La filmografia di Darren Aronofsky è caratterizzata da una certa spinta all’autodistruzione, forse per quello è così attratto dalla voglia di raccontare storie di personaggi che fanno del loro corpo l’oggetto del loro martirio, anche perché sono le isole – non tanto felici – in cui decide puntualmente di rifugiarsi.
L’andamento è ripetitivo, un film dove convince, “Requiem for a Dream” (2000), uno dove esagera tanto da collezionare parecchi commenti del tipo «Darren, ogni tanto un po’ di tabacco dentro metticelo» come accaduto per “The Fountain – L’albero della vita” (2006) e poi un film più intimo, costruito attorno ad un unico personaggio molto in là lungo il viale del tramonto come “The Wrestler” (2008) per fare pace con critica e pubblico e poi? Poi ancora, come tutte le forme di artistica autodistruzione, ci vuole disciplina.
Il film che vince e convince “Il cigno nero” (2010), il delirio “Noah” (2014), ancora più delirio con Madre! Anche se a me quest’ultimo era piaciuto, per certi versi anche più di “The Whale”. Che badate bene è un ottimo film, spero vivamente che porti tanta fortuna a Brendan Fraser, però mi sembra tanto figlio di una formula, se non proprio delle abitudini tendenti all’autodistruzione di Aronofsky.
Si intitola “The Whale”, ha l’articolo e la prima lettera identiche al film del 2008 (se non è essere ossessivi questo), ma di fatto ha anche la stessa struttura, costruito attorno ad un attore che è stato famosissimo e amatissimo dal pubblico, che con la sua prova nel film ha la possibilità del grande ritorno e del riscatto, in una trama dove un padre cerca di recuperare i rapporti, in particolare con la figlia. Quando Aronofsky ha scoperto l’opera teatrale di Samuel D. Hunter, gli saranno brillati gli occhi.
La differenza con “The Wrestler” forse sta tutta qui, nessuno prima del 2008 aveva mai interpretato il ruolo di Randy “The Ram”, un personaggio che viveva anche attraverso le cicatrici di Mickey Rourke, uno che davvero all’apice della carriera e della fama, ha pensato bene di andare a farsi spaccare la faccia, lanciandosi in un improbabile carriera da pugile, solo uno dei tanti colpi di testa di una “Vida loca” raccontata mettendo il suo vissuto dentro un personaggio, fatto dal sarto per lui.
Charlie, il professore universitario prossimo ai tre quintali di peso è stato già interpretato a teatro da molti attori, questo non toglie nulla alla prova di Brendan Fraser che molto probabilmente, si imprimerà a fuoco nell’immaginario collettivo perché i suoi trascorsi lo rendono perfetto per un ruolo che potrebbe valergli un Oscar e magari il ritorno ad Hollywood in ruoli di rilievo, però parliamoci chiaro, la trasformazione fisica, l’omosessualità del personaggio, la possibilità di redenzione dell’attore che lo interpreta, sembrano le caratteristiche che fecero vincere a Sean Penn l’Oscar per “Milk”, guarda caso scippandolo proprio a Mickey Rourke.
Come finiva “The Wrestler”? Con la “Ram Jam” del protagonista, il suo salto dalla terza corda dentro al riguardo nero del ring, dopo aver fatto la sua autodistruttiva scelta. Come inizia “The Whale”? Con la finestra di una lezione online, tanti volti di studenti sullo schermo di un pc ed un solo riquadro, nero, quello della web cam spenta di Charlie, con la macchina da presa di Aronofsky che ci fa idealmente entrare dentro quel riquadro, giusto per sottolineare la continuità tra i due film e il fatto che “The Whale” è “The Wrestler” con il cibo spazzatura al posto della palestra e gli steroidi.
Una volta entrati dentro quel riquadro, il regista mena subito il suo colpo più duro, quando il regista ci mostra per la prima volta il personaggio, non lo fa certo nel suo momento migliore (anzi), ma anche questa è una caratteristica del cinema di Aronofsky, anzi se devo dirla proprio fuori dai denti, è una sua peculiarità che proprio non amo.
