1969, Visinada, attuale Croazia, quella che un tempo chiamavamo Jugoslavia. Un ragazzino nemmeno ventenne nato e cresciuto a Chicago, appassionato di blues, horror, cinema, scimmie e tette è sul set di “I Guerrieri” (1970) dove lavora come aiuto regista. Ha un sorriso da Stregatto da tempia a tempia, sta facendo la gavetta quella da maniche tirate su, palla lunga e pedalare, si chiama John Landis, un mio vecchio amico.
Durante uno spostamento dovuto al piano di lavorazione, Landis attacca bottone con il ciarliero autista, un locale con un nome complicatissimo ma che si fa chiamare Sasha, come fior fiori di giocatori di basket arrivati da quell’illuminato angolo di mondo. Sfrecciando in auto su strade più che disastrate, Landis nota un gruppo di gitani, per uno come lui cresciuto a pane e cinema, gli sembrano usciti da L’uomo lupo di George Waggner. Il cervello di un cinefilo è sempre in movimento.
Sasha gli spiega che il gruppetto di persone è impegnato in un funerale gitano, ok va bene, ma perché l’uomo viene seppellito in piedi, in una buca nel terreno verticale? La risposta gli viene fornita un Sasha ridacchiante: «Così non può tornare», risposta di uno sconvolto Landis, «Come non può tornare? Come zombie intendi dire?». Il film con Clint Eastwood e Telly Savalas uscirà nei cinema l’anno dopo, ma i semi per un altro capolavoro erano stati gettati, mi piace pensare che tutta questa scena, sia avvenuta una notte di luna piena.
1973, la gavetta del mio amico John ha dato i suoi frutti, dopo aver lavorato con tutti e ricevuto lezioni di vita anche da John Huston, Landis sta dentro una tuta da scimmione. Con due spiccioli sta dirigendo il suo esordio e da “Scimmiologo” Doc, interpreta anche lo scimmione protagonista, un complesso costume creato da Rick Baker, un ragazzone con i capelli lunghi bravo bravo bravo con il trucco cinematografico, uno promettente insomma. In una pausa della produzione, quello che io immagino come un sudatissimo Landis emerso da sotto il costume da scimmia, racconta a Baker i suoi sogni cinematografici: il primo, quello di realizzare un film tratto da “Un americano alla corte di re Artù” di Mark Twain, una storia di viaggi nel tempo ma soprattutto di satira sul potere che a tutt’oggi, anno di grazia 2021, Landis non ha ancora realizzato. Siamo qui oggi invece per festeggiare i quarant’anni dell’altro grande progetto che il mio amico John sognava, una storia di lupi mannari, per certi versi LA storia di lupi mannari, con una trasformazione mostrata in primo piano. Baker fa sì con la testa, ancora non lo sa che proprio grazie al sogno matto di quel ragazzo di Chicago, lui arriverà a vincere il primo dei suoi tanti premi nominativi, dedicati allo zio Oscar.
1978, Warren Zevon frantuma le classifiche musicali con un singolo trascinante che fa ululare il mondo, la sua Werewolves of London è un pezzo satirico che sono sicuro Landis abbia cantato più volte. La canzone è stata rifatta da vari artisti, anche se la mia versione alternativa preferita resta Licantropo vegano degli Elii. Per la prima volta nel 1978, qualcuno ha utilizzato in modo ironico un lupo mannaro, tre anni dopo John Landis dirà la parola definitiva sulla questione comicità e luna piena, ma prima un altro passaggio chiave.
