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The Village (2004): fai del tuo meglio per non urlare

Lo so bene che avete un gusto particolare nel vedermi e sentirmi (con i Caballeros) storpiare il nome di M. Night Shyamalan, perché nella mia vita non sono MAI e intendo proprio mai riuscito a pronunciarlo allo stesso modo due volte, come i fiocchi di neve il nostro Michael Knight è a suo modo un regista unico, con un nuovo lavoro in uscita proprio tra pochi giorni e uno dei suoi vecchi titoli più famosi, chiacchierati e perché no, anche amato-odiato, che di candeline invece, ne spegne la bellezza di venti.

Dopo i suoi due dimenticati, ma già carichi di tutte le tematiche care al regista di Philadelphia, film d’esordio, ovvero “Praying with Anger” (1992) e “Ad occhi aperti” (1998), sembrava quasi che Shyamalan fosse uscito dal nulla con Il Sesto Senso, a tutti gli effetti un Horror con il colpo di scena finale, la mossa segreta che ha etichettato il regista a lungo, basta dire che il successivo Unbreakable era stato mezzo pubblicizzato anche lui come un horror, quando invece era un animale del tutto diverso, più avanti rispetto ai suoi tempi, ma sempre con grosso colpo di scena finale.

Sarà anche il film con cui Shy-Guy ha perso l’unanime consenso della critica, ma forse sarebbe ora di rivalutarlo, o di non valutarlo solo per il non-colpo di scena.

Mi sono reso conto di non aver mai scritto nulla su “Signs” (2002), strano perché l’ho sempre apprezzato malgrado le forzature comunque funzionali, però anche lì, la sensazione attorno a quel film è che sia un Horror con colpo di scena, per via almeno di una sequenza che ha traumatizzato una generazione. Prima o poi mi deciderò a colmare questa Bara-lacuna ai tempi idolatrato dalla critica, intanto passiamo al festeggiato di oggi, che invece ha avuto un destino diverso.

Annunciato, “The Village” attirò pubblico perché ehi, sembra un Horror con i mostri e di sicuro avrà un “Twist-in-end” in grado di ribaltare l’assunto stile mossa di Judo (si, lo ha), anche se il vantaggio di giudicare i film dalla poltrona comoda di Padre Tempo è anche questo, nel 2004 era automatico dare al film di Michael Knight una chiave di lettura post undici settembre, anche senza rivelare nulla del colpo di scena (che poi così tanto colpo di scena non è, ma su questo punto ci torneremo), il regista ci porta tutti a Convigton nella sua Pennsylvania, un villaggio americano circondato da una foresta che sembra essere infestata da mostruose creature. Essù, tutto si può dire di Shy-Guy ma non che sia mai stato uno da messaggi criptici, anzi, più risultano sparati dritti in faccia al pubblico più li predilige.

Vivi in un villaggio circondato da mostri attirati dal rosso. Nasci non vedente. E con i capelli rossi.

Con il tempo e le recensioni, molti hanno provato a nobilitare “The Village” etichettandolo più come un thriller psicologico, la solita vecchia e odiosa abitudine di togliere un film dal genere a cui appartiene perché ehi! Non può avere davvero nulla da dire se è solamente un horror, anzi, un titolo con venature da Folk Horror applicate a quella che di base, è una lunga puntata di “Ai confini della realtà”, che nella sua pancia si porta dentro tanti elementi, molti scritti con il pennarello preferito Shyamalan, quello a punta grossa, però tutti ben presenti.

Anche se a Convigton sembrano tutti vestiti e calzati come gli americani sbarcati dalla Mayflower, alla fine sono i perfetti rappresentanti dell’America di Dabliù, ma questo è l’ultimo strato di lettura di un film che prima, sfruttando il tipico registro narrativo del regista, quello che prevede recitazione flemmatica e una certa staticità che sembra imposta al cast, ci viene raccontata la vita a Convigton, un racconto che inizia con un funerale, perché nulla più di un funerale (anche più di un matrimonio) fa stringere una comunità già bella chiusa come quella del nostro villaggetto, popolato da un’attenta selezione di “grandi vecchi” e di “giovani leve” (nel 2004).

Pensavate davvero che non avrei dedicato un’immagine a due dei preferiti della Bara?

Parlo di facce come Brendan Gleeson, William Hurt e Sua Maestà Sigourney Weaver, che compongono il personale Monte Rushmore di Convigton, a cui vanno aggiunti i giovani, che oggi sono quasi tutti nomi ultra consolidati e vincitori di Oscar, ma non nel 2004, quindi rivedendo il film oggi è più facile notare Jesse Eisenberg, Michael “Curagi fioi scapuma” Pitt, oppure il preferito di tutti, Joaquin Phoenix, che stranamente non fa il matto, perché quel ruolo è andato dritto ad Adrien Brody, lui l’unico autorizzato a rompere la staticità della recitazione che come detto, è cifra stilistica di Shy-Guy.

«Per una volta il pazzo lo faccio io Gioacchino, un applauso per il casting!»

