Qualcuno poi dovrebbe spiegarmi perché un film come questo è stato completamente ignorato dagli Oscar. Paul Thomas Anderson, detto Pitì, è uno di quelli che viene costantemente snobbato dai tardoni dell’Accademy che nelle mia mente somigliano ai due anziani del Muppet Show.
Voi siate più furbi: correte a vederlo! E nel modo in cui tutti i film dovrebbero essere visti: in lingua originale!
Adesso il casino è che io vi dovrei pure dire qualcosa sulla trama e qui mi rendo conto che, come il protagonista del film, mi sono infilato in un affare più grande di me:
Los Angeles, fine degli anni ’60. Larry “Doc” Sportello (Gioacchino Fenice) è un investigatore privato Hippie, la sua ex fidanzata Shasta (Katherine Waterston) è preoccupata per il suo attuale amante, il palazzinaro Mickey Wolfmann (Eric Roberts): la ragazza teme che la moglie voglia farlo internare in manicomio. Secondo voi Doc gli rifiuterà il suo aiuto? Ecco, da qui in poi andrà ad infilarsi in un casino ben più complesso che cercare di riassumere la trama del film…
Il tutto diventa un’indagine che racchiude in se stessa altri misteri (almeno un paio), il tutto ambientato negli psichedelici anni ’60, farcito da surfisti, magheggioni, strozzini assassini, tossici, motociclisti Nazisti, detective della LAPD, un musicista di Sax, dei dentisti massonici e una misteriosa entità conosciuta come Golden Fang. Tutto questo meraviglioso casino arriva dritto dritto dalla pagine del romanzo omonimo di Thomas Pynchon.
![]() |
Se avessero chiesto a me QUESTA sarebbe stato la locandina del film. |
Pitì Anderson è un regista incredibilmente cinefilo, uno di quelli che studia i film e li sminuzza in dettaglio, lo fa sempre senza sbatterlo in faccia agli spettatori, quasi con la stessa indolenza del suo protagonista Doc Sportello: un malinconico “Dude”, reso sonnolento dalla sostanze, fantastico Virgilio che ci scorta in un mondo strapieno di personaggi sopra le righe.
Normalmente un film noir comincia con l’investigatore che incontra la femme fatale, qui la situazione è molto simile, a ricoprire i due ruoli troviamo Doc e Shasta. Quando i due si rincontrano, Anderson impone alla scena il ritmo lentissimo di un cervello annebbiato dal THC, arrivato il momento di separarsi, Pitì ci mostra un piano sequenza di quasi tre minuti, ideale per rappresentare la difficoltà di Doc a separarsi dalla donna che ancora ama.
![]() |
5,0 cl di Dude Lebowski, 2,0 cl di Neil Young, ed ecco il vostro “Doc” Sportello. |
Quando poi Shasta scompare, il nostro si trova accusato di rapimento e omicidio da parte del Dirty Harry locale: l’ispettore Christian Bjornsen detto “Bigfoot” (Josh Brolin in un ruolo di Culto!). Il film dura due ore e mezza e in alcuni passaggi il minutaggio si sente tutto. La pellicola ha dei punti in comune con “Il grande Lebowski” dei Fratelli Coen: sicuramente un protagonista fattone e Hippie, ma anche l’uso della comicità (ho detto comicità non ironia), anche se “Inherent Vice” non ha la stessa immediatezza del Cult movie dei registi del Minnesota.
Molti spettatori potrebbero essere attirati in salsa dal trailer accattivante (che però anticipa troppe delle scene migliori del film), ma sono abbastanza sicuro che la trama ingarbugliata e il ritmo di alcuni passaggi della pellicola potrebbero far gettare la spugna a parte del pubblico conquistato dalle immagini del trailer. Il mio consiglio è perdersi: fate vostra l’attitudine di Doc Sportello, lasciatevi trasportare, ci penseranno le visioni successive a fare chiarezza sui misteri della trama, perché se arriverete alla fine del film e vi piacerà, allora avrete sicuramente voglia di rivederlo.
![]() |
Lo so, lo volete appeso sulla parete di casa vostra, non negatelo. |
Pitì Anderson ambienta il film in California, la vera culla del sogno di pace & amore che nei primi anni ’70 era già in declino. Anderson riesce a centrare perfettamente il senso di malinconia dei protagonisti nei confronti di quel periodo magico, come ad esempio nello struggente flashback di Doc e Shasta sotto la pioggia, ambientato nel passato del loro grande amore.
Nel presente di questo film, serpeggiano tante “cattive vibrazioni”, non visibili, ma percepibili come la paranoia che arriva quando sta iniziando un brutto trip, vengono citati qua e là gli omicidi della famiglia Manson, ma viene anche evocato il famigerato concerto dei Rolling Stone ad Altamont (quello finito con botte e morti per colpa degli Hells Angels).
Anche l’amore libero inizia a diventare più che altro uno sfoggio di sessualità, tipo quando vediamo Doc alle prese con il bizzarro menù Eat-Pussy. In questo senso il personaggio di Gioacchino Fenice incarna alla perfezione la malinconia tipica dei Detective Noir applicata, però, alla fine dell’era del flower power. Come cantava Dylan “The times they are a-changin’” sì, però in peggio.
Nel precedente “The Master” il riferimento di questo regista cinefilo era Stanley Kubrick e, dopo un paio di film belli spessi, l’idea è quella di prendersi una pausa, come già fatto per l’ingiustamente sottovalutato “Punch-Drunk Love”. Per questo film Pitì torna al suo primo amore Robert Altman, omaggiato l’ultima volta in “Magnolia”. Ormai Anderson non prova più a schivare i paragoni, anzi, lì abbraccia seguendo come modello “Il Lungo Addio”, ma per portare sul grande schermo la folle prosa di Pynchon, Pitì mescola il suo Maestro Altman, con i Coen e con mai abbastanza celebrati Zucker-Abrahams-Zucker, in un accostamento che sarebbe impossibile per qualcuno di minor talento. Io personalmente, per questa iniezione di gioiosa “cazzoneria” data al film, non posso che ringraziarlo!
Oltre a rendere bene l’anima di Pynchon, il film riesce a fare davvero ridere, grazie ad uno spirito splapstick che è perfetto per il livello di sballamento dei personaggi. Tutti i siparietti tra Doc e Bigfoot sono meravigliosi, sono morto su “Ti abbiamo sequestrato la macchina e a parte i residui di cannabis sufficienti a tenere strafatta una famiglia di quattro persone per un anno, sei pulito”.
La comicità serve proprio a immergersi nel mondo di questi personaggi fuori di melone: se la presenza di Martin Short (Guarda chi si rivede!) e di un bravissimo Owen Wilson, è un modo per cercare di cavalcare il background comico di questi due attori, sono gli altri personaggi a stupire davvero ed è chiaro che sia stato lo stesso Pitì (sottovalutatissimo regista di attori) a chiedergli di recitare in questo modo.
Sembra che tutti gli attori stiano gigioneggiando, in realtà fanno una cosa molto più difficile secondo me, ovvero prendere seriamente l’elemento comico. Il risultato è ben riassunto nel personaggio di Josh Brolin, quello che fa le cose più sceme, ma le fa tutte con una faccia serissima.
Questo è il motivo per cui “Inherent Vice” va visto in lingua originale, sentire il doppiatore di Josh Brolin (non so chi sia, e non me ne frega una ceppa di saperlo) che si autodefinisce un detective rinascimentale, non ottiene lo stesso effetto comico del modo assurdo in cui Brolin pronuncia “A renaissance detective”, mettendo in chiaro solo con questa frase, tutto il background culturale del personaggio.
Bigfoot, protagonista anche di una stupidissima scena nel pre-finale del film, è quasi sempre al centro di tutti i passaggi più caricaturali ed esagerati del film, cosa vi devo dire della scena in cui in un demenziale Giapponese ordina i Pancakes? Niente, vi dico solo che da quando ho visto il film continuo a ripetere “Molto panechechu! Molto panechechu!”.
Anderson è a mio avviso molto sottovalutato sia per come dirige gli attori, sia come scrittore. Il fatto che un lavoro didascalico come The imitation game, abbia vinto l’Oscar come miglior sceneggiatura non originale, mi sembra veramente assurdo, considerando la densità della trama di “Inherent Vice” e la difficoltà di adattare il materiale originale, mi puzza tanto di complotto, sono sicuro che Doc mi darebbe ragione.
Pitì ha saputo ricreare sul grande schermo il mondo entropico di “Inherent Vice”, lo ha fatto in fase di scrittura, scegliendo di ricorrere in maniera abbondante alla comicità, ma soprattutto utilizzando la fidata macchina da presa.
Le inquadrature sghembe e i rallenti servono a mostrarci il punto di vista malinconico e fuso di Doc Sportello. Ad esempio, durante l’entrata in scena di Clancy Charlock, prima Anderson ci fa dare una sbriciata sotto la corta gonna delle ragazza, proprio come farebbe Doc, poi tenendo la telecamera a mezzo metro di altezza, taglia fuori dall’inquadratura la capoccia di Clancy e solo quando la ragazza si siede difronte a Doc possiamo vederla in faccia… Direi che per la questione del punto di vista del protagonista ho visto fare di peggio.
Anche la colonna sonora contribuisce all’atmosfera alienata del film: i pezzi originali composti da Johnny Greenwood (chitarrista dei Radiohead che aveva già lavorato a “Il Petroliere” e a “The Master”) sono sghembi, disturbanti, non direi horror, ma sicuramente aiutano ad alimentare il senso di paranoia. I Pezzi non originali non sono la classica selezione di canzoni nostalgia messe lì per ricordare gli anni ’70, ma sono tutte canzoni malinconiche che sottolineano la deriva di un decennio di pace amore che è naufragato come Atlantide.
![]() |
«Bella cotonatura Omar» , «Belle basette Commodo» |
Ad esempio, Pitì Anderson ha scelto un pezzo di Minnie Riperton (cantautrice morta nel 1979, per altro madre di Maya Rudolph) che nel film interpreta la receptionist del malandato ufficio di Doc e nella vita invece è la moglie di Anderson, la signora Pitì.
Tutti i personaggi si trascinano dietro il cadavere del sogno di pace a amore degli anni ’60, la sconfitta della controcultura, trasformata in una reazionaria brutta copia di se stessa. Forse è questo il vero Inherent Vice: l’errore intrinseco di struttura, il vizio di forma che si vede nel volto indolente di un grandissimo Gioacchino Fenice (sottovalutato fenomeno di recitazione, anche lui come film e regista ingiustamente ignorato dalla critica che conta).
Godetevelo nella sua malinconia alticcia e sballata, con le sue basette e il look alla Neil Young, capace di esplosioni comiche (la sua reazione quando gli mostrano la polaroid ad esempio) o momenti di rassegnata tristezza. Attore fenomenale in una prova destinata a diventare di culto.