1980. La storia e tante interviste ci hanno tramandato un Joe Dante piuttosto tranquillo, quando Rick Baker, sua primissima scelta per occuparsi degli effetti speciali di quella pietra miliare che è L’ululato, ha abbandonato la lavorazione per rispettare la promessa fatta ad un amico (mezzo vestito da scimmione) e volare a Londra, dove John Landis aveva messo insieme un budget più che interessante (sei milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, pochi, ma comunque sei volte di più dei soldi di cui disponeva Joe Dante) gentile concessione della PolyGram Pictures. Se volete sapere la mia, secondo me Dante ululava alla luna parole che non possiamo ripetere, ma ha capito di non essere stato lasciato in braghe di tela perché il sostituto, l’ex assistente di Baker lasciato in dono a Dante insieme a qualche appunto sulla trasformazione di un cranio umano in un muso di lupo, si chiamava Rob Bottin, un vero genio che ha fatto più volte la storia. Ma è vero anche che quando Baker ha cominciato a lavorare al film di Landis, L’ululato era già nelle sale, quindi Rick “Monster Maker” ha potuto migliorare qualcosa che il suo discepolo aveva fatto poco prima, ma contando su un budget più alto.
1980 (secondo estratto). John Landis è sulla cresta di un’onda altissima e le cavalca al grido di «Cowabunga!», il decennio che lo vedrà totale protagonista, quello che più di tutti lui ha saputo interpretare meglio (e con più ironia) è appena iniziato. “Animal House” (1978) e The Blues Brothers sono titoli di culto, Landis è appena trentenne, potrebbe fare qualsiasi cosa, ne è consapevole e con la faccia di tolla che lo contraddistingue fa la sua scelta. Con buona pace di Mark Twain, Landis sceglie di fare un horror, un genere a cui aveva già reso omaggio nel documentario antologico “Coming Soon” (1982). “Un lupo mannaro americano a Londra” strizza l’occhio sia a Twain che a Zevon nel titolo, è una sceneggiatura che ha dato da lavorare a Landis per anni, perché oggettivamente brillante e scritta benissimo, ma che nessuno ha mai voluto produrre, troppo horror per una commedia, troppo comico per fare paura. Alla sua uscita frantuma i botteghini incassando dieci volte il suo costo, a ben guardarlo non è nemmeno un horror puro (ma solo ad una prima occhiata distratta) ma basta per rendere Landis di colpo un “Master of Horror”. Con parti uguali di sconfinato amore per la materia (avete mai visto L’uomo lupo con il commento audio di Landis? È come guardare Un dollaro d’onore commentato da Carpenter, un’esperienza cinefila totale), una certa dose di irriverenza tutta Yankee e la volontà di rifarsi ad un archetipo narrativo classico ma in chiave moderna, John Landis firma un film geniale, che mi ha insegnato un’enorme lezione di cinema (e di vita): ci sono due cose che sono davvero difficili da fare (intendo bene) al cinema, far ridere e fare paura, Landis le ha sapute maneggiare entrambe distillando il fulmine dentro la bottiglia, questa è roba da stella logo rosso dei Classidy!
199boh, non ricordo. Ho visto “An American Werewolf in London” una sola volta perché al mio vecchio videonoleggio quel film era sempre non disponibile, ma tanto è bastata per renderlo un Classido. Un giorno a scuola, il mio vecchio professore delle superiori ci porta in sala video per ammorbarci con qualche palloso film sulla vita di chissà chi, sospetto Manzoni ma potrei sbagliare. Il mio professore era uno di quelli ingessati che Landis spernacchiava in “Animal House”, un vero soggetto. Quando apre l’armadio con le vhs il mio occhio cade su un titolo che non aveva nessuna cittadinanza in mezzo a quella roba scolastica polverosa, si trattava proprio di ”Un lupo mannaro americano a Londra”. Chiedo se posso portarmi a casa l’agonista cassetta con la promessa di riportarla il giorno dopo, ammetto di essermi fatto una copia del film conservata gelosamente per anni e utilizzata per ammorbare tutti i miei amici con quel film pieno di trovate geniali, ma alla domanda del mio professore non risposi mai: «Perché è interessato a quel film senza alcuna valenza culturale?», frase pronunciata con particolare enfasi sulla parola “alcuna” perché il mio prof parlava così, scandendo bene. Caro Prof, questo blog esiste anche per sbattersene delle etichette cinematografiche pensate da chi guarda film con la puzza sotto il naso, può considerare questo post la mia risposta alla domanda, chiedo scusa per il ritardo, ma mi sono preso del tempo per formularla a dovere.
