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The Truman Show (1998): in diretta da vent’anni

A memoria mia, ricordo davvero pochi film capaci di colpire l’immaginario collettivo come ha fatto “The Truman Show” alla sua uscita ormai vent’anni fa. Vent’anni fa!? Cavolo mi sembra martedì scorso… Ehi gente, ma cosa sta succedendo al tempo?

Ricordo davvero come se fosse ieri l’uscita di questo film, penso siano andati a vederlo tutte le persone che conoscevo allora, anche perché complice la pubblicità e il riscontro mediatico, era impossibile non averne sentito parlare. Ci sono film capaci di anticipare il futuro, ma la differenza con il film di Peter Weir, regista che apprezzo molto e che con questo titolo ha forse firmato il suo lavoro più noto al grande pubblico, stava proprio nella consapevolezza di essere davanti a qualcosa di diverso, andare a vedere “The Truman Show” voleva dire poter dare una sbirciata al futuro, ed una delle cose che il film ci ha insegnato è che in fondo siamo tutti piccoli voyeur.

Ma fosse stato solo quello! La bellezza e la forza del film di Weir è rimasta invariata anche oggi che siamo qui a festeggiare i suoi primi vent’anni, “The Truman Show” resta una pellicola che funziona su più livelli, un lucido sguardo sul rapporto che avremmo avuto con la tecnologia tra qualche martedì nel futuro (nello specifico oggi), utilizzando il cinema come stele di rosetta, perché dentro a “The Truman Show” troviamo in parti uguali fantascienza, commedia e dramma, tutti al servizio di una riflessione mai banale sulla libertà. Non so voi, ma io sono piuttosto certo che anche tra molti altri martedì questo film sarà ancora un Classido!

Andrew Niccol ha sempre bazzicato la fantascienza fin dal suo esordio nel 1997 con “Gattaca – La porta dell’universo”, ma, come canta Caparezza, il secondo album è sempre il più difficile, nella carriera di un artista, quindi figuriamoci una sceneggiatura! Per quella di “The Truman Show” Niccol passa attraverso un profondo periodo di crisi personale e si dice, dodici riscritture, il risultato finale è oscuro, tormentato, ma buono come pane e marmellata. Lo capisce al volo anche la Paramount Pictures che da queste pagine si dice vagamente ispirate ad un episodio della serie “Ai confini della realtà”, anche se non so quale, perché tutte le fonti riportano questa informazione, ma nessuna il titolo dell’episodio (realtà e percezione della realtà, stiamo viaggiando in un’altra dimensione…), è possibile tirare fuori un grande film. Il budget viene fissato su sessanti milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde, ma per la regia ci vuole qualcuno con più esperienza di Niccol e da qui parte un elenco di nomi ben più lungo delle pagine gialle di Seahaven.

Tim Burton, Terry Gilliam (che per tematiche di base sarebbe stato il più quotato), Steven Spielberg, ma quello che ci va più vicino è Brian De Palma, almeno prima di mollare il colpo per precedenti impegni (storia vera) lasciando così campo libero a Peter Weir. Da qui in poi, la sceneggiatura di Niccol diventa il parco giochi del grande regista australiano che sbaraglia la concorrenza perché di questa storia lui aveva già capito tutto e di tutte le brillanti intuizioni che potete ancora trovare sparse nel film oggi, la più brillante di tutte è la più difficile da prendere: il protagonista non può che essere Jim Carrey.

«Dai! Bravo bella battuta! No sul serio, chi sarà il protagonista?»

