Ci sono punti fermi, nella vita e su questa Bara, ad esempio uno di questi punti lo trovate sul calendario, il 18 dicembre di festeggia il compleanno di uno degli eroi di questo feretro svolazzante, per fare gli auguri a Steven Spielberg la scelta è stata automatica, un suo film che quest’anno compie vent’anni e che era volutamente fuori tempo alla sua uscita ma anche lucidissimo nel fotografare l’anno 2024 e vent’anni dopo… beh uguale, diavolo di uno Spielberg!
Iniziamo subito con la questione, anzi LA QUESTIONE, perché “The Terminal” vive e muore sullo spielbergometro, non so se lo ricordate è lo strumento ufficiale della Bara per misurare il vostro tasso di Spielberg nel sangue. La prendo ancora più alla lontana, fate un viaggetto nel cervello maschile: esiste quel preciso momento in cui per crescere, un bambino deve “uccidere” metaforicamente il padre per diventare a sua volta adulto, quel momento si chiama adolescenza, quando metti da parte – tra le altre cose – i film con sui sei cresciuto e ti auto dirotti verso altre visioni, salvo poi tornare come nella vita, al tuo vecchio padre, che in questa metafora è Spielberg, padre nobile di tutto il cinema con cui siamo cresciuti, ed intendo due, forse tre generazioni di appassionati.
Di solito chi nega tutto questo è anche quella tipologia di cinefilo dalla posa ultra cinica, ultra scazzata, che schifa tutto a partire proprio da Spielberg, bollato come caramelloso perché bisogna bollare tutto il più velocemente possibile per passare ad altro. A torto? A ragione? Come al solito la verità sta spesso nel mezzo, perché se dobbiamo mettere in moto lo schiacciasassi allora “The Terminal” è caramelloso dalla A alla Z (o alla “L” finale”) e ciaione, ma siccome siamo sulla Bara… Argomentiamo!
Dopo il suo grande film sullo sguardo, che per certi versi ha qualcosa in comune con “The Terminal” oltre alla filmografia di appartenenza (più avanti ci torneremo) ovvero Minority Report, Spielberg ha sfornato un altro film sottovalutato e storicamente etichettato come caramelloso, voi avete visto di recente “Prova a prendermi” (2002)? Io sì e non è caramelloso per nulla, apparentemente solare forse, ma è con il successivo “The Terminal” che il regista di Cincinnati ha approfondito un tema a lui caro trasformandolo in una specie di ideale trilogia sugli Stati Uniti post undici settembre, perché il successivo “La guerra dei mondi” e ancora di più Munich di questo parlano, solo che il titolo di oggi è anche un sentito e piuttosto palese omaggio al cinema di Frank Capra, firmato dall’unico regista probabilmente vivente con il pedigree all’altezza per farlo. Ok, sarà anche un cortocircuito tra la sua testardaggine, la scena bellissima con il suo quasi connazionale e l’acronimo tanto caro agli Yankee G.O.A.T. (perfettamente attribuibile a Spielberg) ma il protagonista Viktor Navorski viene ribattezzato la Capra, cioè, più esplicito di così.
Il soggetto firmato da Andrew Niccol e Sacha Gervasi, adattato in una sceneggiatura dallo stesso Gervasi e Nathanson è liberamente ispirato alla storia (vera) del rifugiato iraniano Mehran Karimi Nasseri, atterrato all’Aeroporto Charles de Gaulle di Parigi nel 1988, che dopo essersi visto rifiutare il visto di ingresso a seguito del furto del passaporto ha vissuto come apolide nel terminal uno della capitale francese sino all’agosto 2006. Un soggetto che in mani differenti sarebbe stata una biografia quella sì davvero caramellosa e ricattatoria nelle sue lacrime facili e che Spielberg trasforma, non solo in una porzione coerentissima della sua filmografia, ma anche in un inno all’adattabilità umana, alla resistenza e alla capacità di non perdersi d’animo, vent’anni fa non avevamo il problema della proliferazione dell’aggettivo resiliente, però avevamo già “The Terminal” di Spielberg.
