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Ultima notte a Soho (2021): a Londra… un ottobre rosa shocking

A volte vorrei trovarmi nel futuro, non tanto per ordinare una Pepsi perfetta al caffè 80 o per farmi un giro su un Overboard (anche se…), ma per poter giudicare i film dalla poltrona comoda del miglior critico cinematografico di sempre, Padre Tempo. Oggi stiamo qui a discutere se il primo tempo di Baby Driver e di “Ultima notte a Soho” siano meglio del resto, ma ho la sensazione che stiamo tutti un po’ guardando il dito e non la luna, quindi mi sbilancio, Padre Tempo mi dirà se ho ragione oppure torto.

Io sono sicuro di due cose, la prima che Edgar Wright stia mettendo su una filmografia di quelle invidiabili, quelle per cui altri suoi colleghi darebbero via tre dita di una mano per averla, l’altra è che arriverà dicembre e con lui le classifiche di fine anno, quelle che io come sapete non faccio mai, perché sono impegnato ad ammazzarmi di dolci natalizi e guardare altri film (tanto per cambiare), ma sono sicuro che almeno per me, “Ultima notte a Soho” sarà uno dei film migliori del 2021 e ve lo dico a novembre, quindi se siete con me, mettetevi comodi e godetevi il vostro amichevole Casidy di quartiere che tesse le lodi di quel genietto di Edgar Wright, per tutti gli altri, lungi da me farvi cambiare idea, ma mi sento abbastanza motivato da provare a darvi qualche spunto di riflessione, tanto l’ultima parola sarà sempre di Padre Tempo, ma per arrivare alla fine di questo post devo fare una piccola deviazione, cercherò di essere breve, giurin giurello.

«Ci conviene metterci comodi, quando Cassidy dice così ci vogliono ore… Cornetto?»

Mentre guardavo “Last night in Soho”, beccato all’ultimo spettacolo di uno degli ultimi giorni di programmazione (fiuuu!) mi sono ritrovato a pensare ad uno dei commenti ricevuti sui social dal post di Cruising, non perché il film di Billy Friedkin e quello di Edgar Wright abbiano molto in comune, più che altro perché tra i commenti mi sono imbattuto, in quello di un tale che sosteneva che oggi, un film così non permetterebbero di farlo, riferendosi nemmeno velatamente alla lobby LGBT+ (A, E, I, O, U… YPSILON!) che vuole fare diventare gay i vostri figli correggendo loro il caffè a colpi di politicamente corretto alla grappa. Servito a poco far notare che Friedkin e Pacino ai tempi, girarono il film tra picchetti e lanci di sassi, o che nel 2020 sia uscita un’altra versione di un film a tema omosessuale reso celebre proprio da Hurricane Billy, perché tanto l’interlocutore aveva la sua idea, diciamo leggermente conservativa, per cui il passato fosse migliore, signora mia qui una volta era tutta campagna e si stava meglio quando si stava peggio!

Però il passato prima di rimpiangerlo devi conoscerlo, studiarlo come bisogna fare con i film e le opere del passato, per capire meglio quelle di oggi, infatti da questo punto di vista “Last night in Soho” è il miglior film che potesse uscire oggi, in cui Hollywood si sta aprendo a certe tematiche inclusive mentre il pubblico, sembra sempre più interessato alla malinconia, il passato come la coperta di Linus.

A questo proposito, beccatevi questo meraviglioso poster che sembra uscito dal 1965.

Ma sapete perché ritengo che Edgar Wright sia un genietto? Perché ha diretto una serie meravigliosa e una trilogia (del Cornetto) anche migliore? Si anche per quello, ma soprattutto perché sfoggia un approccio che personalmente amo: Edgar Wright è uno studente di cinema, uno di quelli che chiamato alla lavagna, non ripete la lezioncina imparata per superare l’interrogazione, ma dimostra di averla davvero capita quella lezione, di averla assimilata così tanto da averla fatta sua, che poi è la differenze tra il buon studente e chi ripete a pappagallo e poi riempie il suo film di strizzate d’occhio e gomitate al pubblico, per far vedere di essere uno di noi, sapete a chi mi riferisco.