No, aspetta, come Jim Carrey, ma Jim Carrey il comico? No, Peter bello senti ragiona, puoi avere chi vuoi perché quello? Ma Robin Williams non ti piace? Lo hai già diretto in “L’attimo fuggente” (1989) perché proprio Jim Carrey? Bisogna anche capirli quelli della Paramount, il Jim Carrey del 1998 era la faccia di gomma dal corpo dinoccolato da cartone animato di “Ace Ventura” e “The Mask” e “Scemo & più scemo” (1994), quello che per fare questo film ha lasciato in sospeso tutta la produzione, perché prima dovevano completare due film dimenticabili come “Il rompiscatole (The Cable Guy, 1996) e “Bugiardo bugiardo” (1997). Ma Peter Weir non ha dubbi, per un film basato sull’adozione di un personaggio pubblico da parte della spettatori, ci vuole qualcuno che sia ben oltre il concetto di essere famoso e poi per sua stessa ammissione Peter Weir, guardando “Ace ventura” nella prova di Carrey vedeva qualcosa di malinconico alla Charlie Chaplin. Ora, non so voi, ma io credo di aver visto “Ace Ventura” un numero di volte superiore alla legalità ed ogni volta tenendomi la pancia dal ridere, ma senza vederci mai la malinconia e questo spiega perché io sto qui a scrivere di Peter Weir e non lui di me, anche se avrebbe ben poco da scrivere: Cassidy, uno che ride guardando “Ace Ventura” anche se lo sa a memoria. Fine.

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Ormai lo sanno pure i muri: sono quelli che determinano tutto l’andamento della pellicola. E Peter Weir dal primo secondo del film mette subito in chiaro i ruoli separando il suo protagonista dal pubblico che segue il “The Truman Show”, nel caso specifico anche noi, perché i titoli di testa che aprono la pellicola, ad un’occhiata distratta potrebbero sembrare quelli del film, ma in realtà sono proprio quelli del programma che da trent’anni trasmette la vita di Truman Burbank in diretta sugli schermi di tutto il mondo. Fateci caso Laura Linney viene presentata come Hanna Gill un’attrice che nel programma interpreta Meryl Burbank, la moglie del protagonista, il gioco quasi meta cinematografico tra realtà e percezione della realtà messo su da Weir inizia subito, pronti via.

«Cos’è quello Peter?». «Il tuo assegno, ha così tanti zeri che nemmeno riesco a leggerla questa cifra!»

Anzi, nelle intenzioni originali di Weir, la componente meta cinematografica avrebbe dovuto essere anche maggiore di così, per più di un minuto il regista australiano ha accarezzato l’idea di interpretare lui stesso la parte di Christof e di fermare il film con la sua entrata in scena (storia vera), una roba alla Jodorowsky in “La Montagna sacra” (1973) per capirci che, per fortuna, non ha portato a termine, perché la versione finale del film è semplicemente perfetta, così come la prova di Ed Harris sotto il basco di Christof, personaggio per cui il concetto di nomen omen vale doppio, ma a ben guardare, i nomi in “The Truman Show” sono davvero rivelatori.

Sul nome Christof mi pare non sia necessario ricamarci troppo, si spiega da solo, più interessante è notare come Peter Weir costruisca attorno al suo personaggio una finzione totalmente cinematografica che va dai nomi delle strade che riprendono quelle degli attori (tipo Barrymore avenue e Lancaster Square), ma in cui anche il cast di supporto della vita del suo protagonista suona fittizia, la moglie Meryl (come Streep), l’amico Marlon (come Brando), ma il capolavoro è Seahaven, un posto che sembra uscito da un dipinto di Norman Rockwell, una cittadina idealizzata, contemporanea, ma anni ’50 nello spirito, una bellissima gabbia dorata il cui motto è “UNUS PRO OMNIBUS, OMNES PRO UNO”, ovvero “Uno per tutti, tutti per uno”. Satirico se ci pensate, ma anche una dichiarazione d’intenti del luogo e con tutto che dovrebbe farmi pensare ai moschettieri di Dumas, d’istinto mi ricorda il ben più oscuro “Il lavoro rende liberi”, brrrr.

«Ed ora, primo piano su Cassidy, sta per citare una delle mie frasi»

Ma il nome più azzeccato di tutti, ovviamente, lo ha il protagonista, per citare le parole di Christof, quello che quando viene chiamato a presentarsi si autodefinisce come il creatore… (Pausa scenica ovviamente voluta) di uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone, in cui anche se per certi versi tutto è falso e simulato, non troverete nulla in Truman che non sia veritiero. Non c’è copione, non esistono gobbi. Non sarà Shakespeare, ma è autentico. È la sua vita.

