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The Wire (2002-2008): la miglior serie tv di sempre, punto

«Non è un reato stare per strada, siamo in America»
«No, siamo a Baltimora ovest!»

La storia di “The Wire” è unica sotto molti punti di vista, non solo perché ancora oggi, malgrado il proliferare di serie televisive, questa è ancora lassù, nel Valhalla con le migliori, anzi se chiedete a me, anche la migliore, proprio in virtù della sua storia unica, anche dal punto di vista produttivo.

David Simon ha lavorato come giornalista del Baltimore Sun per diversi anni, tra il 1982 e 1995, uno dei personaggi della quinta ed ultima stagione di “The Wire” di fatto, sembra un po’ il suo alter ego. Durante il suo lavoro di giornalista Simon ha pubblicato le sue indagini con i titoli “Homicide: A Year on the Killing Streets” (1991) e “The Corner: A Year in the Life of an Inner-City Neighborhood” (1997), frutto della sua collaborazione con Ed Burns, ex poliziotto nel corpo di polizia di Baltimora prima e poi insegnante della scuola pubblica e anche qui, se conoscete la serie, non sarà difficile capire chi è il suo alter ego tra i tanti personaggi di “The Wire”.

David Simon si è ritagliato un cameo come giornalista del Baltimore Sun nella quinta stagione (storia vera)

La serie esordì per HBO nel 2002, collezionante ascolti in aumento ma per assurdo, nessun premio tra quelli che contano, non per gli attori, non per la scrittura anche se pescando nel mucchio, da entrambi i lati della macchina da presa, questa serie ha solo l’imbarazzo della scelta per i talenti coinvolti, molti dei quali qui, hanno raggiunto vertici mai più sfiorati in carriera, ma i premi che contano latitano e sul finire della quarta stagione, il canale lamenta una perdita di ascolti, temendo il confronto diretto con – mi sforzo di non usare parolacce – “Desperate Housewives” della rivale ABC, come se il pubblico di queste due serie agli antipodi fosse lo stesso, vabbè. David Simon trattò per una stagione finale più corta, dieci episodi contro i canonici tredici che compongono le quattro stagioni precedenti, bastano a “The Wire” per raggiungere un finale più che logico, anche se per struttura e valore, queata serie avrebbe potuto continuare per altre quindici stagioni, andando a sollevare ogni sasso, per far luce su ogni livello della società americana (quindi occidentale), portando avanti la sua tesi: lo spaccio di droga è un traino, la corruzione sta a tutti i livelli e che tu sia uno sbirro di Baltimora, uno spacciatore che vende all’angolo o l’aspirante sindaco della città, dovrai fare i conti con le regole e con capi spesso corrotti, che finiranno per metterti i bastoni tra le ruote, citando le immortali parole: più le cose cambiano più restano le stesse.

Le serie si guardano comodamente sul divano no?

Solo dopo la sua conclusione con la ristampa in DVD, questa serie ha cominciato a crescere in popolarità, la definitiva spallata è arriva dall’ex presidente Obama, che l’ha pubblicamente lodata annoverandola tra le sue preferite, non è difficile comprendere il perché, in ogni caso storia vera.

Inutile girarci attorno, “The Wire” è un capolavoro, la migliore serie che vi possa capitare di vedere perché non è il classico procedurale, il poliziesco con gli sbirri da una parte e i cattivi dall’altra, con il caso della settimana da risolvere, David Simon ha portato il realismo nei polizieschi come in precedenza era riuscito a fare solo Michael Mann con “Miami Vice”, ma con intenti diversi: Mann era lo stile che diventa sostanza, la televisione che diventa grande cinema, David Simon con il suo approccio da giornalista che nel tempo lo ha portato a firmare altre bellissime serie come “Generation Kill” (2004), Show me a hero e The Deuce, qui porta il realismo per non dire proprio la realtà all’interno del poliziesco.

Idris Elba, un inglese in giro per Baltimora.

I primi tredici episodi della prima stagione di “The Wire”, iniziano dal piccolo, dalle piazze di spaccio di Baltimora Ovest gestite dalla famiglia Barksdale, una banda organizzatissima gestita dal misterioso Avon (Wood Harris) e dal suo intellettuale e brillante socio Stringer Bell interpretato da Idris Elba, solo uno dei tanti attori inglesi perfettamente calati nell’atmosfera di Baltimora, perché la prima informazione da riportare su “The Wire” è proprio la lingua: ufficialmente è in inglese, ma non proprio quello Oxfordiano, vi sfido a riconoscere la lingua di Albione in quel misto di slang, parlate strascicate e modi di dire che sono una vera lezione, io vi consiglio di fare lo sforzo e guardarvi la serie in lingua originale. Qualunque essa sia.

I primi episodi sono belli densi da masticare, i personaggi sono tanti ma subito tutti riconoscibili, forse non sarà la serie con cui vi trasferirete definitivamente sul divano per guardarvi dieci puntate in fila, ma beccami gallina se per me ogni volta che l’ho rivista (almeno un paio di volte) non è stato così, perché una volta entrati nel giro di “The Wire” non se ne esce più. Ma soprattutto ogni altra serie dopo, vi sembrerà poca cosa.