A mettere un bel bersaglio sul film la scelta di Tom Hanks che in un film del “Senor Spielbergo” fa subito pensare alla loro – giustamente – amatissima collaborazione precedente ovvero “Salvate il soldato Ryan” (1998), però beccami gallina se Tommaso Matasse non è quello giusto per la parte, se il modello per il regista è una moderna interpretazione di un film di Frank Capra, non poteva non esserci il Jimmy Stewart di quel periodo cinematografico. Per Viktor Navorski, il nuovo personaggio ordinario in condizioni straordinarie di Spielberg, il nostro Hanks si inventa una camminata a ginocchia piegate che lo fa sembrare una sorta di Charlot, anzi Charlie Chaplin viene citato apertamente nella scena in cui il nostro abitante di Krakozhia cerca di sdraiarsi sulle scomode sedie per farsi una dormita.
La stessa immaginaria Krakozhia, piazzata tra l’ex Repubblica Federata Sovietica o un Paese dell’ex Blocco orientale (ma con inno nazionale composto da John Williams, mica pizza e fichi!) potrebbe ricordare le marveliane Symkaria o Latveria, ma più che altro ha dei precedenti nei film dei fratelli Marx, considerando anche il tipo di umorismo, molto fisico specialmente nella prima parte del film (il tempo di imparare la lingua) anche se in generale Spielberg trova elementi di continuità con il suo cinema un po’ ovunque in “The Terminal”.
Senza scomodare titoli enormi, l’aeroporto diventa un altro parco chiuso, in cui si muove un alieno che come diventerà lampante del finale (si, quello caramelloso per i più) vorrebbe solo tornare a casa. Nulla mi toglie dalla testa poi che dal lato produttivo, Spielberg abbia trovato una soluzione brillante, vi ero debitore di un’ideale icona lasciata aperta, la chiudo subito ricordandovi la fuga di Tom Cruise tra i cartelloni pubblicizzati in Minority Report, qui il regista ha trovato il modo di riempire il film di sponsor (paganti) che sono la perfetta e logica scenografia di un film ambientato in aeroporto, alla faccia di chi piange perché vede caramello product placement marchette ovunque, sapete, i film devono fare anche soldi, altrimenti, ciccia! Come dicono a Krakozhia.
Alla faccia di chi ha bollato tutto come caramelloso passando ad altro, “The Terminal” parla, più che di un apolide che vorrebbe tornare a casa, dell’America post undici settembre. Dove abbiamo visto i primi concreti effetti sulle nostre vite dopo quel brutto giorno? Negli aeroporti, non è più stato possibile salire su un aereo come il protagonista di un episodio di Ai confini della realtà (qui citato), per via di body scan e controlli pre imbarco. Mentre in quegli stessi anni, tutto il cinema americano stava ancora elaborando quello che era successo, Spielberg ci parla di un Paese di immigrati colpito in mezzo agli occhi dal “Patriot act” bushiano e quindi chiuso, l’America è chiusa, dice l’inflessibile responsabile della sicurezza Frank Dixon, impersonato da uno Stanley Tucci in gran forma, perché con un burocrate tanto insopportabile, farsi odiare dal pubblico già non è semplice, ma farlo senza mai scadere nella macchietta con risata diabolica è il vero talento.
Dixon è il perfetto rappresentante dell’America del sogno sì, ma non proprio per tutti, diciamo per quelli che decidiamo noi e ditemi se oggi, 18 dicembre 2024 (compleanno di Spielberg) la questione non è ancora calda e non lo sarà ancora per, beh almeno i prossimi quattro anni fino a novembre, poi vediamo. Ma ad Ovest di tutti questi discorsi tematici e interni alla filmografia di appartenenza, poi ci sta il film che oh, se vi sta sul cazzo il caramello e vedete solo quella, la porta è quella, ma per gli intenti che si pone, li manda a segno tutti alla grande.
Sarà che io quando devo partire penso a tutti i possibili scenari mille volte, ma è impossibile non percepire il panico vero di Viktor Navorski quando straniero in terra straniera, borbotta solo «Krakozhia» e «Prego prego», quando barricandosi dietro alla cortesia come ultimo baluardo vorrebbe solo che qualcuno alzasse il volume della tv per ascoltare un tg che comunque, non capirebbe, anche se gli è già ben chiaro che la sua vita da apolide è cominciata. Tutto questo arriva alla grande grazie alla prova comica ma con grazia di Tom Hanks, anche lui in gara da equilibrista (per sbagliare un ruolo così, basta un attimo) e ovviamente a Spielberg, che allarga l’inquadratura all’infinito mettendo in chiaro come si possa essere soli e totalmente spersi, anche nel popolato caos di un aeroporto internazionale.
