Ormai dovreste saperlo che questa Bara ci tiene molto alle tradizioni, come ad esempio il compleanno di uno dei suoi idoli, il 7 gennaio è festa nazionale perché celebriamo Nicolas Cage, anzi, il premio Oscar Nicolas Cage… Rosicate, rosicate pure se siete quel tipo di cinefilo.
La mia è una battaglia contro i mulini a vento che rinnovo ogni 7 di gennaio, su Cage aleggiano etichette che altro non sono che frasi fatte comode per non lasciare i poveri di spirito fuori dalle discussioni di cinema sui Social-così, se così si possono definire quelle che spesso sono poco più che lancio di sterco a mezzo tastiera, e sono stato ancora gentile.
Mono espressivo, ma dove? Al massimo Cage ha il problema opposto di essere troppo espressivo. Raccomandato, ma quanto? Vogliamo fare i nomi di chi lavora davvero grazie alle parentele e solo a quelle? Inoltre… Premio Oscar, perché qui scivoliamo dritti nell’altra pozza di fango di chi considera i film e chi li realizza esclusivamente sulla base dei premi cinematografici. Infatti mi diverto tantissimo ad ascoltare quella tipica colonna sonora di denti digrignati, quelle crisi nere di bruxismo che colgono molti cinefili con la puzzetta sotto il naso quando ricordi loro che l’inespressivo (ah-ah) ha vinto un Oscar come miglior attore nel 1995, esattamente trent’anni fa, quindi brindiamo al doppio compleanno di oggi!
Per riprendersi, anche moralmente, da quel pasticcio produttivo che è stato “Bufera in Paradiso” (1994), Nicolas Cage si è andato a cercare un progetto in cui potesse dire veramente la sua in un ruolo da protagonista, lo ha trovato in “Leaving Las Vegas”, copione scritto dal regista Mike Figgis tratto dal romanzo omonimo di John O’Brien, morto suicida all’età di trentatré anni due mesi dopo l’inizio della produzione del film, tanto che Figgis pensò anche di mollare tutto, ma poi si convinse a completare le riprese in memoria dello scrittore (storia vera).
Qualcuno potrebbe sostenere che dal personaggio di Ben Sanderson, il nostro Nick Cage non sia mai uscito per davvero, visto che ancora oggi, ogni tanto viene beccato sbronzo all’uscita di qualche locale. Dall’altra parte si potrebbe malignare sul fatto che Nicola Gabbia abbia trovato il modo di farsi pagare, non tanto per bere, quando più che altro per portare avanti il suo studio sul personaggio, tra le tecniche utilizzate da Maestro Cage per calarsi nella parte, anche quella di riprendersi ubriaco con una telecamera portatile e poi esercitarsi a replicare la parlata, oltre a frequentare gruppi di alcolisti (storia vera).
Di base “Via da Las Vegas” è il classico drammone, condito da un abbondante sottotrama romantica o pseudo tale, il tipo di film che piace all’Accademy perché permette al cast coinvolto le trasformazioni che tanto piacciono alla commissione (e al pubblico) per una trama che in mani differente, sarebbe stata un ottimo modo per porre il pubblico su un ideale piedistallo, un po’ come a dire: magari nella vita potreste essere i peggiori in assoluto, ma dopo aver visto questo film vi sentirete comunque migliori dei protagonisti. Insomma, proprio la tipologia di storia, anche vagamente moralista di base che NON mi piace per nulla per via dei suoi intenti, eppure malgrado il suo punto di partenza, “Via da Las Vegas” è il classico film che ti resta addosso come la puzza d’alcool il giorno dopo la sbronza, che funziona alla grande grazie ai tre nomi principali coinvolti, il regista Mike Figgis (che a questo livello non si è esibito mai più) e le prove monumentali di Nicolas Cage ed Elisabeth Shue.
Le spiegazioni latitano in “Leaving Las Vegas”, o meglio ci sono se drizzate le antenne e leggete tra le righe, si inizia subito forte, con Ben Sanderson (Nicola nostro) che se la balla tra le corsie del supermercato, mentre getta nel carrello bottiglie di super alcolici come se non ci fosse un domani. Nella scena successiva in cui mendica un prestito all’amico produttore, di lui scopriamo che è uno scrittore, o uno sceneggiatore, forse entrambi, di sicuro è un alcolizzato che appena ha due soldi in tasca, corre a berseli tutti al bar, sbiascicando molesto anche attorno a Valeria Golino, in quella fase della sua carriera in cui faceva capolino nei film di Hollywood.
Menzione speciale per la funzione narrativa bipede, resa un personaggio almeno credibile solo dalla prova di Julian Sands, che ci permette di conoscere Sara, senza l’H, prostituta in terapia (anche se i suoi monologhi dall’analista servono solo a darci scorci del suo tosto passato) che incrocerà la sua vita con quella di Ben, che nei primi minuti è impegnato a cercare – invano – di domare il tremolare della mano da astinenza per incassare un assegno, salvo poi lanciarsi in una sorta di molestia alcolica a (breve) distanza con la bionda cassiera di banca.