Po in tutta onestà, non avevo memoria di Bryce Dallas Howard, in amicizia detta BRUCE, se non per qualche micro particina nei film paterni, quando mi sono visto spuntare ‘sta rossa qui, ho pensato «E la peppa!» che comunque è ancora la reazione che conservo invariata oggi per BRUCE dopo vent’anni. Sono di parte, lapidatemi, non me ne frega niente. Non mi pento di nulla!

Fatta dal sarto per il ruolo e per un po’ musa di Shy-Guy, che dopo il ruolo della non vedente Ivy Walker, poteva affidarle solo il ruolo di una creatura delle favole (sì, un giorno scriverò anche di “Lady in the water” datemi tempo), BRUCE Dallas Howard qui rappresenta la speranza perché ehi, lo ripetono tipo quattordici volte, ma a memoria mia è stata anche una delle poche che studiando per la parte, ha messo in chiaro che i non vedenti non fissano un punto a caso nel vuoto come se fossero tutti Bellosguardo, ma puntano il viso nella tua direzione quando ti parlano, e quindi il film procede così, definendo le sue regole che sono talmente precise che qualunque spettatore attento, potrebbe capire il trucco, anzi, vederlo arrivare (scusa Ivy) ben prima della svolta finale.

«Mi sono spaventato tanto», «Lo sento, dannato fiuto da non vedente che mi ritrovo e poi sei sottovento»

In questo villaggio del 1800 e qualcosa, gli abitanti hanno fatto un patto tacito con le creature del bosco, anzi, le creature innominabili, così tanto innominabili che le nominano ad ogni piè sospinto. Non si varca la soglia del bosco che circonda il villaggio, il rosso è vietato perché è il colore che attira le creature, va di moda il giallo, il colore che ci salva che le tiene lontane e anche qui, l’ossessione per i colori e i loro simbolismo è un’altra arma segreta di Shy-Guy, che dava una certa valenza al rosso, oppure che ne so, al viola, nei suoi lavori precedenti, insomma “The Village” fila tutto come da aspettative del pubblico del 2004, Lucius Hunt (Gioacchino Fenice) che chiede il permesso al gran consiglio per attraversare il bosco in cerca di medicine è lo spunto iniziale, un po’ Folk Horror un po’ Cappuccetto Rosso Giallo, che poi è la stessa cosa, le favole erano i primi Horror.

Il futuro attore preferito del mondo nei panni di Lucius, ma non Lucius nostro.

Di mezzo, una serie di momenti che oggi verrebbero etichettati come “Jump Scare” anche perché Michael “Coraggio” Pitt solo sulla torre d’osservazione che si scagazza nelle mutande al passaggio di una delle creature è un “Salto paura” bello e buono, anche se poi a tenere banco davvero sono le dinamiche da “La casa nella prateria” del film, anche se quel «Non ti tocco perché ti amo» ancora oggi fa sanguinare occhi e orecchie, ma passiamo alle cose serie.l

Più che un film ‘de paura, “The Village” è un film sulla paura, figlio anche del suo tempo, ma il messaggio che manda, resta valido ancora oggi a vent’anni dalla sua uscita: una società chiusa e protezionista, tenuta in scacco dalla paura del diverso, di qualcosa che sta lì fuori in attesa e che potrebbe ammazzarti senza pietà, chiaramente un modo di fare metafora degli Stati Uniti, non è un caso se la critica Europea abbia apprezzato di più il film rispetto a quella a Stelle e strisce.

Una cieca li guiderà! (quasi-cit.)

Ho sempre trovato interessante (e inquietante) il tema della formazione, quello che impariamo mentre cresciamo forma il carattere, forma la persona stessa, e determina quello che diventeremo. Shyamalan ci mostra una società di adulti che “Pensa ai bambini” («I bambini! Perché nessuno pensa ai bambini!» cit.) mentendogli spudoratamente per proteggerli. Quindi oltre al messaggio politico e sociale e il METAFORONE sugli Stati Uniti, c’è anche tutto un discorso molto più ampio, sul fatto che per controllare un popolo, chi comanda deve usare la paura, e facendo ciò, può mentire veramente su qualunque cosa: calendario, presenza di mostri nel bosco o di armi di distruzione di massa.

Essendo vestiti e calzati come padri pellegrini, anche le dinamiche sono ad una prima occhiata cortesi come ti aspetteresti dai fondatori, tutto il corteggiamento di Lucius alla bella Ivy è la roba più romanticona ed impacciata mai scritta da Shy-Guy, tutto consumato con richieste di matrimonio inquadrate da lontano, monologhi sul colore dell’aurea emanata dalle persone e la dichiarazione d’amore sul portico che riesce ad essere intensissima nel contenuto e staticissima nella forma, solo le scatole che ognuno dei grandi vecchi del villaggio sembrano stare lì per ricordare al pubblico… Occhio che arriva il trucco! Occhio che ora ti ribalto tutto il film come ho già fatto in passato!