Edgar Wright ha imparato la lezione di Walter Hill, quella di Romero, di John Woo, persino il formato dei Manga e dei videogiochi e potrei andare avanti a lungo, perché con “Last night in Soho” ha firmato un film che non so dirvi se sia più personale del bromance della trilogia del Cornetto, ma sicuramente maturo, sia dal punto di vista della regia che ammettiamolo, qui è una gioia per gli occhi anche grazie alla fotografia di Chung Chung-hoon, un film così sentito che oltre a scriverlo a quattro mani con Krysty Wilson-Cairns (lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torniamo) lo ha fatto affidandosi ancora una volta alla tradizione cinematografica e letteraria che lo ha preceduto, da vero studente Wright ha scelto di raccontare la sua storia dal punto di vista dei personaggi femminili. Tanti autori uomini lo hanno fatto prima di lui, penso a Terry Gilliam oppure a Satoshi Kon e potrei perdermi in parallelismi tra il film del regista Inglese e “Perfect Blue” (1997), ma poi finirei per essere più palloso verboso palloso del solito.

Il doppio, lo specchio e tutta quella bella roba lì in questo film abbonda.

Potremmo dire che le donne nel cinema di Edgar Wright non sono mai state protagoniste assolute, quindi questo cambiamento poteva essere una “paraculata” per mettersi in scia all’andazzo generale del cinema contemporaneo, ma sarebbe un errore di valutazione, perché nel cinema estremamente maschile di Wright le donne sono sempre state personaggi chiave, come appunto solo una donna nella vita di un uomo può essere, tutti i “maschietti” di Wright crescono anche in funzione di un personaggio femminile, anche se è corretto dire che l’unica donna a ricoprire un ruolo da protagonista sullo stesso livello dei maschietti, era Daisy Steiner. Quindi la scelta di avere una donna come protagonista (anzi due!) poteva sembrare un cambiamento epocale per Wright, ma secondo me è solo una coerente evoluzione del suo cinema, che ancora una volta risulta essere citazionista e post-moderno (e con questa parola mi gioco la mia quota da critico con pipa e occhiali) ma sempre in puro stile Wright, ovvero facendo propria una tradizione e una lezione cinematografica precedente, quella del Giallo all’italiana.

Già perché quando Eloise “Ellie” Turner (una fantastica Thomasin McKenzie) raggiunge il pub dove lavora sotto una pioggia torrenziale, è impossibile non notare che sia l’omaggio di Wright alla scena iniziale di Suspiria e a ben guardare ci sono omaggi anche ad “Inferno” (1980) di Argento – divertitevi a scovarli – ma più che a Darione nazionale, Wright risale la fonte fino al Maestro di Argento, perché inutile girarci attorno, tutto il cinema giusto nasce da Mario Bava e prima o poi da lui bisogna tornare.

Bianco, rosso e Marione (Bava)

L’ambientazione nel mondo della moda, quell’uso massiccio di colori verdastri e rossi intensi, il titolo di riferimento è sicuramente “Sei donne per l’assassino” (1964) il film con cui Bava così, decise che nella sua carriera aveva tempo anche per codificare il Giallo all’italiana ma fosse solo quello, oltre a fare sua la lezione del Giallo, Edgar Wright ci mette dentro anche la “ghost story”, impossibile non notare quanto il montaggio abbia imparato molto da “A Venezia… un dicembre rosso shocking” (1973), perché forse noi abitanti di uno strambo Paese a forma di scarpa non lo capiamo in pieno, ma l’influenza di Nicolas Roeg sui registi inglesi è sempre stata fortissima.

So cosa state pensando: che palle! Se non ho visto duecento film mi farò due maroni così a guardare “Ultima notte a Soho” e invece no, perché Wright omaggia e strizza l’occhio ma non sottolinea, o per lo meno lo fa molto meno rispetto al padrino del post-moderno Quentin Tarantino, anche se a ben guardare “Last Night in Soho” riesce anche ad essere una sorta di C’era una volta a… Hollywood in terra di Albione, se Tarantino omaggiava e ricostruiva con dovizia di dettagli la Los Angeles del 1969, Edgar Wright fa lo stesso con la Londra del… 1965, visto che la protagonista di ritrova davanti al cartellone di “Agente 007 – Thunderball” in programmazione in sala.