Superato lo sconforto iniziale, Viktor Navorski si guadagna il suo soprannome “la capra” con la gentile caparbietà che lo contraddistingue, a colpi di «Io aspetto» attore e regista combinano per questo inno alla caparbietà e alla capacità di non farsi soffocare dalle situazioni, anche le peggiori. Di mio non guardo moltissime commedie romantiche, se trovate caramelloso il personaggio dell’assistente di volo con nome da prima pilota donna, Amelia Warren, impersonata da Catherine Zeta-Jones, ribadisco, sono anche un po’ affari vostri, di solito preferisco gustarmi la lunga commedia degli equivoci che Spielberg mette su, che alla fine è un lungo corteggiamento deciso solo dalle proiezioni di prova del film, quella che hanno fatto ritardare l’inizio delle riprese dei titoli successivi di Spielberg, perché il primo finale (tutti insieme appassionatamente a New York) non piaceva, storia vera.
Di mio devo dire che ho gradito l’idea di non far terminare “The Terminal” (ah-ah), con la soluzione facile, Viktor la capra che esce dall’Aeroporto, John Williams, titoli di coda fine. Mi piace il fatto che quella del protagonista sia una sorta di missione primaria, rallentata da un lungo intoppo burocratico, un tipo di missione molto americana, perché ci sono pochi generi musicali più a stelle e strisce del Jazz (così ho detto tutto senza dire niente), mettendo in chiaro che quel tipo di americanità che Spielberg promuove, possa scaldare i cuori anche in luoghi remoti del pianeta tipo beh, Krakozhia.
Non è un caso che a fare amicizia con Viktor sia, non una pilota di linea ma una che ci ha fatto il callo a farsi palpeggiare a ventimila piedi d’altezza, per di più “latina”, a cui si aggiunge un altro “latino” come Diego Luna e un immigrato con un passato da tenere nascosto che troverà ispirazione in Viktor, insomma tutta quella porzione di popolazione che qualcuno vorrebbe chiudere dietro ad un muro o più in generale, dire loro «l’America è chiusa» quando è chiaro che in un Paese di emigranti, siano Yankee tanto quanto gli altri, ma ora, a mia volta ho una sottomissione da completare che mi sta molto a cuore.
Se Diego Luna nel 2004 si era visto ancora poco nel cinema americano, una che ancora era una faccia di contorno e non ancora una protagonista, era sicuramente Zoe Saldana, Spielberg affidandole il ruolo di miss timbro verde, l’agente Dolores Torres, le ha regalato una delle sue prime apparizioni di rilievo in carriera, ma più che i timbri, cosa ricordate del personaggio di Dolores Torres? Ve lo dico io, a caccia di informazioni su di lei Viktor scopre che l’agente è una Trekker, non a caso la scena madre del personaggio è l’anello sfoggiato su dita impegnate a fare il saluto Vulcaniano. Avete capito dove voglio andare a parere? Sono certo di sì, ma lasciatemi essere più chiaro.
Quale ruolo ha trasformato Zoe Saldana in un’attrice famosa? Nyota Uhura nello Star Trek del maledetto GIEI GIEI… Avete capito da dove l’ha presa l’idea? Anche questo hai rubato a Spielberg! Anche questa GIEI GIEI, sei senza vergogna!
Sarà anche vero che “The Terminal” avrebbe potuto optare per la soluzione facile e concludersi con Viktor fuori, sul marciapiede americano, anche perché Spielberg quando il protagonista resta bloccato, ma al contrario, per l’emozione e il sollievo, lo inquadra con la stessa inquadratura che si allarga utilizzata per il suo massimo momento di sconforto, che qui assume tutta un’altra valenza, dando un senso di circolarità al film (d’altra parte, gli aeroporti sono tutti arrivi e partenze) facendomi esclamare: «Minchia Spielberg che bravo che sei!» e se ve lo state chiedendo sì, è una tipica espressione della Krakozhia.
Ben felice di aver rispettato il compleanno anche quest’anno e di averlo fatto con un titolo che è ancora più attuale oggi, a vent’anni dalla sua uscita… auguri Steven!
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