Lo sguardo inquisitore di Lance.

Ad appassionare per prima cosa sono i personaggi, tantissimi, tutti recitati alla grande e numerosi sia tra le fila degli spacciatori che dei poliziotti, come il tenente della polizia Cedric Daniels (Lance Reddick, uscito da Baltimore per approdare sull’isola di “Lost” e non fermarsi più) impegnato a mettere su una squadra di gatti senza collare per smontare l’organizzazione di Barksdale.

Da grande voglio essere pragmatico come Lester, anche se non so lavorare il legno.

Ellis Carver (Seth Gilliam) e “Herc” Hauk (Domenick Lombardozzi), la tostissima Kima Greggs (Sonja Sohn) e uno dei migliori, il pragmatico Lester Freamon (Clarke Peters) con la sua passione per i mobili in miniatura da costruire ideatore delle intercettazioni che danno il titolo alla serie, per non parlare dei detective, il mitico Bunk Moreland (Wendell Pierce) o il migliore, l’irlandese, perennemente stropicciato e sbronzo, il “Trapano di Baltimora” visto che non ne lascia indietro una, il detective Jimmy McNulty, anzi Jimmy “Fuckin” McNulty (Dominic West nel ruolo della vita), visto che tutti si rivolgono a lui insultandolo così.

Jimmy “Fuckin” McNulty, il trapano di Baltimora, maestro di classe stile e di vita.

“The Wire” è una serie che ha retto la prova del tempo, diventando sempre più popolare con il passare degli anni proprio per questo, magari la tecnologia utilizzata e i cellulari “burner” risulteranno sempre più datati, ma la solidità delle trame, le perfette caratterizzazioni dei personaggi, quelle resistono nel tempo e vi faranno sembrare ogni altra serie televisiva per quello che è, un passo indietro rispetto alla qualità di “The Wire”, su cui più che un semplice post, bisognerebbe scrivere un saggio, perché ogni personaggio della serie (e sono tantissimi!) rappresenta un manuale di buona scrittura e di brillante scelta dell’attore a cui affidarlo.

Scene mitiche ne abbiamo? Direi proprio di sì.

Quanti personaggi di donne di colore omosessuali avete incontrato nelle serie tv moderne? Tanti e molte delle quali erano frutto di una “formula” resa canonica, si capisce dal fatto che non vi hanno lasciato nulla, vi sfido a confrontarle tutte con Kima, che ha tutte queste caratteristiche prima che fosse un canone della serialità americana, solo che non è un personaggio caratterizzato solo dal suo orientamento sessuale, ma rappresenta alla perfezione cosa vuol dire per una donna (spesso più brava nel suo lavoro di molti colleghi) essere una donna in un ambiente maschile, descritto in maniera del tutto realistica, perché una serie non ha il dovere di scolarizzare il pubblico, ma “The Wire” mette in chiaro come funzionano i processi, le indagini di polizia e il caro vecchio “una mano lava l’altra e tutte e due fregano l’asciugamano” che regola il mondo. Poi ve lo dico fuori dai denti, guardatevi l’episodio 1×10, con Kima mandata sotto copertura e ditemi se non resterete incollati allo schermo per il destino del personaggio, alla faccia dei tanti personaggi insipidi in serie più popolari, ma di inferiore qualità rispetto a “The Wire”.

Lezione numero uno: mai fare incazzare Kima!

Ogni stagione di “The Wire” è legata a quella precedente ma cambia idealmente argomento, aprendo un nuovo e sempre più rognoso capitolo, un dettaglio sottolineato dal cambio della sigla iniziale, che è sempre il pezzo “Way Down in the Hole” ma interpretato da cinque artisti diversi, tra cui spicca anche Tom Waits. L’inizio della seconda stagione è spiazzante, perché pare di stare guardando una serie del tutto diversa rispetto alla stagione numero uno, qui la storia ruota intorno ai traffici del porto di Baltimora, tra le facce spicca quella di Pablo Schreiber nei panni di Nick Sobotka, perché “The Wire” è stata una fucina di talenti partiti da Baltimora Ovest per conquistare il piccolo e il grande schermo.

Prima del pornobaffo, il buon Pablo era già un gran attore.

La terza stagione – a mio avviso la migliore in assoluto – introduce la politica e ruota attorno al personaggio del maggiore Howard “Bunny” Colvin (Robert Wisdom), che alle strette per abbassare le statistiche relative alle criminalità, trova una soluzione tutta sua che non vi racconterò perché la terza stagione di “The Wire” è il capolavoro dentro il capolavoro, una serie che non solo vi farà capire molto di come funziona per davvero il mondo (alla faccia delle soluzioni di plastica tipiche delle serie tv) ma vi farà affezionare a tutti i personaggi, tutti non scherzo.