Proprio per questo si chiama Truman, scritto come il presidente americano quello che ha dato l’ordine di sganciare LA bomba per mettere fine ai morti, quindi diciamo pure controverso, ma che suona come “True Man”, l’unico davvero reale in un mondo di totale finzione cinematografica.

Mancano solo le risate registrate, poi sembra una sit-com degli anni ’50.

La crisi di mezza età di Truman funziona ancora oggi perché fa leva sui dubbi morali che prima o poi nella vita arriviamo a farci tutti: É tutto qui? Ci alziamo la mattina, ci laviamo i denti, la faccia, facciamo la cacca andiamo a lavorare, se ci va bene troviamo qualcuno che ci ama la sera quando torniamo a casa e via così un giorno dopo l’altro, in una routine comoda e sicura come un palinsesto televisivo di prima serata? Non trovo ci sia nulla di male nella routine, ma “The Truman Show” è un inno alla libertà che funziona su più livelli perché ha nel suo DNA tracce di fantascienza classica, quella distopica e fantapolitica degli anni ’60 e ’70, ma anche se in dosi molto leggere e solo accennate, è impossibile non notare che era prossimo ai trenta anche Logan, prima di fuggire e da un’isoletta con tanti guardiani cercava di scappare anche il Prigioniero di Patrick McGoohan nell’omonima serie televisiva inglese.

In un’opera di fantascienza, la costruzione del mondo e delle sue regole è fondamentale, in “The Truman Show”, l’enorme studio televisivo dove va in scena la vita di Truman ogni giorno da trent’anni è un ecosistema più che mai chiuso, in cui tutto è pensato per alimentare se stesso, se si stacca una luce di scena, partono subito una serie di “Fake News” a parlare di un fantomatico aereo che ha perso dei pezzi in volo, in cui tutta la trama non è altro che una serie di traumi provocati al protagonista, pur di tenerlo sulla terra ferma (la morte del padre in mare aperto) e per sconsigliargli più o meno velatamente a viaggiare (i giornali che titolano “Who need Europe?”, oppure i poster demotivazionali nell’agenzia di viaggi).

Bisogna dirlo, sanno come mettere a suo agio il viaggiatore.

La cura dei dettagli che Peter Weir mette nel suo film è impressionante, vi invito a notare quante volte facciamo la comparsata i flaconi di vitamina D nel film, sono in bella mostra sugli scaffali e si trovano anche nella cucina di casa Truman, fondamentali per far fronte all’assenza di “veri” raggi solari, ma la cura del dettaglio è anche cinematografica: Weir ha scelto il formato di pellicola più simile a quello televisivo possibile e personalmente trovo brillante l’utilizzo degli sponsor nel film. Ogni personaggio pare associato ad un marchio in particolare, ad esempio, a me fa morire il modo in cui Marlon (Noah Emmerich) entri ogni volta in scena, tenendo la birra all’altezza del viso e con l’etichetta sempre in direzione dell’inquadratura.

Hei Marlon! Voglio la mia parte, questa è pubblicità occulta!

La distanza tra gli spettatori (sì, anche noi, non facciamo che mi lasciate solo) e Truman è sottolineata dalle inquadrature ardite che Weir s’inventa ogni volta, quasi ogni scena sembra rubata da una telecamera nascosta, la mia preferita è quella dall’interno del distributore di bevande, un regista di minor talento, con una storia già così efficace nel pizzicare le corde del pubblico, forse si sarebbe semplicemente affidato ad essa per portare a casa i “Bravò! Bravò!”, Weir, invece, ha davvero fatto sua la materia, se dopo vent’anni questo è ancora un capolavoro, ci sarà pur un motivo, no?