Aronofsky tende a mettere il suo pubblico su un piedistallo, una posizione da osservatori privilegiati sulla vita dei personaggi, intenti ad autodistruggersi sotto i nostri occhi, testimoni ma sempre distaccati, con quella sottile sensazione per cui dopo i titoli di coda, possiamo sempre tirare il fiato pensando che per quanto le nostre vite possano essere incasinate, saranno sempre un po’ migliori di quelle dei personaggi raccontati da Aronofsky, insomma del pietismo, che sia nei confronti delle dipendenze raccontate in “Requiem for a Dream” o per i corpi auto flagellati di Randy e Charlie. Trovo che sia molto più difficile per un regista non moralizzare, piuttosto che cercare di evocare la pietà del pubblico, anche se va detto che con “The Whale” se avesse voluto, Aronofsky avrebbe potuto mostrare ancora di più, ma il testo di partenza, adattato in una sceneggiatura dallo stesso Samuel D. Hunter ha evitato questa naturale tendenza da parte del regista.
Altri difetti? “The Wrestler” era molto più cinematografico, non solo perché era un soggetto originale, ma anche per come il personaggio è stato costruito attorno alla vita del suo protagonista. “The Whale” per ovvie ragioni non può essere il più dinamico dei film, non quando il tuo protagonista è un obeso che si trascina a fatica con il deambulatore dal divano al letto. Inoltre il copione di Samuel D. Hunter a tratti mi è sembrato un po’ didascalico, il personaggio di Thomas (Ty Simpkins) che nella sua missione religiosa bussa alla porta di Charlie giusto in tempo per essere anche lui testimone di un suo momento non propriamente brillante, mi è sembrato una sorta di funzione narrativa vivente. Non so se il personaggio era presente anche nell’opera teatrale originale, non l’ho mai vista e non so dirvi, ma dal punto di vista cinematografico, sembra un espediente umanoide per far dire alla stessa Liz (Hong Chau) l’infermiera che aiuta Charlie perché sta ancora lì ad insistere con lui, oppure a far emergere lati del carattere di Ellie (Sadie Sink vista in Strane Cose e Fear Street) che sembra davvero un po’ troppo una versione adolescente del personaggio di Evan Rachel Wood in “The Wrestler”.
Darren Aronofsky e il suo fidato direttore dalla fotografia Matthew Libatique, fanno un ottimo lavoro nello sfruttare tutto lo spazio dell’appartamento di Charlie, come farebbe uno che ha reso casa sua tutto il suo mondo, però quando è davvero il momento di tirare fuori qualcosa di cinematografico, faticano a farlo, anche esagerando con l’uso della musica in quella scena finale in crescendo, altrimenti perfetta. Un momento di dignità per un “freak”, come John Merrick l’uomo Elefante, che toglie i cuscini e sceglie di dormire nella posizione che il suo corpo gli ha sempre negato.
Cosa funziona invece davvero tanto in “The Whale”? Proprio il suo protagonista, non riesco neanche ad immaginare che razza di forza, fisica e mentale, abbia dovuto tirare fuori Brendan Fraser per calarsi in un ruolo così, per sostenere il trucco e il costume necessario a trasformarlo in un personaggio distante milioni di anni luce dal tipico protagonista del tuo normale film di Hollywood. Charlie per tutto il tempo chiede ai suoi studenti del corso di scrittura, di scrivere qualcosa di vero, la verità in questo film ce la mette proprio Fraser che non interpreta un suo alter ego come aveva fatto Mickey Rourke, ma dentro questo personaggio trova qualcosa della sua storia e la racconta, si spera per esorcizzarla per sempre. Proprio lui che aveva scelto di recitare per Joe Dante, solo perché era stato l’unico regista a dargli la possibilità di prendere a pugni se stesso, il lato di Brendan Fraser di cui voleva liberarsi. Si, ho appena fatto cominciare la rivalutazione di “Looney Tunes: Back in Action”, quando tutti diranno che è un gran film (lo è) ricordatevi dove l’avete letto la prima volta.
