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Tokyo Vice – Stagione 1 (2022): straniero in terra straniera (in salsa Manniana)

Mi dispiace sempre arrivare al fondo di una monografia, ma
mi è andata di lusso visto che oggi concludiamo con un titolo fresco fresco,
quindi non perdiamo altro tempo e benvenuti all’ultimo capitolo della rubrica…
Macho Mann!

Per essere un Blog microscopico dal nome vagamente spettrale
che fa spesso fare gli scongiuri alle persone, questa Bara porta meno sfiga di
quello che si potrebbe pensare, per lo meno a Michael Mann visto che dall’inizio
di questa rubrica, il regista di Chicago ha finalmente sbloccato la sua
biografia su Enzo Ferrari parcheggiata ai box da fin troppo tempo, ma
soprattutto un po’ in sordina e senza troppi squilli di tromba, su HBO Max (in
uno strambo Paese a forma di scarpa chissà dove e quando) ha esordito un altro
progetto su cui Mann era al lavoro ormai da diversi anni, almeno dal 2009, anno
di uscita del libro scritto da Jake Adelstein.

Chissà se Adelstein pensava alla celebre serie curata da
Michele Uommo quando ha scelto il titolo per il suo libro, oppure se qualche
amico del regista di Chicago, gli ha consigliato la lettura per semplice
associazione, eppure “Tokyo Vice” non parla della trasferta giapponese di Sonny e Tubbs, ma è la cronaca della
carriera dello stesso Adelstein a Tokyo, a partire dal 1993, quando fu assunto
come reporter alle prime armi nel giornale Yomiuri Shimbun, nel libro tutta la
sua difficile gavetta come occidentale in una grande testata giapponese, tra
difficoltà di lingua e relazionali, ma anche il suo rapporto con Sekiguchi, un
detective anziano che lo prese sotto la sua ala protettiva, impegnati insieme a
seguire il caso dell’assassino di Lucie Blackman, capite da voi solo leggendo
questa breve sinossi che è materiale per Michael Mann, non solo per quel “Vice”
nel titolo.

Il tempo di finire l’ultimo capitolo del libro e Michele Uommo era già al lavoro.

La serie creata da J. T. Rogers per HBO, può vantare tra i
produttori esecutivi Michael Mann che proprio come per Luck, ha deciso di dirigere di suo pugno anche l’episodio pilota,
quello che dà l’impostazione a tutta la serie. Jake Adelstein qui ha il volto
da bravo ragazzo di Ansel Elgort, attore lanciatissimo dopo i suoi ruoli in Baby Driver e nel West Side Story di Steven Spielberg, che con quella faccia un po’
così quell’espressione un po’ così e il suo 1,90 mt spicca tra gli abitanti di
Tokyo più o meno come Woody Allen su un marciapiede di Harlem, una condizione
di alieno su cui Mann lavora di cesello per raccontarci la storia del
personaggio.

Oggi giochiamo a trova l’intruso.

Uno che insegna inglese ai locali per guadagnarsi da vivere
e che impara arti marziali, finendo ripetutamente al tappeto, scelta visiva
impeccabile per rendere l’idea della sua condizione di Gaijin in terra straniera, eppure il vero obbiettivo di Jake è un
altro, ovvero superare il test per entrare a far parte della redazione di un
grande giornale di Tokyo. Michele Uommo ci racconta il nervosismo dello studente
facendomi un piccolo regalo: Jake insofferente per lo studio e la sua
condizione, cerca un minimo di sollievo ascoltando Release dei Pearl Jam, scelta che conferma il buon gusto musicale
di Michael Mann oltre che farmi molto contento, peccato che sia solo una scena
di raccordo e non uno di quei momenti musicali con cui Michele Uommo ha saputo
creare grandi momenti cinematografici, ma lo considero un regalo lo stesso,
grazie signor Mann!

Il fan dei Pearl Jam in me ringrazia sentitamente.

Il test di Jake va male e bene in parti uguali, per essere
uno che parla giapponese come se fosse la sua prima lingua, l’agitazione lo
frega e il ragazzo si dimentica di rispondere alle ultime domande, quelle sul
retro del foglio, un errore da pirla (che è una tipica espressione giapponese
per indicare… Vabbè, un pirla) che mette fine ai sogni di gloria del ragazzo.
No, perché comunque Jake è il classico eroe Manniano, uno così dedito al suo obbiettivo
da totalizzare il punteggio migliore malgrado una parte di compito lasciato in
bianco, questo gli apre le porte del giornale dove trova Emi Maruyama (Rinko Kikuchi) nel ruolo di sua
responsabile e supervisore.

“Questa pilota a gli Jaegers, fossi in te non la farei incazzare”

Il metodo Manniano si vede tutto in questo episodio pilota,
la ricerca del realismo non manca nemmeno qui, tanto che la puntata è quasi
tutta (per ovvie ragioni) in giapponese, quindi menzione speciale per il
talento di Ansel Elgort che ha dovuto imparare un intero copione in
giapponese. Questa trovata linguistica non è solo un vezzo di Mann, ma il modo
con cui il regista di Chicago sottolinea la distanza culturale tra il suo
protagonista e il resto del mondo che lo circonda, infatti il pilota di “Tokyo
Vice” è pieno di giochi di parole, di piccole incomprensioni, come quando i
colleghi giapponesi di Jake lo credono un membro del Mossad, quando lui
ha solo detto di venire dal Missouri.