Weir ha un tale livello di controllo sulla storia, da mettere in scena un’intuizione che non esisto a definire geniale, perché magari è pure vero che la fantascienza degli anni ’70 piace a pochi, ma le commedie piacciono a tutti ed è qui che Weir mena il suo colpo più duro. “The Truman Show” è tutto girato come una solare commedia, anche se ha la tristezza dentro il cuore, una cosina che fa sorridere se non proprio ridere quando la guardi, ma mette malinconia se ti fermi a ragionarci su.

Se mi guardo nello specchio con il tempo che e’ passato (Cit. scusate non ho resistito!)

Con il passare dei minuti Peter Weir sposta lentamente il baricentro del film in direzione del protagonista, rendendo sempre più sottile la distanza tra noi (si, ho tirato dentro pure voi) e Truman, malgrado abbia una bella moglie, degli amici un lavoro e quasi tutto quello che si potrebbe sperare dalla vita, Truman è inquieto, sorride, ma è triste, fantastica davanti allo specchio la mattina di essere l’imperatore di un pianeta (scena improvvisata da Jim Carrey disegnando con il sapone sul vetro, storia vera) senza sapere di esserlo davvero, visto che là fuori tutto il mondo ha spiato la sua vita dal momento della sua nascita, fino alla cotta con Lauren o Sylvia non è ben chiaro (una Natascha McElhone a cui basta recitare sbattendo le ciglia per essere perfetta), una ragazza da cercare in ogni foto sui giornali e da raggiungere, in un posto che, non a caso, è proprio dall’altra parte del mondo come le Fiji, per voi e per me (sì, continuo a tirarvi dentro), ma per Truman è più lontano di Marte visto che dal suo set televisivo fatto a forma di cittadina non uscirà mai, almeno finché farà ascolti.

Ferma così, ferma così, sbatti le ciglia… Perfetta! Passiamo alla prossima scena.

“The Truman Show” ci parla del dubbio ancestrale che serpeggia sul fondo della mente di tutti noi (l’avete capito che questo post è una roba di gruppo, o no?) lo scontro tra la realtà che fa a cazzotti con la percezione della realtà, ma tutto senza sbatterlo in faccia allo spettatore con paroloni e l’aria di chi ha più puzza sotto il naso di tutti, ma al massimo, con un tono agrodolce da commedia malinconica, portando in scena il mito della caverna di Platone, una domanda, se vogliamo pure un po’ scomoda da porsi che, però, da sempre solletica le menti più vivaci, quelle che a non stare in movimento proprio non ci riescono. Ma il primato di “The Truman Show” è anche quello di aver usato il cinema per mettere in dubbio la realtà prima di altri, solo un anno dopo è arrivato lo scarso “Ed TV” (1999) e il ben più riuscito Matrix, titolo con dentro decisamente più fantascienza di questo film, ma che con le sue pillole rosse e pillole blu (no, non quelle pillole blu!!) portava avanti in maniera più fumettistica, un discorso iniziato proprio da Peter Weir, un’altra tacca alla cintura dell’Australiano!

«Dormi bambino, dormi tesor…» (Cit.)

A dirla proprio tutta, visto che di meriti si parla, se George Orwell in “1984” aveva immaginato sistemi dittatoriali in grado di stritolare l’uomo e la sua volontà, Peter Weir porta in scena una dittatura gentile (ossimoro, se ne esiste uno) quella che grazie al logorio della routine, ti lavora ai fianchi e ti fa pian piano accettare sulla lunga distanza quasi qualunque cosa, anche quello che nell’immediato rifiuteresti con forza, perché hey! In fondo non si sta poi tanto male in questa gabbia, no? Tutto questo Weir lo carica sui sorrisi mai veramente allegri di un impeccabile Jim Carrey, inconsapevole protagonista della moda dei Reality e dei talent show che hanno fatto scomparire i film dai palinsesti televisivi del mondo, se vogliamo, anche questo in parte anticipato dal film, visto che il velo di finzione che separa Truman dalla realtà è rappresentato proprio dal cinema, mossa coraggiosa e ironica per uno come Weir che di cinema ci vive.

