Ci sono storie sportive che sembrano fatte apposta per il cinema, alcuni atleti hanno avuto vite e vicissitudini che nemmeno il miglior sceneggiatore di Hollywood potrebbe inventarsi, tra queste, metteteci pure dentro Tonya Harding.
Ora, ve lo dico fuori dai denti: temevo che una biopic sulla vita della famosa, anzi sarebbe meglio dire famigerata, pattinatrice avrebbe potuto essere un compitino, un filmetto decisamente meno interessante degli eventi reali come sono accaduti davvero. Anzi, a voler essere completamente onesto, temevo il classico film in cui un’attrice, normalmente considerata più per la lunghezza delle gambe (e Margot Robbie mi sembra un ottimo esempio) che per il talento, sceglie un ruolo per dimostrare a tutti che oltre che bella è anche brava. Ad aggiungere ulteriori sospetti il nome del regista Craig Gillespie quello del simpatico “Lars e una ragazza tutta sua” (2007) dell’anonimo “L’ultima tempesta” (2016) e dell’inutile (se non fosse stato per David Tennant) “Fright Night” (2011), insomma tutte le premesse per un film su commissione senz’anima. Ma con la stessa onestà ve lo dico: mi piace essere smentito, se il risultato sono film così.
Con tutto che non consideri nemmeno Margot Robbie così scarsa anzi, certo anche lei ha beccato un’infilata di film che puzzavano di cacca di scimmia, ma è la stessa che si è caricata sulle spalle la Suicidio Squadra portando in scena l’unico personaggio valido del film. Alla luce del risultato finale, contante pure questo “I, Tonya” tra le migliori prestazioni della bionda attrice, garantito al limone.
La prima intuizione azzeccata del film, è quella di cominciare con la frase sullo schermo che mette in chiaro un dettaglio fondamentale: «Tratto dalle vere interviste dei protagonisti, senza ironia». Frase che mette in chiaro che i singoli personaggi rappresentano i punti di vista delle loro controparti reali, ma anche il fatto che l’ironia, proprio perché non voluta, verrà fuori da sé in alcuni momenti.
Gillespie alterna il racconto cronologico della vita di Tonya Harding, alle interviste dei personaggi, filmate in 4:3 cronologicamente adeguato anche al racconto che copre gli anni ’80 e poi giù fino al fatidico 1994, l’anno di quello che tutti i personaggi chiamano “The Incident”.
La prima cosa da dire è che “L’incidente” tra Tonya Harding e la sua diretta rivale, la pattinatrice Nancy Kerrigan (Caitlin Carver) lo conoscevo, cavolo! È stato uno dei momenti chiave degli anni ’90, superato solo dalla storia dell’ex presidente Clinton e i suoi passatempi con le stagiste, per restare in campo squisitamente sportivo, per assistere a qualcosa di simile al ginocchio frantumato di Nancy Kerrigan, abbiamo dovuto attendere il famigerato morso di Mike Tyson ai danni dell’orecchio di Evander Holyfield nel 1997, cacchio se me lo ricordo quell’incontro con finale da film Horror.
Di estremamente azzeccato ho trovato il fatto che giocasse sulla memoria comune degli eventi, non vorrei scomodare l’effetto Mandela, ma attorno a “The Incident”, il coinvolgimento diretto di Tonya Harding è stato ingigantito dall’odio che la bionda si è attirata attorno, negli anni ’90 per chi non ha approfondito molto la cronaca dei fatti, pareva quasi che la Harding avesse gambizzato la sua rivale prima di una gara, non è andata proprio così ed è proprio qui che “I, Tonya” prende il volo diventando un ottimo film.
La sceneggiatura di Steven Rogers (ma chi è Capitan America?) sottolinea molto bene come Tonya sia sempre stata un fenomeno del pattinaggio, fin da quando alla tenera età di quattro anni, dava pastina alle ragazze più grandi battendole nelle gare. Una tensione a competere frutto di un misto tra talento naturale e un ambiente aggressivo, ben rappresentato da mamma LaVona Harding, la bravissima Allison Janney che si è anche accaparrata un Oscar per questa sua ottima interpretazione.
Tonya non è affatto un personaggio simpatico, è un maschiaccio con un talento che levati, ma levati proprio, in uno sport che pretende che le pattinatrici si attengano ad un canone estetico che il più delle volte travalica il vero talento sul ghiaccio.
Le pattinatrici sono tutte principessine Disney, sorridenti e dai vestiti caruccetti, distanti circa un milione di anni luce dalla Harding, una che va a caccia, spacca la legna, ma, soprattutto, spacca sui pattini, una camionista prestata ad una disciplina che richiede modi raffinati e femminilità vecchio stampo, un’immagine da famigliola perfetta americana che stona con uno che entra in scena e strabilia sui pattini, sulle note di pezzacci southern Rock tipo la fighissima “Sleeping bag” degli ZZ Top, in una scena che in un attimo mi ha fatto patteggiare per Tonya, se non altro per l’ottimo gusto musicale.
Ed è proprio qui che “I, Tonya” funziona alla grande e, lo ammetto, mi ha conquistato, la Harding è un personaggio per cui, in teoria, sarebbe impossibile provare empatia, costantemente impegnata a ripete «Non è stata colpa mia» come in una brutta imitazione di Bart Simpson, questa sua auto indulgenza verso sé stessa, è dettata anche da un caratteraccio e da una testa decisamente dura. Sì, perché Margot Robbie è molto brava a caratterizzare Tonya come una gran lavoratrice, una capace di farsi un culo così per eccellere, ma con una testa durissima in cui un pochino mi sono riconosciuto.