«Non sapevo che Gwyneth Paltrow fosse nel cast»

Una vistosa scatola nera che è vietato aprire, un capanno chiuso dove è vietato andare, ribadisco, Shyamalan non è mai stato un narratore criptico o sottile, la staticità e la cura della messa in scena (se hai una storia basata così tanto sui colori, assicurarsi di avere Roger Deakins alla fotografia è una mossa molto, ma molto intelligente) fa un po’ a cazzotti con messaggi scritti a caratteri cubitali in modo che ogni spettatore possa coglierla. Non credo nemmeno che sia un caso che il macigno dello spiegone-specchietto per le allodole, sia stato caricato da Shy-Guy sulle spalle del migliore del lotto, perché William Hurt qui, è semplicemente troppo bravo, per l’ennesima volta nella sua carriera.

BRUCE con il broncio, illegale in cinquanta stati.

L’attesa della paura, sarà anche la paura stessa, o la sua preparazione, ma ci voleva il pedigree di Guglielmo Ferito per rendere quella «Eve, fai del tuo meglio per non urlare», «Cosa?», stacco netto, una di quelle frasi finite tra le mie citazioni involontarie e citata più e più volte ad ogni occasione utile (storia vera).

Trovo significativo che in una manciata di anni a cavallo di una triste giornata di settembre, il cinema americano abbia riflettuto più volte sul mito della caverna, Peter Weir, Matrix e poi Shy-Guy. Il pubblico farà sempre il tifo per i personaggi in cerca della verità, perché la bugia è ipocrita anche quando messa su per ragioni a loro modo nobili, nasci incendiario, muori conservatore e quindi va bene mandare una non vedente in una missione che non avrebbe nessun senso (non alla luce della rivelazione) ed io so bene che alla pari del sentirmi storpiare il nome “Shyamalan” vorreste solo sentirmi parlare del colpo di scena, di quanti pochi secondi ci avete messo a svelarlo (oppure di come vi sia piombato in testa, a sorpresa), ma di questo mi interessa poco, anche se la scena della rivelazione si gioca il solito cameo del regista, abitudine fissa nei suoi film.

Quello che mi interessa far notare è che “The Village” sia estremamente coerente all’interno della filmografia di cui fa parte, non per i mostri, per i «BUU!» o per l’uso simbolico del colore, quello che mi interessa far notare è come “The Village” sia un altro film sulla fede diretto da Shyamalan, uno che a lungo è stato l’unico apparentemente predestinato a portare avanti il cinema di stampo Spielberghiano, legato a persone ordinarie alle prese con eventi straordinari. Se non fosse chiaro questo è un gran complimento che dovrebbe anche darvi la dimensione della delusione, ma quella sarebbe arrivata più avanti, con il resto della filmografia di Shy-Guy.

«Sonic, sei tu?»

Nella prima parte della filmografia di Shyamalan è facile imbattersi in film che hanno come minimo comun denominatore la fede, non in senso religioso, ma come atto stesso di credere in qualcosa, si trova in tutti i suoi film in maniera più o meno marcata. Credere in qualcosa di superiore, divino, o comunque ultra terreno va a braccetto con la paura, la paura che possa essere tutto un bluff, un “Twist-in-end” senza costrutto o basi, ecco perché per sconfiggere i mostri bisogna voltar loro le spalle, la prova di coraggio che i ragazzi di Convigton eseguono sul limitare del bosco, ed ecco perché la miglior scena di “The Village” funziona ancora così bene, anche a vent’anni dall’uscita del film e anche sapendo già il colpo di scena, anzi, forse funziona anche meglio conoscendo già il colpo di scena, anzi, questo vale per tutto il film.

Non mi riferisco al finale e nemmeno allo spiegone di Guglielmo Ferito, parlo della sequenza dell’attacco delle creature al villaggio, le campane che suonano, il fuggi fuggi generale degli abitanti intenti a nascondersi ed Ivy che fa un gesto da vera credente, sarà anche scritto con il pennarellone a punta grossa, ma una mano tesa nel buio è il salto di fede della protagonista, oltre alla prova che se sai il fatto tuo, anche una sequenza sulla carta da poco può diventare grande, ad pari merito con il finale di Unbreakable, la più spielberghiana scena mai diretta da Shyamalan, quindi anche la sua migliore, perché se hai una protagonista non vedente, gli altri sensi sono ancora più importanti ed entrambe le scene sono nobilitate dall’udito, cullato dalle note di James Newton Howard, compositore di cui non si parla mai abbastanza.

Mi immagino che ogni volta debba spuntare Spielberg a darle il cinque.

Dopo, alla fine, una volta passato il finale colpo di scena che tutti nel 2004 attendevano e che ha contribuito a far guadagnare bene al botteghino “The Village”, allora si può aprire a letture post undici settembre del film, ma per me questo film sta tutto qui, nel suo rappresentare al meglio un salto di fede, infatti quando rivedo il finale di “The Village” con il mostro che di colpo si mette a correre (ho già detto “Jump Scare”, vero?) non mi colpisce come quella mano tesa nel buio, che invece ogni volta colpisce al cuore. Come abbia fatto questo a finire a dirigere “L’ultimo scoreggiatore dell’aria” io ancora me lo chiedo, ma è per film come il festeggiato di oggi che Michael Knight gode giustamente ancora di credito, quindi, auguri “The Village”.

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