Che dite è un titolo di post abbastanza provocatorio per un film che ha scandalizzato tanti? Se si, allora forse ho reso degnamente omaggio ad uno dei talenti più interessanti in circolazione, ovvero quello della bravissima Julia Ducournau, ma prima una riflessione un po’ a ruota libera, cercate di starmi dietro, giuro che ho una direzione precisa.
Perché le automobili sono storicamente identificate utilizzando pronomi femminili? Lo capisco in italiano, la macchina, femminile, ma negli altri Paesi? Non serve essere Freud per capire che la fissazione dei maschietti per i motori ha un’influenza su tutto questo, ma un’auto resta un’auto, non ha un sesso definito, è fuori dalle classificazioni di genere, al massimo è la nostra forma mentale che ci fa ricadere in questi giochetti, per certi versi – ma con intenzioni narrative differenti – ci era già arrivato Cronenberg in Crash, uno dei film più strani (che poi è il miglior complimento possibile, per un film o per una persona) che io abbia mai visto, da anni aspetto di vedere un altro film capace di osare e provocare in quel modo, al momento quella che ha saputo volare quasi – ho detto quasi – a quelle altezza è proprio Julia Ducournau.
Ecco provocazioni, parliamo di questo perché in tanti hanno liquidato “Titane” in questo modo, colpevole (che poi, che colpa sarebbe mai?) di aver vinto la palma d’oro all’ultimo festival di Cannes. L’ultima fatica di Julia Ducournau è stato etichettato presto come una roba da “radical chic”, un film strano? Parla di una tipa che si scopa un’automobile? Diamogli un premio e passiamo per molto intelligenti, con i nostri occhiali sul naso e le nostre pipe mentre ci diamo un tono. Alt! Troppo facile chiudersi a riccio così davanti ad un film che invece rifugge a quasi tutte le etichette.
Io non ho gli occhiali e non fumo la pipa, ho anche un’intelligenza medio bassa quindi non pretendo di capire tutto di tutti, se volete un sapientone, tirate un calcio alla parete di “Infernet” ve ne cadranno addosso dieci di tali o presunti tali, quindi nel mio essere limitato al mio genere di maschio, bianco, eterosessuale e da poco ho scoperto di dover aggiungere anche “cisgender” (questo spiegherebbe perché ho sempre amato il formaggio), mi è più naturale riferirmi a David Cronenberg, uno il cui cinema di sangue, sesso e mutazioni mi è sempre apparso molto beh, naturale. Quindi vi alzo questo pallone: potremmo ridurre uno dei suoi film più famosi a “La storia di uno che si trasforma in una mosca?”, si certo che potremmo farlo, un po’ come in passato è stato detto (anche dallo stesso regista) “la storia di una tipa che si scopa un polpo” (storia vera).
Parliamo (anche) di Body Horror, il sottogenere che forse più di tutti quelli della grande famiglia dell’horror, mostra l’ombelico e la sua natura da B-Movie, in grado di fare sghignazzare e inorridire se fatto come si deve (ecco qualche esempio), quasi un modo di conciliare la cultura “alta” con quella “bassa” in un modo beh, viscerale che è proprio del Body Horror, ma qui parliamo di un film dell’orrore francese, quindi scaviamo ancora un po’ di più in profondità in quella che potrebbe essere la mia premessa più lunga e strampalata di sempre, ma fidatemi, ho un obbiettivo!
Gli appassionati di Horror sanno che i nostri cugini transalpini ci hanno regalato parecchi gioie nei primi anni del 2000, un’orgia di sangue fatta di titoli davvero rabbiosi e grondanti emoglobina, qualche esempio? “Alta tensione” (2003), “Calvaire” (2004), quella bomba di “À l’intérieur” (2007) o quell’incubo ad occhi aperti di “Martyrs” (2008), quasi un decennio di furia che sembrava terminato ma in realtà stava solo evolvendo – mutando per stare con il mio secondo Canadese preferito – pronto a trasformarsi in qualcosa di più colorato, quasi “pop” se mi concedete il paragone ardito, titoli come Revenge, i film di Gaspar Noé e guarda caso proprio Julia Ducournau con Raw. Padre Tempo, il miglio critico cinematografico di sempre, un giorno metterà i puntini sulle “i”, ma magari la nostra Ducournau un giorno verrà ricordata come la genietta di questo nuovo filone francese, perché sicuramente nel suo cinema non mancano le stigmate dell’autrice, per di più di razza.