Charlie è uno che se non avesse scelto la via del martirio attraverso il cibo, sarebbe anche una persona piacevole, spiritoso, colto, un pensatore libero, per assurdo anche uno predisposto a guardare il lato mezzo pieno del bicchiere, tanto che quando lo insultano sui Social-cosi, lui elogia la creatività della frase utilizzata per farlo. Ma anche un uomo che con determinazione ha scelto di auto distruggersi, una punizione che sembra uscita da Seven portata avanti volontariamente, per non dimenticare mai il suo dolore.
Charlie è una balena spiaggiata sul divano e dentro la sua tristezza, quel riguardo nero da cui “esce” solo nel finale, sposato ma in realtà vedovo, con il cuore già spezzato e la ferma determinazione a rifiutare tutte le cure. Un personaggio per cui il pubblico può in qualche modo immedesimarsi, perché tutti noi abbiamo la tendenza a spiaggiarci nelle abitudini dannose che conosciamo bene, anche se poi il pietismo della storia, alimentato da Aronofsky ha la meglio su tutto, d’altra parte non scegli il formato 4:3 se non vuoi fa sembrare Charlie ancora più grosso e incastrato nel suo mondo, ormai agli sgoccioli.
Charlie non fa surf, anzi non nuota nemmeno più, anche se proprio nuotare è uno dei suoi ultimi ricordi felici, se usasse quella determinazione per migliorarsi, la sua vita sarebbe diversa, invece è un personaggio che ha scelto di sprofondare all’interno di quel quadrato nero, convincendosi di aver fatto qualcosa di buono con sua figlia, anche quando i fatti gli dicono che in realtà non è affatto così. Se il personaggio di Fraser è fisicamente strabordante, gli altri intorno a lui lo sono altrettanto, Samantha Morton recita tutti i dialoghi urlando e il personaggio di Sadie Sink è una sorta di futura Charlie, intesa come Manson, ma Aronofsky è così, prendere o lasciare, in certi momenti come narratore non è sottile, in altri alza il volume della radio e moralizza.
Badate bene, non voglio risultare troppo cattivo con questo film perché tutto sommato mi è anche piaciuto, però ci vedo l’applicazione di una formula abbastanza collaudata dietro e preferisco registi che non moralizzano, guardatevi Spetters e poi “Requiem for a Dream” vi sembrerà un’opera bellissima, ma emotivamente ricattatoria. Per questo non credo alla super lodi attorno a questo film, che invece andrebbero la maggior parte a Brendan Fraser, ma ci dovrebbero andare per davvero, perché ha fatto una gran prova, non per la vostra pietà ma per il suo talento.
Il problema che “The Whale” fin da quando è stato annunciato, poggia tutto sull’affetto che il pubblico ha per Brendan Fraser e quel sottile sentimento che ha portato tanti a condividere le sue foto “prima” e “dopo”, in cui il passato era rappresentato dal sorridente e muscoloso George re della giungla e il presente dal Fraser di oggi, cicciotto, uscito con fatica dalla depressione, da una salute barcollante e da molestie sessuali che lo hanno segnato. D’altra parte a quante persone avete sentito fare la domanda, guardando le foto di scena di “The Whale”: «Ma Brendan è davvero così oggi?»
Posso essere onesto? Ho un’intera Bara per farlo quindi direi di sì, io spero che Brendan Fraser vinca l’Oscar, spero che sia davvero un ritorno per lui, come NON lo è stato per Mickey Rourke, di nuovo amatissimo da tutti nel 2008 e poi ancora dileggiato sui Social-Cosi. Charlie chiede verità e Brendan Fraser risponde presente, caricandosi addosso un ruolo complicato, un intero film e tutto il peso del suo passato, si merita di poterselo gettare alle spalle con questa prova che sembra un esorcismo per lui. Ma mi auguro che non si risolva davvero tutto qui, altrimenti sarebbe davvero solo pietismo, oppure condividere foto “prima” e “dopo”, quello già rientra nel piano di Darren Aronofsky.
Sepolto in precedenza lunedì 27 febbraio 2023
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