«Le dispiace se la mia amica si siede un po’? È stanca morta» (cit.)

So cosa state pensando (secondo estratto): che palle! Un’altra di quelle robe malinconiche ma vi fermo subito, perché in realtà la storia di “Last Night in Soho” con tutto il suo primo atto (e buona parte del secondo a ben guardare) è il trionfo della semplicità, se non proprio di una storia che abbiamo già visto tante volte, solo diretta come gli Dei del cinema comandano.

Eloise “Ellie” Turner (Thomasin McKenzie) vive con Zia May la nonna (Rita Tushingam) in Cornovaglia, ma sogna di poter fare moda a Londra, anche se ha perso la mamma che in passato ha sofferto di problemi mentali. Il romanzo di formazione comincia quando Ellie si trasferisce nella grande città per studiare moda alla London College of Fashion, facendo per altro il percorso inverso di Nicholas Angel (segni di continuità). Qui avete già capito cosa succede perché è la storia più vecchia del mondo, tanto che la cantavano anche non uno, ma due dei miei preferiti: difficile essere dei santi in città, specialmente quando hai una compagna di stanza stronza come Jocasta (Synnøve Karlsen), quindi meglio trasferissi in un piccolo monolocale a Soho, vicino ad un bistrò francese che cucina tutto il giorno e copre tutti gli odori (perché ogni elemento nelle sceneggiature di Wright ha un ruolo, anche i dettagli), gestito dalla signora Collins, interpretata per altro dall’indimenticata e indimenticabile Diana Rigg, la mitica Emma Peel nella serie televisiva “Avengers”, che io pensavo qui avrebbe avuto un piccolo ruolo invece oltre ad essere dedicato a lei, il film è il migliore possibile per concludere una grande carriera.

Gli uomini preferiscono le bionde regine degli scacchi.

Nella sua nuova stanzetta e nella vita di Ellie, irrompe l’elemento sovrannaturale, ogni notte quando si addormenta, la ragazza sogna di essere nel migliore dei posti e dei tempi possibili, il suo letto è un TARDIS che la spara nella Londra degli anni ’60 e come Scott Bakula, ogni volta che si specchia vede riflessa un’altra, la bionda Sandie (la regina degli scacchi Anya Taylor-Joy, che ha gli occhi per essere una sorta di Barbara Steele ma con i capelli di Brigitte Bardot), che nel prestigioso Café de Paris conosce il Teddy Boy del locale, Jack, interpretato da uno dei miei preferiti, Matt “GERONIMO!” Smith, giusto perché prima ho citato il TARDIS, un attore che qui non ha nulla del suo Doctor (Who) e ricorda più le luci e ombre del suo Filippo, anche se entra in scena con il principe azzurro, pronto a rompere la mascella a chi infastidisce Sandie.

Tutto bello, tutto già visto perché andiamo, è la storia della bionda scesa dal bus, arrivata per diventare famosa, masticata e sputata dalla grande città, nulla di nuovo sotto il sole no? Appunto, perché Edgar Wright e Krysty Wilson-Cairns voglio dirci proprio questo, il passato non è un posto sicuro, non si stava meglio quando si stava peggio, i maschi viscidoni con le mani lunghe che vogliono infilarsi nelle tue mutande non li ha inventati Harvey Weinstein, quindi per raccontarci la prima parte del film, il viaggio nel tempo Edgar Wright ci scarica addosso tutto l’armamentario (gioiosamente) bellico del suo talento di regia.

Bowties Teddy Boys are cool (quasi-cit.)