Alla fine il discorso è sempre lo stesso: non è tanto importante cosa fai, alla fine verrai sempre giudicato per il modo in cui lo fai, puoi metterci infinita passione, ma senza modi particolarmente raffinati, nessuno giudicherà mai il tuo vero talento, perché a prevalere sarà sempre la percezione che le persone hanno del tuo atteggiamento. Tutte le sfuriate contro gli arbitri per i punteggi non assegnati, non vengono percepiti come vera passione per lo sport, ma come colpi di testa di un personaggio al limite, una che viene definita la Charles Barkley del pattinaggio, vuoi per l’apprezzato paragone cestistico, vuoi per approccio incazzato contro autorità e convenzioni, il film ha trovato il modo giusto per farmi riconoscere un po’ in questa pattinatrice incazzata con il mondo.
Craig Gillespie non sporca il foglio e sottolinea alcune scene con la giusta selezione musicale, quella di “I, Tonya” è davvero ottima, oltre ai gli citati ZZ Top, si gioca tante ottime canzoni, tipo “Gone Daddy Gone” dei Violent Femmes, durante le tante liti famigliari tra Tonya e il baffuto marito Jeff Gillooly (Sebastian Stan), oppure la sempre bellissima “The chain” dei Fleetwood Mac durante il complicato processo, mediatico e non solo alla Harding. Certo, alcuni passaggi sono un po’ faciloni, tipo usare “Romeo and Juliette” come sottofondo all’amore che sboccia tra Tonya e il futuro marito, ma secondo voi io posso lamentarmi con qualcuno che utilizza di Dire Straits in un film? Ma dai, non scherziamo!
La vera intuizione, quasi al limite del geniale, che trasforma “I, Tonya” in una biopic per nostra fortuna lontana dalla mera descrizione degli eventi come sono accaduti, è il fatto che Craig Gillespie e il suo sceneggiatore dal nome da supereroe, lentamente inclinano il piano sotto i piedi degli spettatori, con il risultato che le due linee narrative, quella della narrazione del passato e il presente in cui i protagonisti intervistati in 4:3 raccontando il loro punto di vista, lentamente cominciano a mescolarsi, non proprio Martin Scorsese, però il suo nome è il primo che mi viene in mente, se non si fosse capito, è un complimento.
Il risultato è che in maniera molto naturale, gli attori si ritrovano ad infrangere l’unica regola che al cinema non dovrebbe mai essere infranta, ovvero quella di non guardare mai in camera e, anzi, si rivolgono direttamente al pubblico. Un azzeccatissimo gioco quasi meta cinematografico che mescola realtà e finzione, in cui i personaggi reali (ma interpretati da attori tra cui compare anche il bravo Bobby Cannavale, nel ruolo di un giornalista) raccontano la loro verità direttamente al pubblico, quasi un modo per usare il cinema, per rispondere direttamente alla confusione legata agli eventi che hanno marchiato di infinita infamia la vita di Tonya Harding.
Non è un caso che i personaggi ripetano frasi come «Questa parte della storia non è vera», oppure che abbattano la parete che separa personaggi e pubblico, come accade nella parte centrale del film dove LaVona Harding cede minuti sullo schermo agli altri personaggi e l’attrice che la interpreta Allison Janney pronuncia la frase «Sto uscendo dalla storia». Un trucchetto che ha anche risvolti divertenti, come quando Tonya/Margot Robbie durante l’allenamento per tornare in forma, dicono al pubblico: «È così che Rocky ha battuto il Russo» il tutto mentre la pattinatrice è impegnata in un Training Montage, in pratica la mossa segreta cinematografica di Rocky Balboa!
Merita una menzione speciale proprio Allison Janney, non tanto perché ha vinto un Oscar e in questi giorni si sta godendo la meritata visibilità che il premio comporta, quanto perché la sua LaVona Harding riesce ad essere una madre castrante, una vera arpia che non solo ti aiuta a simpatizzare per Tonya, ma che incarna alla perfezione l’archetipo di questo tipo di personaggio. Che poi se vi ricorda vostra madre… Vabbè, sono dettagli dai, non formalizziamoci, su!
Margot Robbie qui è davvero molto brava, senza strafare mai, riesce a portare in scena una donna che non ha paura di auto definirsi “Redneck” per i suoi atteggiamenti, ma nella quale è impossibile non vedere la sua vera e sincera passione per quello che fa e per lo sport che ama. La prima atleta americana ad eseguire un triplo axel, una specie di follia che non solo ci viene descritta nel dettaglio, e mostrata giustamente a rallentatore da Craig Gillespie, ma anche un momento che per il personaggio è un apice professionale e personale che può essere raggiunto solo da chi è abbastanza matto da credere nel suo talento e avere le palle per lanciarsi in una tripla piroetta su se stessi, il tutto mentre pattini alla cieca all’indietro.
Proprio per questo il finale è ancora più sofferto, se non conoscete la fine della carriera della Harding non vi rivelerò nulla, ma Margot Robbie è molto brava nel far arrivare anche all’ultimo spettatore, la passione che praticare uno sport che ami ti può dare o ti può togliere, solo perché i tuoi modi non sono i più pettinati che si trovano in circolazione.
Poi lo dico sempre che ho una certa predisposizione per fare il tifo per il cattivo, ma ci vuole anche un certo talento a rendere un personaggio complicato quello per cui viene voglia di fare il tifo e, perché no, anche immedesimarsi, insomma mi piace quando un film riesce a farmi cambiare idea, per fare una biopic su un personaggio controverso come Tonya Harding, direi che questa era proprio la strada giusta da percorrere. O da pattinare, fate voi.
Sepolto in precedenza lunedì 12 marzo 2018
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing