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Un tranquillo weekend di paura (1972): per una volta il lunedì non sarà tanto male

Non sono mai stato uno da scampagnate all’aria aperta, quando mi ci ritrovo poi di solito mi diverto ma il primo istinto è sempre quello di stare tra le comodità della civiltà, forse ho visto troppe volte il film di oggi, una pietra miliare che compie cinquant’anni.

John Boorman è un regista sottovalutato, anzi uno che viene dato per scontato il che è ancora peggio perché il suo enorme talento ne esce sminuito, eppure in carriera ha regalato film iconici, a volte anche sbagliando ma sempre con i tratti distintivi dell’autore, infatti dopo il tonfo al botteghino del suo “Leone l’ultimo” (1970), Boorman dovette ingoiare il rospo rimandando il suo sogno di adattare per il grande schermo il più famoso romanzo di Tolkien, ne abbiamo parlato un po’ QUI.

In cerca di qualcosa di più sicuro da portare sul grande schermo, venne contattato dalla Warner Bros. che sottopose alla sua attenzione il romanzo “Dove porta il fiume” di James Dickey, poeta, scrittore con fama di eccentrico e corporatura massiccia, definirlo un carattere difficile sarebbe peccare di ottimismo ingiustificato, inoltre ci tengo a sottolinearlo, “Deliverance”, da noi trasformato in un chilometrico titolo alla moda di quelli italiani degli anni ’70, diventato però un’espressione di uso comune, quasi un modo di dire, per Boorman era il progetto facile, quello sicuro per passare poi a qualcosa di davvero più complicato e controverso. Ah quanto manca il cinema degli anni ’70!

L’idea di film su commissione per Boorman: violenza, tensione, stupri e morti ammazzati, altro che fine settimana di riposo!

A dirla tutta Boorman non era nemmeno la prima scelta, James Dickey tipo risoluto dalle idee chiarissime voleva Sam Peckinpah, già impegnato con l’altro grande titolo controverso dello stesso periodo, ovvero Cane di Paglia. Considerando come sono andate le cose tra Dickey e Boorman sul set di questo film (lasciatemi l’icona aperta, tra poco ci arriveremo risalendo il fiume) non so come sarebbe potuta andare a finire con Peckinpah nella zona delle operazioni, probabilmente a revolverate.

Con un paio di milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti stanziati dalla Warner Bros. il regista si è messo al lavoro, se il suo bellissimo “Senza un attimo di tregua” (1967) era liberamente tratto dal romanzo di Richard Stark, con Dickey non si poteva fare di certo lo stesso, lo scrittore pretendeva il controllo anche sul film, le prime scintille cominciarono a volare per i nomi degli attori, Boorman voleva affidare il personaggio dell’avventuroso Lewis al fidato Lee Marvin, Dickey per Ed sognava Gene Hackman, nel disaccordo la spuntò l’idea di Boorman: facce mediamente nuovo, per togliere punti di riferimento allo spettatore lasciandolo nel dubbio, in questo tranquillo fine settimana, tutti sono a rischio, anche il divo del film.

Tre, anzi quattro uomini in barca.

I contrasti sul contenuto della sceneggiatura, modificata da Boorman in complicato accordo con lo scrittore ma accreditata solo a quest’ultimo, si appianarono un po’ con l’arrivo del cast, Boorman pescò due attori visti a teatro destinati a diventare dei grandi caratteristi di Hollywood, a Ned Beatty il regista affidò il ruolo dell’odioso Bobby, mentre l’intellettuale armato di chitarra, forse il più razionale del gruppo, venne affidato ad un futuro specialista di cattivi cinematografici come Ronny Cox.

Per il ruolo dell’atletico e spavaldo Lewis, il regista aveva in testa Burt Reynolds, stuntman in gran forma che rimbalzava tra televisione e piccoli film, senza ancora i suoi monumentali baffi, il vecchio Burt vide la sua carriera completamente rivoluzionata grazie a questo ruolo. Per il vero protagonista della storia, o meglio il personaggio del gruppo che ha l’arco narrativo più legato al messaggio della storia, ovvero Ed, la Warner pretendeva almeno un nome se non proprio famoso ma almeno di richiamo, Jon Voight che arrivava dal successo di “Un uomo da marciapiede” (1969) era quello giusto.

«Rambo è una pulce!» (cit.)

Per il ruolo dei montanari Boorman cercò in giro tutte le facce più losche a disposizione, per i due personaggi venuti fuori dal bosco come spiriti maligni il regista pescò Bill McKinney, caratterista in un’infinità di western tanto intimidatorio quanto gentile con tutti nella vita reale, armato di un super potere speciale, un controllo tale sul suo corpo da permettergli di stare immobile interi minuti, utilissimo quando il tuo personaggio deve giacere morto su un tronco, mentre il resto del cast discute sul da farsi.