Quanto è difficile dirigere con gli specchi sul set? Certo oggi il computer può aiutarti a cancellare qualche macchina da presa riflessa, ma cosa vi dicevo sul fatto che Wright è uno di quegli studenti che dimostra di aver assimilato la lezione? Qui in alcuni momenti ci regala il suo “La donna che visse due volte” (1958) oppure “Body Double” (1984) se volete stare in zona Brian de Palma, con specchio riflesso se ti muovi sei un fesso Anya Taylor-Joy ovunque, perché il primo atto di “Last night in Soho” è puro talento registico, bello, proprio bello! Se vi piace il cinema, correte a vedere questa meraviglia registica sullo schermo più grande che riuscite a trovare perché è una gioia per gli occhi, soprattutto quando Wright se la gioca alla vecchia maniera e la prima (di tante, tantissime!) transizioni della sua protagonista, da Ellie a Sandie ricorda molto la scena dello specchio di “Dr. Jekyll & Sister Hyde” (da noi “Barbara, il mostro di Londra” del 1971), quando vi dico che questo genietto sa fare le citazioni, senza gettarle in faccia al pubblico.

Specchio specchio delle mie brame.

“Ultima notte a Soho” è la storia più vecchia del mondo, quella che al cinema abbiamo già visto tante volte, ma Edgar Wright, è talmente bravo che per tutto il primo atto (e mezzo), viene quasi da dimenticarselo perché la ricostruzione degli anni ’60 è impeccabile e dettagliatissima, i passaggi tra il sogno e la veglia (e successivamente gli incubi, perché comunque stiamo parlando di un horror) sono gestiti alla perfezione, non manca nemmeno il doppio risveglio dal “sogno nel sogno”, quello che faceva Landis (citando Luis Buñuel), quindi davvero non si può chiedere nulla di meglio a questo spettacolo che ti trascina prima nel mondo di Ellie e poi giù, nella tana del bianconiglio, in un viaggio sempre più lisergico dove i colori, avrebbero fatto la gioia di Mario Bava e le musiche fanno il resto, perché Wright ha sempre gran gusto nello scegliere i pezzi e lo fa sottolineando i passaggi della storia: “Happy House” di Siouxsie & The Banshees per la nuova casa della protagonista e il classico della musica Northern Soul, “There’s a Ghost In My House” di R. Dean Taylor quando è il momento di introdurre la parte relativa alla “Ghost Story”, anche se si potrebbe analizzare tutto il film solo sulla base della colonna sonora, perché qui oltre a due versioni di “Downtown” spunta la versione originale di “I’ve got my mind set on you” e la canzone che dà il titolo al film, “Last Night In Soho” di Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich che riducono ancora la distanza con Tarantino, ma sto già andando lunghissimo così, quindi rientro nei ranghi del post.

Tutto quel giallo (o rosso? Vabbè nel dubbio quasi-cit.)

Non ho ancora letto nessuna recensione, faccio sempre così perché non voglio farmi influenzare scrivendo, ma i pareri su “Infernet” ricordano un po’ quelli su Baby Driver, una prima parte molto più riuscita della seconda anche per “Ultima notte a Soho” e mentre lo guardavo un po’ ci ho pensato… Per circa due secondi. Perché poi mi sono concentrato sul fatto che eccolo! Anche Edgar è caduto nella formula comoda – perché evita ogni genere di polemica – per cui nel film i cattivi sono tutti maschi bianchi eterosessuali, l’unico maschietto buono è di colore e infatti quando Ellie, ormai in preda alle visioni chiede aiuto alla polizia, la poliziotta la aiuta mentre il collega maschio ride di lei. Non ho fatto in tempo a disperarmi del fatto che anche Edgar ci era cascato, quando è stato proprio il regista inglese e la sua sceneggiatrice a ricordarmi di non dubitare mai dell’uomo del Cornetto, infatti se lo scollamento tra la prima e la seconda parte di “Ultima notte a Soho” c’è, l’ho avvertito molto meno rispetto a Baby Driver, anzi a dirla tutta è la seconda parte del film quella che dà senso alla prima, certo il primo atto è più affascinante ma proprio come in Dance of the clairvoyant dei Pearl Jam è il cambio di tempo della seconda parte di canzone, che mette in chiaro il senso del testo, quindi passiamo ai difetti e poi, ultimi cento metri di questo post.

