La prima notizia è che per scacciare un film tratto da un videogioco come Minecraft, dalla vetta dei film più visti, abbiamo avuto bisogno di un altro film tratto da videogioco, come questo “Untill dawn” (storia vera), che essendo anche un horror, ci conferma un paio di informazioni chiave.
La prima è che gli appassionati di videogiochi vanno al cinema e la seconda, quella che già sapevamo, nessuno batte gli horror nel primo fine settimana di programmazione, che comunque è un’informazione che conferma lo stato di salute del genere. Sulla qualità di “Until dawn” invece, possiamo parlarle anzi, facciamolo!
Non conosco il videogioco, lo sapete non sono un videogiocatore, ma come sempre quando non conosco qualcosa, faccio i compiti: il videogioco dei PlayStation Studios nasceva già come una sorta di “film interattivo”, con una struttura a bivi che dava ai giocatori la possibilità di influenzare la trama e la sopravvivenza dei personaggi.
Nel suo passaggio sul grande schermo, “Until dawn” va alla ricerca di una soluzione che sia per lo meno paragonabile, togliendo l’elemento interattivo, lo sceneggiatore Gary Dauberman (noto, o meglio, famigerato per la saga di “Annabelle”) opta per una soluzione ultra canonica, un altro Ricomicnio da capo in salsa horror, che per lo meno ricorda il modo in cui i videogiocatori “muoiono” per poi ricominciare a giocare.
Il tutto è stato affidato a David F. Sandberg, che dopo la doppia parentesi di Shazam, torna alle sue origini, lui che era artisticamente nato con un horror come Lights Out, che non ha abbastanza mestiere o talento per dare ritmo ad un film in cui la coerenza narrativa, non è certo la forza della storia, anche perché le regole del gioco cambiano, quasi di scena in scena, il che fa perdere parecchio a livello di coinvolgimento.
La trama ruota attorno a Clover (Ella Rubin), ad un anno dalla scomparsa della sorella, invece che chiamare “Chi l’ha visto?” pensa bene di radunare un branco di amici e mettersi alla ricerca della sorellina, l’inevitabile deviazione tipica degli Horror porta il gruppo in un centro di accoglienza abbandonato dove trovano alcuni indizi, una clessidra, un registro ripetutamente firmato e un volantino di persona scomparsa, dedicato alla sorella. Problema: ogni volta che uno o più dei personaggi vengono uccisi, come nei videogiochi al salvataggio, tornano in vita nello stesso punto, con l’obbiettivo di cercare di restare vivi fino all’alba, per giustificare il titolo e provare a spezzare il ciclo in cui sono intrappolati.
Purtroppo il meccanismo del giorno della marmotta ormai è abusato e si traduce in morti creative, ma prive del minimo coinvolgimento, anche perché gli elementi che caratterizzano la storia, come detto, sembrano cambiare di scena in scena, le regole d’ingaggio non sono chiarissime ma anche senza chiarirle (non serve sapere o spiegare tutto per creare tensione, anzi, spesso è il contrario), il film coinvolge poco e lascia molti dubbi, bisogna aver giocato al videogioco per capire i poteri del misterioso personaggio impersonato da Peter Stormare? Forse sì, ma da non giocatore, le eventuali citazioni e strizzate d’occhio con me, sono cadute nel vuoto.
L’unica cosa di cui sono certo è il carisma e la capacità di riempire lo schermo di Peter Stormare, attore che mi piace sempre ritrovare nei film, che anche qui conferma tutta la sua abilità pur predicando nel deserto di un film dallo sviluppo ben poco convincente.
L’apatia regna abbastanza sovrana, i protagonisti diventano presto carne da cannone per un filmetto che forse chi conosce il videogioco avrà apprezzato più di me, spettatore finito in sala solo per gustarmi un Horror che qui, nella sua mancanza di regole, sembra un grosso: ah beh! Ma allora così vale tutto, che però ha ben poco di creativo.
Perché alla fine il film si gioca anche una serie di bestiacce interessanti, assassini mascherati, Wendigo, demoni e bestie varie, ma la sensazione è stata di vedere un film che a sua volta ha visto un classico moderno come Quella casa nel bosco ma non ha saputo in pieno portarne in scena la lezione e devo dirlo, nel giro di poche settimane, è già il secondo titolo che pesca a suo modo dal film di Whedon e Goddard, il che è un bene, perché conferma l’importanza del film del 2012, ma è anche un male, perché la sua lezione ancora non viene applicata come si dovrebbe.
Sandberg si gioca tutto il suo mestiere, sa come utilizzare gli spazi e i “salti paura” (anche noti come Jump scare) fin dal cortometraggio che lo ha messo sulla carta geografica, ma in generale mi è sembrato di vedere il solito orroricchio per tutti, pensato per far saltellare gli adolescenti in sala sulla sedia, regalando loro il film tratto dal famoso videogioco di turno, uno spreco di loop temporali che pur essendo un argomento che sempre mi colpisce, questa volta, mi ha fatto alla lunga sbadialigliare.
Se poi ci mettiamo i monologhi di Stormare, interessanti solo per gli sguardi da pazzo dell’attore, il film si gioca i solito temi come la perdita e il lutto, in maniera molto ma molto abbozzata, se siete alla ricerca di un generico Horror con molte morti ma poca inventiva, sapete che cosa fare, intanto ragionate sul fatto che il cinema sia ormai da tempo vassallo di un media che al pubblico sta molto più a cuore e che al momento, smuove molti più soldi, ovvero i videogiochi, questa è la parte che da appassionato di cinema, mi fa più paura di un film come “Until dawn”.
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