Oppure il gioco di parole tra “Chicks” e “Chicken” che non
ho idea come verrà tradotto quando e se la serie sbarcherà qui da noi, insomma
un po’ di “Lost in translation” (passatemi la citazione) su cui Mann lavoro di
cesello, anche se l’obbiettivo finale è, ovviamente, parlare di Yakuza, una serie
di cadaveri ritrovati con le mani sfregiate e piene di tagli sono la pista che
il testardo Jake comincia a seguire, con il supporto di un anziano poliziotto
di nome Hiroto Katagiri, interpretato da Ken Watanabe, attore che da sempre fa
da ponte tra Stati Uniti e Giappone e qui risulta una scelta perfetta.

Se siete appassionati di tatuaggi, lui sotto la giacca sfoggia più inchiostro di una copisteria.

Capite da voi che “Tokyo Vice” sempre fatto dal sarto per
Mann, ci sono i giornalisti come in Insider,
la criminalità raccontata attraverso gli occhi del giovane Yakuza Sato (Show
Kasamatsu) protagonista di diverse sottotrame, ma ci sono anche due personaggi
principali opposti, ma uguali negli intenti, tutta roba con cui Mann va a nozze.
Anche perché, a ben guardare, proprio da Miami Vice (serie) passando per Miami Vice
(film) e Blackhat, il regista di Chicago
ha sempre avuto una certa fascinazione per le bellezze orientali, anche se la
parte romantica della storia è garantita da Samantha Porter (Rachel Keller).

L’entrata in scena del personaggio di Rachel Keller è puro
Mann, in un locale la ragazza al karaoke (più giapponese di così non è proprio
possibile) sta cantando una versione con strofe in giapponese di “Sweet Child
O’ Mine” dei Guns N’ Roses, se non ci fossero altri episodi e una trama da
portare avanti, state pur certi che Jake e Rachel finirebbero lingua in bocca
in tempo due secondi, il tipo di amore a prima vista tipico della storie di
Mann, quello che inizia con uno sguardo (elemento chiave in tutta la poetica
Manniana) com’era stato per Cora e Occhio di Falco o tra John Dillinger e Billie.

“Perché non ti piacciono i Guns N’ Roses?”

Trattandosi di una serie tv le trame devono proseguire
seguendo il libro, anche se il responsabile della serie J.T. Rogers ha
dichiarato che gli autori si sono presi qualche libertà rispetto al testo
originale, anche per esplorare le vite degli altri personaggi, infatti “Tokyo
Vice” prosegue l’indagine anche se devo essere onesto, dopo il pilota di Mann
il suo metodico lavoro di ricostruzione e aderenza alla realtà viene un po’
meno.

Se il primo episodio è quasi tutto parlato in giapponese, in
altri episodi (“1×04 – I Want It That Way” dove viene fornita una spiegazione
tutta orientale alla canzone dei Backstreet Boys, dopo quel pezzo per voi non
sarà mai più lo stesso) ci sono scene in cui in redazione, tra
colleghi giapponesi, i dialoghi sono tutti in inglese, mi chiedo perché debbano
tutti parlare la lingua di Jake quando lui parla un giapponese perfetto, capisco
la concessione al pubblico, ma è chiaro che Mann era stato molto più realistico
nell’episodio da lui diretto.

Un’altra coppia di professionisti dediti al loro lavoro per Mann.

In ogni caso, “Tokyo Vice” resta una serie più che valida,
per uno come me tirato su con i film di Takeshi Kitano vedere tutte queste
trame investigative e questi Yakuza impegnati ad affettarsi le dita è una
gioia, per altro la serie a livello di gradimento ha ottenuto un alto numero di
ascolti negli Stati Uniti, quindi abbiamo la speranza che non faccia la
(brutta) fine di Luck (ammazzata prima del tempo), anche perché la prima
stagione si conclude salendo di colpi, sarà interessante proseguire l’indagine
di Jake, magari con qualche altro episodio diretto da Mann, non mi
dispiacerebbe affatto.

Ken Watanabe nella posa degli eroi della Bara.

Ma se “Tokyo Vice” prosegue, questa rubrica per ora, termina
qui la sua corsa, anche se sono sicuro che prima o poi arriveranno altri titoli
firmati dal regista di Chicago, proprio la sua biografia su Enzo Ferrari, ad
esempio, m’interessa molto. Ci tenevo a portare il cinema di Michael Mann su
questa Bara, in un mondo giusto, scorrendo le pagine dei Social-Così le
bacheche dovrebbero essere piene di film di Michele Uommo, anzichè sempre di
quella manciata di (per carità, bellissimo) titoli che tornano sempre fuori, dal
mio punto di vista Mann è un regista rispettato, ma troppo poco ricordato, forse
anche troppo poco compreso nella sua importanza, spero di aver
contribuito in minima parte per quanto mi è possibile ad averlo fatto conoscere
un po’ di più, per me è stato un piacere in quanto Manniano di lungo corso, mi
auguro anche per voi e visto che mi ha fatto il regalo di inserirla in “Tokyo
Vice” io gliela contro dedico… Musica!

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