Non so dirvi se “Titane” mi sia piaciuto più o meno di Raw, sono sicuro che Julia Ducournau ha una capacità invidiabile di far filare i suoi film a tavoletta, con un gusto esagerato, quasi da tamarra transalpina e lo dico nel senso migliore del termine perché di registe con questo estro ne abbiamo un grande se non grandissimo bisogno, qualcuno che sia in grado di portare avanti una poetica già così riconoscibile al suo secondo film, gestita con i piedi ben piantati nel cinema di genere, pur rifuggendo tutte le etichette, grazie anche a padellate di umorismo nero, anzi nerissimo, perché “Titane” nella sua svolte, non si dimentica anche di far ridere, non come di fronte ad una parodia, ma di quelle risate che nascondo naturalmente quando la vita ti tira addosso le sue trovate più grottesche, un registro narrativo difficilissimo da gestire al cinema che Julia Ducournau padroneggia, tanto di cappello.
Ne parlavo qualche giorno fa con un amico (ciao Simone!) che aveva già visto il film prima di me e mi ha sottolineato una questione importante, “Titane” è un METAFORONE, a volte anche abbastanza urlato, alla faccia di chi lo ha etichettato con un film troppo criptico, perdonatemi se torno sempre ad uno dei miei preferiti, il padre nobile del Body Horror, ma anche i primi film di Cronenberg erano metaforoni ad alto tasso di decibel, quindi nel mio essere pane e salame come attitudine, forse lo apprezzo anche, mi piace quando un film mi chiede di fare uno sforzo per essere compreso, quel tipo di sforzo che qualcuno non ha voluto fare qualcuno di molto illustre, preferendo lamentarsi sui social per atteggiarsi da “grande vecchio”, perché non ha capito che forse il suo film ambientato in una palazzina di tre piani, con l’immancabile Margherita Buy nel cast, non parla più al tempo presente e alla pancia di un pubblico che sta cambiando, ma d’altra parte io mi chiedo ancora che cazzo di autorità possa avere uno che ha pubblicamente dichiarato che Strange Days non era tutta questa roba, essù dai!
A proposito di “grandi vecchi” (di valore però), i punti di riferimento – o forse sarebbe meglio dire di partenza – quelli di “Titane” sono chiari e lampanti, il già citato Cronenberg, lo Shin’ya Tsukamoto di “Tetsuo” ma beccami gallina se qualcuno ha scomodato il più facile di tutti, il Maestro John Carpenter qui è stato palesemente omaggiato, nella scena che ha tanto turbato l’amante della Nutella. Eppure il bello di “Titane” è quello di essere riuscito a schivare anche questi paragoni, per un film che inizia a tavoletta, continua a tavoletta anche quando la storia pare rallentare, e nel suo continuare sguizzare via dalle etichette, parla chiaro facendo arrivare il suo messaggio.
Nel prologo iniziale (i famigerati cinque minuti di un film) Julia Ducournau ci presenta la sua protagonista da bambina, l’incidente in auto, la fredda e incolmabile distanza con il padre e quella placca di metallo piazzata nel cranio che rende Alexia una piccola creatura di Frankenstein, che si sente più macchina che essere umano (come scandito dal “bacio” sul finestrino), hai voglia ad interrogarti su qualche pronome utilizzare per qualcuna che non si considera nemmeno più parte del genere umano, infatti sarebbe curioso chiedere a Julia Ducournau la sua fissazione per il nome Alexia (qui interpretata da adulta da Agathe Rousselle in una prova notevole e mutante), visto che un personaggio con lo stesso nome comparire anche in Raw, esattamente come una Justine, nuovamente con il volto di Garance Marillier. Non vorrei ritrovarmi con gli occhiali sul naso e la pipa a mia volta, tirandovi una pippa mentale sul nome Alex, quello di “Arancia Meccanica” scelto dal suo autore Anthony Burgess per indicare un personaggio senza legge, dal latino “A-Lex” ma un giorno magari scopriremo che Julia Ducournau è solo in fissa con l’assistente vocale di Amazon.