«Restiamo qui ancora un po’, voglio vedere fino a quanto riesce a non battere le ciglia»

Ma la trama prevedeva due montanari, dove trovarne un altro altrettanto convincente? Fu Burt Reynolds a suggerire un collega afflitto da balbuzie, analfabeta e primo degli incisivi superiori per via dei suoi trascorsi da cascatore, Boorman lo assunse senza nemmeno bisogno di un provino (storia vera). La stessa iconica e spaventosa «I bet you can squeal like a pig» è stata mezza improvvisata sul set, quando la Warner chiese al regista di dirigere due versioni delle scene più toste, una per il cinema e un’altra per i passaggi televisivi, Boorman si rifiutò giocandosi proprio quella frase usata per compensare il non mostrato (o solo accennato), direi missione compiuta John! La prima volta che vidi questo film fu da una registrazione di un passaggio in tv (sospetto Rete 4, solita indiziata), solo comprando il DVD scoprì che era una versione brutalmente tagliata da qualche censore della rete, sta di fatto che rimasi piuttosto sconvolto lo stesso, perché quello che non mostra nemmeno la versione integrale diretta da Boorman è ampiamente suggerito da quella frase… Brrrrr!

La preparazione per gli attori fu una specie di corso di sopravvivenza, i quattro dovettero imparare ad andare in canoa e a tirare con l’arco, il tutto sotto la supervisione del sergente istruttore Dickey, che si rivolgeva a loro chiamandoli esclusivamente con i nomi dei rispettivi personaggi, a sua detta per migliorare l’immedesimazione, ma se la preparazione è stata tosta, girare il film anche di più.

Quel sorriso quel maledetto sorriso (cit.)

Ad un certo punto per sottolineare la natura da uomo d’azione di Lewis, il personaggio dice «Non ho fiducia nella assicurazioni, preferisco il rischio», che potrebbe essere un po’ il motto con cui il film di Boorman è stato girato, visto che nessuno del cast aveva a disposizione una controfigura per stare nel budget e per assecondare la volontà di realismo di regista e sceneggiatore, una roba per cui oggi la produzione verrebbe chiusa nel giro di pochi minuti, ma negli anni ’70 si poteva ancora fare, quindi quando vedete il biondo Jon Voight arrampicarsi su una parete verticale, quello è proprio il futuro papà di Angelina Jolie che è andato su mani e braccia, forse invocandola per davvero una buona assicurazione (storia vera).

Se qualcosa fosse andata storta, non avremmo mai avuto Angelina.

Il film venne girato lungo il Chattooga River, tra la Georgia e il Sud Carolina, ribattezzato con il nome fasullo di fiume Cahulawassee. Avete presente tutti quei film che ancora oggi, nei titoli di coda sfoggiano la mela simbolo non di un’azienda di Cupertino ma dello stato della Georgia? Bene “Deliverance” è stato uno dei primi film ad approfittare degli sgravi fiscali voluti dal governatore, che hanno reso lo stato goloso per tante produzioni cinematografiche quindi anche da questo punto di vista, Boorman è stato pioniere, anche se forse gli avrebbe fatto più comodo essere pugile.

Già perché l’apice della tensione sul set, venne raggiunto quanto dopo l’ennesima lite sul contenuto e le modifiche alla storia, James Dickey piombò sul luogo delle riprese con la gentilezza di un Grizzly inferocito risultato finale? Rissa furibonda con Boorman, pare qualche naso rotto e alcuni denti saltati da ambo le parti e Dickey cacciato e portato via a forza dal luogo delle riprese (storia vera). Che poi è uno dei modi per noi maschietti di iniziare le amicizie, infatti una volta sfogati regista e scrittore diventarono quasi amici, la pace venne ufficialmente sancita da Boorman, che affidò a James Dickey il ruolo dello Sceriffo Bullard, lo vedete comparire negli ultimi minuti del film (storia vera).

Uno sceriffo extrascrittore… poco extra e molto scrittore.

“Un tranquillo weekend di paura” ha tutti i tratti distintivi del film drammatico e del Survival-Movie, prima di Boorman altri registi avevano portato in scena una trama che prevedeva dei civili provenienti dalla città, pronti a scontrarsi e venire massacrati da dei pazzoidi che vivevano come selvaggi, dimenticati dall’avanzare del progresso, ma Boorman lo ha fatto con i soldini della Warner Bros. per un film lanciato addosso al pubblico generico, di sicuro non pronto al pugno in faccia stile James Dickey che stava per arrivargli addosso, perché per certi versi “Deliverance” è il padre nobile di tutti quegli horror da deviazione sbagliata, inoltre è senza ombra di dubbio un Classido!