Sì, perché dalla nostra posizione privilegiata, è fin troppo facile capire che il mondo di Truman è una gabbia dorata posticcia. All’inizio del film Peter Weir fa leva sul fatto che alla fine, siamo tutti guardoni con le vite degli altri, Voyeur che prima spiavano Truman, poi sono passati a pessimi programmi televisivi definitivi “Reality” anche se sono più finti di Seaheaven ed oggi continuiamo a spiare profili Instagram e immagini di piatti fotografati anzichè mangiati. Ma la distanza tra Truman e il pubblico si assottiglia con il passare dei minuti, quando Truman passa al contrattacco e mostra a Christof un sacco a pelo che russa grazie ad un registratore in cantina, non è un po’ come quello che noi scegliamo di mostrare di noi stessi sui social?

Ed anche oggi, ci facciamo i cazzi nostri domani.

Il bello di “The Truman Show” è che tutte queste riflessioni, mentre stai guardando il film non fai in tempo nemmeno ad elaborarle, al massimo sedimentano dopo i titoli di coda, quando il film è finito e

come il pubblico del Truman Show, cerchiamo la guida tv alla ricerca di qualcos’altro da guardare. No, mentre stai guardando il film, puoi solo fare il tifo per la fuga di Truman e anche qui, a ben pensarci, siamo come gli spettatori del Truman Show: un protagonista in fuga è più avvincente di uno che va e torna dall’ufficio, no? Sì, dico a voi, non ho ancora finito di coinvolgervi.

Tutto questo non poteva avere un protagonista più azzeccato di Jim Carrey, scelta combattuta perché Weir ha imposto che sul set NESSUNO citasse le battute dei precedenti film del comico, nemmeno per scherzo (storia vera), ma il risultato è perfetto, perché è grazie a questo film che Carrey ha segnato una linea definitiva nella sua carriera. Per il comico canadese c’è stato una PRIMA “The Truman Show” ed un DOPO, perché il continuo gioco tra realtà e finzione messo su da questo film coinvolge anche Jim Carrey che qui per la prima volta ci ha rivelato che dietro la maschera fatta di sorrisoni ed espressioni da cartone animati, c’era anche qualcosa di più malinconico. Oggi dopo vent’anni non riesco a pensare a nessuno altro di più perfetto di Carrey nella parte di Truman, ma dopo hanno tutti dieci decimi di vista, affidare proprio a lui, in quel momento della sua carriera questo personaggio (e di conseguenza tutto il film) è stata un’intuizione che solo un grande uomo di cinema poteva avere.

Ma ora è diventato “Love Boat”, ma non era “The Truman Show”?

Personalmente trovo il finale semplicemente stupendo, il mare è sempre importante nei film di Peter Weir («Sa andare a vela? Ma fa l’assicuratore») qui il simbolismo è chiaro: Truman affronta la paura spavaldo e con il sorriso sulla faccia, sorriso vero questa volta, il grido di libertà di chi non ha più niente da perdere ed è pronto ad affrontare tutto, anche il creatore in persona, una scena drammatica, con un crescendo incredibile, l’urlo di Truman «È questo il massimo che sapete fare?!» ogni volta mi esalta e mi strappa un brivido, penso che, ancora oggi, sia una tra le più genuine frasi di sfida da citare con il sorriso sul volto.

L’impatto sulla cultura popolare di questo film è stato immenso e, siccome il pubblico ha capito tutto, si annoia in fretta e cerca subito un’altra vita da spiare, pochi anni dopo nel 2000 ha iniziato a guardare trasmissioni dai nomi Orwelliani ignorandone l’originale. Ma credo che Peter Weir e Jim Carrey avessero già detto tutto quello che c’era da dire sull’argomento con questo film, quindi io, che sono sempre quello che rideva con “Ace Ventura”, non posso davvero aggiungere altro, se non gli auguri per i tuoi primi vent’anni Truman e magari un grazie. Anzi, al massimo a voi potrei ancora augurare Buongiorno… E casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!

Auguri Truman, buon compleanno!

Sepolto in precedenza martedì 17 luglio 2018

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