Quando il suo datore di lavoro lo congeda, per ovvie ragioni, dando a Ben una buona uscita, lui fintamente pentito o forse no, corre a bersela tutta nella città del peccato, Las Vegas, ed è qui che dopo dieci minuti arrivano i titoli di testa del film, una versione estesa della regola dei cinque minuti iniziali, quelli che determinano tutto l’andamento di una pellicola.
Mike Figgis, anche compositore delle musiche, molte delle quali ben si sposano con pezzi cantanti da Sting, perfetto per dare parole e versi alla storia d’amore alla base del film, perché alla fine “Leaving Las Vegas” poteva essere solo un miscuglio di scene torbide, fino all’apice finale della scena di violenza sessuale, che come ben sapete, è proprio la tipologia di sequenza che mi fa friggere sulla poltrona per quanto mi risultino insopportabili, ma per nostra fortuna il romanzo di John O’Brien non avrebbe potuto finire in mani migliori.
L’ubriacone e la prostituta dal cuore d’oro, non riesco a pensare a due ruoli più ingrati da recitare e al tempo stesso ricattatori per il pubblico, eppure Nicolas Cage ed Elisabeth Shue qui riescono a dare una dimensione aggiuntiva a queste due anime perse, che si ritrovano nel momento giusto (o quello più sbagliato possibile, a seconda dei punti di vista) della loro vita e si consolano, senza potersi salvare uno con l’altra, anzi, con una base anche un filo ipocrita, perché è innegabile che i due a loro modo si amino, ma in più di un momento, avere al tuo fianco l’unico altro bipede messo peggio di te, può essere l’unica ragione per andare avanti.
Un rapporto sfaccettato, fatto di più ombre che luci ma quelle poche, abbaglianti, Ben e Sara, sono anche brutalmente sinceri l’una con l’altro, non fingono che l’elefante non sia al centro della stanza come molte altre coppie e non negano nulla dell’altro, nemmeno i lati peggiori, persino i regali che si fanno tra di loro sembrano pensati per enfatizzare o ricordare loro i problemi, e non per nasconderli, alla faccia di chi pensa che gli anni ’90 del cinema americano abbiano prodotto solo roba con i bordi arrotondati.
Elisabeth Shue è splendida in tutte le declinazioni della parola, ha tutto per sembrare la donna angelicata che Ben vede in lei, ed è interpretata con una profondità e una risolutezza assolute, anche nel suo vivere i suoi paradossi e tormenti personali, per restare sui premi, a cui non credo troppo perché una grande prova resta tale anche se non premiata, è quasi un peccato che a portarsi a casa l’argenteria sia stato solo Cage e non entrambi i protagonisti, perché questi due innamorati dannati non si dimenticano.
“Via da Las Vegas” è un viaggetto ai margini della società occidentale, dove vengono relegati gli indesiderati come Sara e Ben, che è più facile sfruttare o denigrare piuttosto che provare a capire ed aiutare, proprio per questo il film sceglie intelligentemente di non buttarla sul pietismo o sulla lacrima facile. Ben potrebbe aver perso moglie e figlia e aver iniziato a bere, o averle perse entrambe proprio per colpa della bottiglia, non è chiaro, ma è un uomo che ha deciso di tenere aperte le sue ferite, fermamente intenzionato a punirsi uccidendosi un sorso alla volta, una tortura della goccia sì, però alcolica, la prova di Nicolas Cage, anzi, del premio Oscar Nicolas Cage (… rosicate!) è micidiale nel suo far trasparire il dolore del personaggio.
Non tanto per i riusciti momenti di “Cage rage”, che non sono ilari per nulla, come quando urla «Sono suo padreee!» al casinò, in cui è chiaro che Ben sia fisicamente lì, ma con il cervello chissà dove lungo la sua storia, quanto più che altro per la capacità scientifica di Cage di sbagliare tutte le movenze, esattamente come farebbe qualcuno che ha perso il controllo del suo corpo per via dei fumi dell’alcool. I dialoghi da ciucco, le espressioni fuori controllo (mono espressivo eh? Ma va va!), uno sballato in un mondo di sballati, forse il re degli sballati, in una prova dolente, studiata nei minimi dettagli come quella di Stress da Vampiro, ma recitando un tipo di dipendenza differente.
A distanza di trent’anni, “Via da Las Vegas” è un film che non solo è invecchiato bene, ma ci offre la dimensione di quanto in realtà sia invecchiato male il cinema popolare americano, che oggi come oggi, storie così sfaccettate e con personaggi realistici per quanto ai limiti, si guarda bene dal raccontarle, inoltre da trent’anni è il secondo modo migliore (dopo l’alcool) per spaccare il fegato a tutti quelli che ancora si ostinato a ignorare il talento di Nicolas Cage, anzi, del premio Oscar Nicolas Cage. Rosicate, sono trent’anni che lo fate perdendovi prove così. Però non provate a perdervi gli altri post dedicati a questo compleanno, quelli di SamSimon e di Lucius!
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