Il 1972 è stato un anno interessante per il cinema americano, nello stesso periodo un ex professore di Cleveland passato al cinema horror, portò in sala L’ultima casa a sinistra dove ammettiamolo, zio Wes Craven a livello di violenza, stupri efferati e sangue ha mostrato cento volte quello che porta in scena John Boorman nel suo film, ma per quanto il film di Craven sia stato fondamentale, anche solo per spostare in avanti il limite del mostrabile al cinema, giochiamo in due campionato diversi, anche per risultato finale: per il film di Craven gli spettatori venivano messi in guardia da una campagna promozionale ammonitrice (e ruffiana) per quello di Boorman invece zero, gli spettatori entravano in sala con la guardia bassa.

«Va tutto a gonfie vele, questa gita è uno spasso…»

Inoltre “Un tranquillo weekend di paura” ha creato il modello ancora molto in voga al cinema, del montanaro o Redneck (per utilizzare un’espressione yankee molto in voga), i contadinacci appartenenti a sacche resistenti alla civilizzazione che accoppiandosi per generazioni tra cugini, puoi considerarti fortunato se ti ammazzano solo quando gli capiti sotto le mani. Questo stereotipo archetipo è uscito dal bosco attorno al fiume Cahulawassee per entrare a far parte dell’immaginario collettivo, senza questo film, non avremmo avuto la famiglia Sawyer, portati al cinema da Tobe Hooper solo due anni dopoil film di Boorman, ma a ben pensarci anche i selvaggi di Le colline hanno gli occhi, sempre di Wes Craven che aleggia su questo post.

“Deliverance” rappresenta alla perfezione lo scontro tra l’uomo e la natura che per Boorman è sempre stato fondamentale, se in Excalibur dal lago usciva la spada del titolo, dal fiume Cahulawassee riemergono i sensi di colpa dei protagonisti, il messaggio di Boorman è chiarissimo, non esiste la natura selvaggia incontaminata e “buona” con l’uomo, anche perché ci siamo dati un gran da fare per distruggerla completamente, chiunque dovesse provare a sfidare la natura, nella migliore delle ipotesi, ne uscirebbe cambiato per sempre e in peggio, un nichilismo totale da cui non si sfugge, non è un caso se anche in “La foresta di smeraldo” (1985), la costruzione di una diga era una parte fondamentale delle storia.

«… Boccaccia mia quando imparerò a star zitto!»

Lo scontro tra uomo e natura, tra mondo civilizzato e quello selvaggio è senza quartiere, quando i protagonisti arrivano al limite tra i due mondi, trovano vecchi rottami di furgoncini arrugginiti, quasi un modo per suggerire che da qui in poi, la tecnologia non può più fare un passo nel reame della natura selvaggia, infatti l’unico momento di contatto tra locali, sembra quasi uno dei tentativi di convivenza tra nativi americani e Europei venuti a colonizzare, che è alla base del cinema Western e alla conquista dell’America.

Drew (Ronny Cox) quello con la testa più sulle spalle di tutti, mette in atto un tentativo di comunicare con i locali utilizzando una lingua universale (e quindi neutra, sopra le parti) come la musica, tutto questo in un trionfo di “Show, don’t tell”, John Boorman lo racconta con la scena diventata patrimonio della cultura popolare, anche chi non ha mai visto “Un tranquillo weekend di paura” sa riconoscere la mitica Dueling Banjosdove Drew duetta e improvvisa con un ragazzino frutto di qualche tara genetica di troppo, per utilizzare le parole di Bobby.

Lo so che ve la state canticchiando, vi sento da qui.

Per altro esiste una controversia sulle genesi della mitica “Dueling Banjos”, qualcuno sostiene sia un mezzo plagio, altri che sia una variante su dei pezzi folk di pubblico dominio, sta di fatto che nel dubbio sulla paternità, Boorman si è portato a casa un disco d’oro, rubato dalla sua casa di Dublino da un mafioso Irlandese, Karma? Chissà, questo aneddoto è entrato in parte nella trama del suo film “The General” (1998).

Trovo significativo il fatto che dopo il tentativo di avvicinamento in musica tra i rappresentanti dei due mondi in aperta lotta, davanti alla volontà ferrea dei ragazzi di città di “andare a spaccarsi le corna” (cit.) lungo il fiume, il momento “Quasi amici” venga chiuso per sempre con la seconda ed ultima apparizione del ragazzino del Banjo, che appeso sopra un ponte di corda lascia dondolare il suo strumento come a dire «La musica è finita, da qui in poi siete soli», infatti nemmeno il tentativo di chiedergli di suonare ancora da parte di Drew, mimato con il remo al posto della chitarra, ottiene risultati, da qui in poi i quattro sono soli contro la natura selvaggia.

