. Se Vic si destreggia tra spacciatori, prostitute e membri delle gang, Aceveda fa lo stesso tra politici e ali papaveri, uno sbirro ligio al dovere che finirà trascinato a fondo anche lui nel modo peggiore, non voglio rovinare la visione a nessuno, ma nella bellissima terza stagione, l’episodio cinque (3×05 – “Mum”) resterà per sempre uno dei più tosti colpi di scena mai visti sul piccolo schermo, una roba per stomaci forti degna dei momenti più cattivi di Oz.
Eppure, ogni personaggio è curato alla grande, “The Shield” resta un corpo unico scritto molto bene, in grado di tenere il pubblico incollato fino alla fine, più Vic e la squadra d’assalto si affannano a nascondere i loro loschi traffici sotto il tappeto, più quelli torneranno a tormentarli, costringendoli a spingersi sempre più oltre i loro limiti – e i limiti della legge – per non perdere tutto. La trama del “treno dei soldi” degli Armeni che caratterizza la seconda stagione, diventa di fatto la colonna vertebrale su cui si regge tutta la serie ed è grazie ad evoluzione logiche, sensate, ben scritte e ben recitate dei personaggio, che “The Shield” procede monolitica fino al suo avvincente finale, lasciando per strada morti anche illustri, ma sempre con Vic Mackey che come un mastino, non molla mai l’osso su quello che per lui conta davvero: legge, famiglia e compagni.
Proprio l’eterna spada di Damocle, sempre sospesa sulle teste dei protagonisti è un elemento chiave della serie, da spettatori lo sappiamo che le loro malefatte (a fin di bene quanto volete, ma sempre criminali) non sono destinate a durare, le parole di Shane Vendrell nella prima stagione suonano come una campana a morto per i protagonisti («Siamo dinosauri Vic e puoi scommetterci, il meteorite sta per arrivare»), se la serie dura sette stagioni è sicuramente per la qualità degli episodi, ma a volte sembra che possa eccedere, solo grazie alla capacità di cadere sempre in piedi e alla forza di volontà di quel mastino di Vic Mackey.
Tra le influenze a lungo termine al mondo delle serie televisive, aggiungente anche l’arrivo nella quarta stagione della nuova “capitana” Monica Rawling interpretata da Glenn Close. Oggi è normale vedere grandi attori lavorare sul piccolo schermo, nei primi anni 2000 lo era un po’ meno, una tendenza che questa serie ha contribuito ad invertire e se chiedete a me, la Rawling resta uno dei migliori personaggi mai interpretati da Glenn Close nella sua carriera.
Un contributo fondamentale arriva anche da molti degli sceneggiatori che ci hanno lavorato, Glen Mazzara prima di ereditare i Camminamorti da Frank Darabont – che qui dirige anche un episodio (6×06 – “Exiled”) – si è fatto le ossa qui, così come Kurt Sutter, il papà di “Sons of Anarchy” che, oltre a scrivere parecchi episodi, si è ritagliato un ruolo da attore, nei panni di un pazzoide, figurati con quella faccia chi poteva interpretare? Lo scienziato?
Insomma: “The Shield” è un caposaldo del piccolo schermo, ricordato troppo poco e forse non come meriterebbe davvero, se la conoscete molto probabilmente ne andate pazzi, per tutti gli altri, sapete cosa fare.
Sepolto in precedenza lunedì 2 dicembre 2019
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