“Un lupo mannaro americano a Londra” è un film estremamente classico, volutamente aggiungerei. Il suo inizio con gli avventori della locanda (l’agnello macellato, ricostruita come set nell’unico paesello gallese che non disponeva di un pub, nell’inverno del 1980, forse il più soleggiato mai visto dal Galles, per la somma gioia di Landis che invocava il freddo e la nebbia per girare la sua brughiera spettrale, storia vera) ricorda volutamente l’inizio di L’uomo invisibile anche se il film di riferimento resta ovviamente L’uomo lupo. Perché Landis non ha nessuna intenzione di discostarsi dal modello classico delle storie di lupastri, anzi per la sua storia segue fedelmente l’andamento reso iconico dal film di George Waggner: ragazzo spavaldo viene morso, seguono maledizione, mutazione, storia d’amore e finale tragico.
La volontà di Landis era quella di prendere il modello del film gotico rifacendolo identico ma in chiave moderna, il suo intento è chiarissimo fin da subito, David Kessler (David Naughton) e il suo amico Jack (Griffin Dunne) entrano in scena seduti sul retro di un camion pieno di pecore, uno di loro potremmo dire che è un lupo tra gli agnelli ma entrambi, sono destinati al sacrificio, perché per Landis la bellezza dell’uomo lupo sta nel suo essere un perdente nato, un uomo maledetto e marchiato che non potrà mai sfuggire al suo destino.
Landis intervistato nei contenuti speciali del DVD uscito in occasione del ventennale del film, paragona l’uomo lupo a quella vecchia barzelletta del tizio che litiga con la moglie, quella stanca di discutere con lui gli dice che ha ragione perché è uno scemo, è il più scemo della via, anzi di tutta la città, se ci fosse una gara regionale per il più scemo, chiamerebbero te, anzi, se il Paese o meglio il pianeta, avesse bisogno di un campione da schierare nella gara mondiale del più scemo, saresti tu e arriveresti secondo. Perché sei il più scemo.
Questo è l’esatto esempio portato da Landis per descrivere il suo uomo lupo, uno che non potrà mai vincere maledetto fin da prima di entrare all’agnello macellato facendo calare il silenzio tra gli avventori del Pub, per altro esperienza che mi è capitata identica con un Pub disperso nella campagna Irlandese (storia vera, ma senza stella disegnata sul muro).
Landis con questo film è alla ricerca del momento esatto in cui qualcosa di ridicolo, diventa improvvisamente spaventoso, da campione del mondo della commedia cresciuto a pane e film Horror, Landis è l’uomo giusto per ricordarci che l’Horror ha un elemento comico, il più delle volte il pubblico si rifugia nelle risatine per stemperare la paura, quindi questi due elementi sono strettamente legati e sempre seguendo l’esempio fornito dal mio amico John, questo film è un po’ come vedere il tuo migliore amico vestito da vampiro, sarebbe ridicolo no? Qualcosa su cui riderci su, ma farebbe ancora ridere se quello di colpo decidesse di piantarti i canini nel collo? “An American Werewolf in London” è tutto basato su quell’equilibrio sottile, ed è un Classido proprio per questo, perché fin dalla sua uscita in sala è diventato un gran film comico, ma anche un impeccabile pellicola dell’orrore, il padre nobile della commedia horror.
Landis tiene così fede alla struttura del film di George Waggner, come solo un ragazzo di origini ebraiche nato negli Stati Uniti potrebbe fare. Grazie all’infermiera curiosona scopriamo che David è ebreo, infatti i suoi incubi dopo il morso del lupo mannaro che maledice lui e trasforma il suo amico Jack in un cadavere ambulante sempre più marcio ad ogni apparizione (il trucco di Rick Baker è geniale, ma quel pezzettino di “carne” che dondola sul collo di Griffin Dunne quando parla, è davvero un tocco di classe), viene condito da Landis da una serie di incubi lupeschi uno meglio dell’altro.