Cresciuta Alexia si esibisce in locali tipo Motor Show di Bologna strofinandosi e ballando sopra le automobili, allo stesso tempo estremamente femminili eppure androgina nell’aspetto, nel primo atto del film il personaggio vive un tormento, quasi i dolori della crescita, un tipo di dolore che perpetua agli alti e anche a sé stessa che Julia Ducournau non si dimentica di condividere anche con noi spettatori, è un’esistenza infame stare in un mondo che non prevede persone non facilmente etichettabili, quindi la svolta è il restare incinta non di un uomo – avrebbe sminuito il senso del film – ma di un’automobile, quindi questo rifuggire tutte le etichette è la corsa disperata anche di “Titane”.
Quando pensi che il film parli della furia belluina di un’assassina seriale con una placca di titanio in testa, Julia Ducournau utilizza un’altra canzone italiana per ribadire quello che vuole dire, dopo la “Che freddo fa” di Nada in Raw, qui tocca a “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli, piazzata proprio durante la più divertente orgia di massacro perpetuata dalla protagonista, si ho detto divertente, perché l’umorismo nero scorre potente in questa sequenza in cui si ridacchia per le trovate, perché “Titane” utilizza tutti i mezzi del cinema per tener fede al ritornello della canzone di Caterina Caselli.
I dolori della cresciuta di Alexia diventano anche i nostri, in un parallelismo tra donna e macchina, quando la protagonista si autoflagella, il sangue nero che le cola fuori dalle ferite sembra il controllo del livello dell’olio motore in un’automobile, e vi assicuro che in più di un momento vi porterete le mani all’inguine facendo «Auch!», perché “Titane” quei dolori della crescita trova il modo di farli provare anche a noi, ricordate la ceretta brasiliana di Raw? Uguale ma peggio.
Ricercata e in fuga, il corpo della protagonista subisce un martirio nel tentativo di fuggire alla legge celando la sua identità (anche di genere), nel secondo atto, questo film provocatorio e pensato solo per far vomitare le persone in sala (seee lallerò, dissero i criticoni che forse hanno visto un’altra pellicola), sembra quasi normalizzarsi su canoni e su un tema a me caro (ma anche no): la dannatissima importanza della famiglia, ribadita in ogni cazzarola di film occidentale da cinquant’anni in tutte le salse. Un’altra etichetta che “Titane” strappa via con forza.
Nel secondo atto entra in scena Vincent (Vincent Lindon, bravissimo in un ruolo altrettanto fisico), che ad una prima occhiata anche grazie ad un fisico tutto sommato in gran forma, sembra lo stereotipo della mascolinità: capo dei pompieri (ruolo storicamente macho e testosteronico), padre di un figlio disperso e dall’atteggiamento spaccone, ma in realtà anche lui fragile proprio in tutti quegli elementi che caratterizzano proprio la mascolinità. Perché nel suo film Julia Ducournau fa crollare tutti i canoni del genere (sessuale e anche un po’ cinematografico), non si sa esattamente cosa Alexia porti in grembo, ma è chiaro che i personaggi scelgano di adeguarsi solo al rapporto che decidono di avere, se tu decidi di fare di me un genitore, allora ci sarò sempre per te anche nel momento in cui metterai al mondo un/a nipote/a dal genere impossibile da identificare.
Come dicevo, non so se questo film mi sia piaciuto più o meno di Raw, di sicuro Julia Ducournau ha firmato un film di una vitalità incredibile, che non può essere nemmeno semplicemente etichettato con un titolo a favore del genere “fluido” perché la fluidità di genere alla fine è solo il contesto di una storia che parla di identità e rapporti, di una persona che pesava di essere un’automobile e pian piano scopre di essere una persona, ma forse anche questa è una semplificazione tanto quanto “La storia di una tizia che si scopa una macchina”, in ogni caso siamo al cospetto di un’autrice in grado di parlare ad un pubblico che non considera più i generi (anche cinematografici) in maniera così rigida, i tempi stanno cambiando e l’horror e il genere che meglio di tutti riesce a stare al passo con il vento del cambiamento che soffia, quindi se qualche vecchio parruccone a cui non è mai piaciuto nemmeno quella bomba di “Henry, pioggia di sangue” (1986) si offende, fondamentalmente chissene, alla fine nessuno mi può giudicare no? Forse solo Padre Tempo (forse) darà ragione a Julia Ducournau e chi ha voluto premiarla, non per gesto provocatorio ma perché il genere horror non è mai stato più al passo con i tempi di ora, cioè se lo chiedete a me lo è sempre stato, in ogni caso, gran momento storico per amare il genere con più sangue e budella di tutti.
Sepolto in precedenza lunedì 8 novembre 2021
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