Vogliamo parlare dell’arco narrativo di D’Angelo Barksdale (Lawrence Gilliard Jr.)? Al centro del primo dei tanti grossi colpi di scena della serie? Oppure vi faccio un altro esempio, Bubbles (Andre Royo), quanto è figo Bubbles? Un tossico marcio di strada che vive di aghi e furti, capace di tirare su soldi con niente. Lo dico fuori dai denti a costo di passare per poco sensibile, ma se una serie riesce a farti affezionare ad un tossico vuol dire che è una serie fatta di un’altra pasta ed è quello che vi succederà, Bubbles è la coscienza della serie, come spettatori rideremo delle sue trovate e finiremo per disperarci per le sue sofferenze, in una miriade di personaggi grandiosi, Bubbles è il cuore di “The Wire” oltre l’ennessima prova della sua superiorità manifesta.

Bubbles, il vero cuore pulsante di tutta la serie, anche se gli urla la vena.

Persino quando “The Wire” lavora di fantasia, creando personaggi di pura fiction, non riesce mai a non risultare realistica, anche quando si gioca l’asso, l’unico personaggio che non ha un equivalente nel mondo reale è il migliore di tutti, si è ora della porzione di post dedicata a Omar.

Immagini che potete sentire (fischiettare)

Entra in scena fischiettando “The farmer in the dell” e terrorizzando tutti gli spacciatori di Baltimora Ovest, pastrano lungo fino alle caviglie, enorme fucile e la faccia sfregiata del grande Michael K. Williams (quanto ci manchi!), Omar Little è il Batman di Baltimora, ruba agli spacciatori per dare ai poveri, non ha una storia passata, non si sa perché sia arrivato a fare quello che fa ma è un fattore (ah-ah) con cui tutti devono fare i conti, poliziotti e criminali. Lo so, dovrei paragonarlo a Robin Hood ma diventa chiaro nella sua guerra con Marlo Stanfield (Jamie Hector) nell’ultima stagione che lui è proprio Batman, anche se forse il paragone più corretto sarebbe Midnighter visto che Omar è omosessuale e anche qui, torniamo al discorso che il suo orientamento sessuale non è l’unica caratterizzazione del personaggio, anzi tutt’altro. Anche se questa devo raccontarvela, la prima volta che ho visto “The Wire” qualche anno fa, ero già un lettore dei romanzi di Joe R. Lansdale e mi sono detto: «Se non affideranno il ruolo di Leonard a Michael K. Williams in un possibile film sui libri di Champion Joe, vuol dire che sono pazzi!» (storia vera, chiedete a tutti, ho le prove per dimostrarlo). Beh era una profezia talmente facile da indovinare, che si è avverata per davvero.

Il migliore personaggio mai visto in una serie tv o giù di lì, se non siete d’accordo spiegate pure le vostre motivazioni ad Omar.

Da “The Wire” sono usciti un sacco di attori che bravi come qui, per me non lo sono stati mai più, ennesima conferma di quanto questa serie avesse una marcia in più, Robert Kirkman grande appassionato del lavoro di David Simon ha saccheggiato metà del cast per The Walking Dead, senza però ottenere gli stessi risultati in termini di grandi personaggi. Questo per ribadire come David Simon abbia fatto scuola, ecco perché “The Wire” resta la migliore serie di sempre, non solo è ancora imbattuta a livello di qualità, ma rappresenta il perfetto punto di equilibrio tra i meccanismi della fiction e un realismo frutto di studio e di esperienza sul campo.

Nessuno rappresenta meglio la politica di Isiah “Shiiiiiiiiiiit” Whitlock Jr.

Quindi siamo qui oggi, per un funerale all’Irlandese, celebriamo la vita e la prematura morte della migliore serie di sempre, se fosse andata avanti con la sua indagine, avrebbe sollevato tutti i sassi, rivelando la corruzione e il marcio dietro tutti i livelli della società, invece è stata ammazzata prima del tempo, morta regalandoci un gran finale, uno che chiude un cerchio che in realtà è una ruota, perché tutto cambia perché non cambi nulla, ci saranno sempre capi in fissa con le statistiche, Ditocorto in corsa per la carica di sindaco schiacciato dai meccanismi della politica e per la strada, ci sarà sempre un nuovo Bubbles o un altro Omar. Forse se saremmo fortunati un giorno di sarà anche un’altra “The Wire”, per ora il grande romanzo americano sul piccolo schermo lo ha scritto David Simon e noi gli rendiamo omaggio, in alto i calici!

«Andiamo a farci un goccetto?», «Dopo i deliri di Cassidy? Anche due»

Fare thee well gone away
There’s nothing left to say
‘But to say adieu to your eyes as blue as the water in the bay
And to big Jim Dwyer the man of war
Who was often heard to say
I’m a free born man of the USA
I’m a free born man of the USA
I’m a free born man of the USA… Ed ora, una partita a scacchi offerta da Lucius e D’Angelo.

Sepolto in precedenza mercoledì 13 luglio 2022

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