Il mio preferito resta l’aggressione a casa Kessler di un gruppo di mostri in divisa da “SS”, l’omaggio di Landis alle origini ebraiche del personaggio di L’uomo lupo, ma anche ad una soluzione davvero classica dei film dell’orrore: l’incubo del protagonista.
Quanti horror avete visto dove il protagonista sogna qualcosa di orribile e si sveglia di colpo? Un milione lo so, ma alla faccia del mio vecchio professore che non aveva capito quanta valenza culturale ci sia in questo film, Landis strizza l’occhio a “Il fascino discreto della borghesia” (1972) di Luis Buñuel e rende la scena dell’incubo una matrioska di brutti sogni uno dentro l’altro, provocando spaventi quanto la bellissima infermiera Alex (quella meraviglia di Jenny Agutter, qui più bella che mai) viene prima accoltellata in sogno e poi sostituita da un’inserviente decisamente meno carino di lei da vedere di prima mattina appena alzati. L’ironia di Landis non prende prigionieri.
Potrei stare qui a raccontarvi il film scena per scena perché per quello che mi riguarda, ogni soluzione scelta da Landis è il frutto di un genio al massimo della sua creatività, pur sapendo che il suo protagonista ha il destino segnato, il mio amico John ci fa affezionare a lui, un ragazzo americano bene, che non è arrogante come i collegiali ricchi della Omega Theta Phi di “Animal House” ma che un giorno potrebbe finire a fare lo stesso lavoro di Louis Winthorpe III, a cui malgrado tutto finiamo per volere bene, malgrado la sua spavalderia tutta Yankee, David finirà per rappresentare l’uomo moderno, arrivato dalla “moderna” America, che finirà sopraffatto dalle tradizioni da vecchia Europa che lui considerava poco più che favole per bambini, ridicole fino al momento in cui il tuo corpo non comincia a contorcersi per il dolore della trasformazione.
Landis si gioca tutte le sue carte, dal suo marchio di fabbrica (lo sguardo in camera del protagonista, quando Alex afferma «Puoi guardare la tv mentre vado a fare la doccia») fino ad un finale, girato in due notti consecutive dalle due alle quattro del mattino a Piccadilly Circus, dove Landis può permettersi anche di “citarsi addosso”, portando in scena una versione in piccolo (e con bus inglesi) della fagiolata di automobili di The Blues Brothers. Anche se su tutto cala un’ombra sinistra: nei contenuti speciali del film Landis afferma che tutto è stato girato in assoluta sicurezza, la sua frase «Nessuno merita di farsi male per girare un film», alla luce di quanto accaduto sul set di “Ai confini della realtà” (1983), dimostra che i gradi di separazione tra il regista e il suo protagonista maledetto, sono meno dei canonici sei.
Incredibile come i due registi più colti e cinefili della loro generazione, come Joe Dante e John Landis, nello stesso anno, anzi a pochissimi mesi di distanza uno dall’altro, abbiano saputo rilanciare il mito dell’uomo lupo adattandolo al decennio più mutante, quello del Body Horror degli anni ’80, rendendo entrambi omaggio ai classici. Se i due giornalisti di Dante ricevevano dal film di George Waggner, l’imbeccata giusta per iniziare a sospettare dei lupi mannari, Landis mette in bocca al suo protagonista, ebreo, americano, giovane, spavaldo e cresciuto a pane e cinema (di fatto un suo alter ego), la soluzione del mistero descritta ad Alex raccontando proprio la trama del film del 1941. Perché per un uomo di cinema come Landis, le risposte si possono trovare solo nei film.
Anche se il gioco quasi meta cinematografico (con largo anticipo rispetto alla moda di Scream) di Landis è a tutto campo, il mio amico John ha la precisa volontà di rifare un film volutamente legato al cinema gotico e ai classici della Universal, ma allo stesso tempo gioca con il cinema in modo irriverente e fresco, non a caso la resa dei conti finali si svolge in un cinema si, però porno, dove il finto film per adulti che vediamo non è altro che il film tormentone citato in tutte le opere di Landis, ovvero “See you next wednesday”. Anche qui per una serie di allineamenti lunari, Landis si ritrova a dirigere un finto film per adulti dentro il suo film di lupi mannari, proprio come aveva fatto Joe Dante poco prima di lui, anche se con spirito completamente diverso, perché di fatto il “See you next wednesday” di Landis è una scusa per mostrare poppe e battute sceme. Ti voglio bene John, non cambiare mai.