Il fiume Cahulawassee può mettere a dura prova anche il vecchio Burt.

Alla prima rapida superata con successo, Bobby tronfio dichiara di aver battuto la natura, ma Lewis lo ammonisce, non si può battere la natura infatti è qui che “Deliverance” si conferma un horror, o per lo meno il padre nobile di tanto horror da strada sbagliata imboccata per errore. Chi ci è andato più vicino a replicare questo film è stato un altro grande uomo di cinema come Walter Hill, ma la violenza e la relativa caccia all’uomo di I guerrieri della palude silenziosa nasce per un’incomprensione molto simile a quelle che ci sono state durante la conquista del West tra nativi e coloni. I soldati di Walter Hill, arrivati solo un anno dopo gli escursionisti di Boorman, vengono uccisi per quello che sono, ovvero i soldati che ci hanno sparato addosso colpi a salve, mentre Ed, Lewis, Bobby e Drew vengono violentati e uccisi per quello che rappresentano: la civiltà venuta con le macchine a costruire una diga che farà scomparire tutto il panorama sotto il pelo dell’acqua.

Ed è proprio qui che “Deliverance” si erge come padre nobile del cinema horror, perché Bobby, quello più lontano da tutti dalla natura, il tizio di città arrogante insofferente ai locali e irrispettoso nei loro confronti viene violentato durante un’aggressione immotivata, ma pensateci ci vuole una motivazione per l’orrore? Non fa già abbastanza paura per sua stessa natura? Laurie Strode inseguita da un pazzo mascherato armato di coltello fa paura, senza bisogno di conoscere le motivazioni di Michael Myers, allo stesso modo lo stupro di Bobby è un gesto senza motivazione alcuna, atroce quanto quello subìto dalle protagoniste di L’ultima casa a sinistra, spiazzante ancora oggi a cinquant’anni dall’uscita nel film, figuriamoci cosa deve essere stato per il pubblico in sala allora.

«Avevi detto che era una commedia con alcuni amici in gita!»

John Boorman toglie ogni punto di riferimento al pubblico, dopo quella straziante scena di stupro, dove viene mostrato pochissimo ma resta una tortura lo stesso, questo film che ha lasciato i guanti bianchi sul sedile posteriore dell’auto parcheggiata prima di salire a bordo delle canoe, lascia il pubblico senza un attimo di tregua (occhiolino-occhiolino) e anche lo spavaldo Lewis, quel Burt Reynolds che ci siamo abituati nel corso degli anni a veder trionfare, passerà la seconda parte del film con una frattura esposta a piagnucolare, un peso morto per i suoi compagni che per altro, li espone anche ai colpi di fucile del secondo aggressore.

Tra le tante scene chiave, di sicuro l’arrampicata di Ed, in cui Jon Voight metaforicamente per darsi forza, a metà della scalata guarda la foto della sua famiglia, prima di perderla per una folata di vento vedendola cadere nel fiume, il momento chiave per il personaggio, quello in cui perde anche l’ultimo legame con l’uomo di città che era, per trasformarsi completamente, la violenza come drammatico atto che mette in moto la trasformazione del personaggio, una formazione brutale che lascerà i suoi strascichi anche dopo la fine del weekend.

«Ma io ero anche obbiettore di coscienza mannaggia a voi!»

Già perché quando il pericolo immediato termina, con un drammatico scoccare di freccia, la tensione con cui Boorman logora lo spettatore non finisce, forse nemmeno dopo la fine dei titoli di coda (su cui riecheggiano ancora le note di “Dueling Banjos”, come uscita da un incubo), il tentativo di coprire le tracce ci fa patteggiare per i protagonisti, ma ormai siamo anche noi coinvolti in una storia dove non ci sono buoni o cattivi, non ci sono mai stati, dove al massimo ci sono cattivi e meno cattivi, infatti Boorman padroneggiando l’arte dello “Show, don’t tell” mostrandoci una chiesa caricata su gomme e spostata, come a voler dire che i valori qui lungo il fiume Cahulawassee non trovano un loro posto, anche se i protagonisti finiranno per sempre ad attendere e vedere se quello che hanno nascosto sotto il pelo dell’acqua riaffiori, di sicuro non la loro umanità, quella ormai è andata a fondo per sempre.

Niente dama de lago con la spada luccicante questa volta.

Poi chiedetevi perché ancora oggi, preferisco stare a casa tra le mie comodità, sono cresciuto con John Boorman e questo grande film e ne pago le conseguenze.

Sepolto in precedenza lunedì 7 marzo 2022

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