Difetti: trattandosi di un Giallo vero e proprio, la parte relativa all’indagine non può mancare, sarebbe come togliere i revolver ad un Western, quindi se siete tra quella porzione di pubblico che ama etichettare un film come roba da poco, perché avete già capito come va a finire sui titoli di testa, sappiate che potrete farlo anche con “Last night in Soho” ma io ve lo dico, secondo me a fare così vi perdete qualcosa. Si certo le apparizioni “fantasmose” in CGI forse sono un po’ troppe, e non manca nemmeno il momento espositivo (anche noto come “spiegone”) che però è mitigato dalla svolta attorno al personaggio di Terence Stamp, una falsa pista riuscitissima per un personaggio in cui il mitico Generale Zod la mitica Bernadette, sembra tornare ai tempi di “Tre passi nel delirio” (1968). Ma io vi ero debitore di un’icona da chiudere e lo faccio nel prossimo paragrafo in cui vi avverto: seguono moderati SPOILER sul finale del film!

«Oh no! Il temibile paragrafo con gli SPOILER!»

Avete saltato la staccionata (occhiolino-occhiolino) nel paragrafo degli “Spoiler”? Bene quindi immagino che abbiate visto il film e perciò posso dirvi che Edgar Wright insieme a Krysty Wilson-Cairns dimostrano non solo di maneggiare le regole del Giallo all’italiana, ma anche di saper utilizzare il passato per dire qualcosa sull’attualità: non è vero che un tempo tutto era rosa (shocking) e fiori, per le donne non è cambiato proprio niente, certo ogni volta che nel film un personaggio dice che un tempo la musica e i vestiti erano migliori, sembra che lo dica anche Wright riguardo ai film, ma poi a muso duro come Pierangelo Bertoli tiene un piede nel passato e lo sguardo dritto al futuro, perché per i personaggi femminili nell’immaginario possono esserci solo ruoli da puttana o al massimo, da assassina per cui provare un minimo di empatia per quello che ha dovuto subire. Quando i “fantasmi” chiedono ad Ellie di liberarli e vendicarli, la ragazza sceglie il punto di vista che conosce, quello che ha vissuto (e noi spettatori con lei), sceglie di portare Sandie fuori da quello schema fisso ed è qui che “Ultima notte a Soho” pur rispettando la tradizione cinematografica del Giallo e delle storie di fantasmi, si conferma essere un film modernissimo, proprio quello di cui avevamo bisogno. Fine del paragrafo con moderati SPOILER!

Si perché era ora che qualcuno al cinema ci dicesse che il passato non è un terreno sicuro, le cose non vanno così (male) ora, su certi argomenti sono sempre andate male e dipingere tutto con il rosa (shocking) della malinconia non servirà a mandar giù i rospi (e i fantasmi) del passato. Pur tenendo due piedi ben piantati nel Giallo, Edgar Wright ha saputo con quel finale ribaltare la formula comoda delle rappresentazioni dei personaggi, dimostrando di essere molto più al passo con i tempi (e coraggioso) di quel parruccone di Ridley lo Scott sbagliato che invece, ha preferito barricarsi in difesa evitando ogni genere di polemica (e ogni polemica di genere).

«Terence mi diresti: inginocchiati davanti a Zod!», «Ti hanno mai detto che sei un nerd?»

Se qualcosa degli anni ’60 bisogna salvare, facciamo che siano le zone grigie in cui i personaggi venivano rappresentanti al cinema, non tutti buoni buonissimi e cattivi in via di redenzione, per quanto riguarda i colori invece, che siano il rosso del sangue e il giallo all’italiana, insomma quelli resi grandi da Mario Bava a cui questo giovane ma già grande Edgar Wright (Padre Tempo mi darà ragione, io lo so!) ha omaggiato così bene. Avercene di registi e film così! Ed ora se volete scusarmi, vado a festeggiare con un Cornetto, intanto vi ricordo la rubrichetta della Bara dedicata a Wright.

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