Dove davvero “Un lupo mannaro americano a Londra” ha trascinato i lupastri dal cinema classico a quello moderno è nella scena della trasformazione di David, in un film dove la musica e i pezzi della colonna sonora, sono stati tutti scelti a tema licantropo (“Blue Moon” compare in due versioni tra cui la mia preferita, quella dei The Marcels), sulle note dei miei amati Creedence Clearwater Revival e della loro leggendaria “Bad Moon Rising” (di fatto una campana a morto, un ammonimento identico a «Guardati dalla luna piena») Landis e Rick Baker fanno la storia. La trasformazione di David avviene davanti alla macchina da presa, perché Landis voleva andare in direzione contraria alle dissolvenze incrociate viste in tanti anni di film licantropi, inoltre alza la posta in gioco. Joe Dante si giocava una fotografia scura, mentre Landis sembra urlare «Biascica, apri tutto!» e la trasformazione avviene senza ombre, in piena luce.
Tutto il lavoro di Rick Baker possiamo vederlo sotto i nostri occhi, mani e piedi che si allungano per diventare zampe, canini, peli che crescono, la scena con il montaggio finale dura circa tre minuti, ma con quel rumore di ossa che scricchiolano sembra una tortura infinita, una dolorosa metafora della pubertà (se non proprio di un’erezione, come ama ripetere nelle interviste Landis, ridendo di gusto) che per puro genio, termina allo scoccare dell’ora esatta di pellicola, come se fosse l’ideale mezzanotte del film. La notte del lupo mannaro può cominciare.
Infatti da qui in poi, Landis fa scatenare il suo lupo (a quattro zampe, non antropomorfo come quelli di Joe Dante) facendo sua la lezione di Steven Spielberg e dello squalo Bruce: non mostrare fa più paura. Infatti Landis ci suggerisce le dimensioni del mosto e poi mi regala materiale per la mia bizzarra teoria per cui ogni film dovrebbe avere una grande scena in metropolitana. Inoltre credo esistano cento o duecento numeri di “Dylan Dog” ispirati a questo film, dovessi citarne uno direi “Il sogno della tigre”, che omaggia proprio la scena della metro, che è una delle più belle della storia del cinema, alla faccia del film senza alcuna valenza culturale eh?
Landis tra classico e moderno, tra sacro e profano, scherza con i fanti (del cinema e delle istituzioni) e tocca anche i santi, infatti nel suo film David per farsi arrestare si fa gioco della famiglia reale, gli auguri per l’imminente matrimonio tra Carlo e Diana che compaiono degli spassosi titoli di coda, sono stati un modo per evitare l’incidente diplomatico, ma a distanza di tempo, sembrano l’ennesima campana a morto di un film pieno di sinistri presagi. Ma allo stesso tempo, grazie ai non-morti nel cinema a Piccadilly, persino il mito delle pallottole d’argento viene sbeffeggiato, perché quando sei tu a scrivere una storia, le regole le fai tu e Landis con questo capolavoro, proprio come faceva l’Americano di Mark Twain alla corte di Re Artù, le regole le ha omaggiate, sbeffeggiate e rigirate a suo piacimento.
Il risultato è ancora un film freschissimo, moderno e classico allo stesso tempo, che non risente per nulla dei quarant’anni che si porta sulla schiena pelosa. “Un lupo mannaro americano a Londra” non solo eccelle nella specialità del saper spaventare, ma anche in quella di saper far ridere, di tutti quei film nell’armadio scolastico dove l’ho scovato (lasciato da chi non lo so, ma ancora lo ringrazio) era l’unico che meritava di essere visto e rivisto. In linea di massima non ho mai smesso di farlo, grazie John e auuuUUUUUguri!
Sepolto in precedenza mercoledì 5 maggio 2021
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