Scegliete una lettera dell’alfabeto, oppure lasciate che sia io a farlo per voi, oggi ho pescato DABLIU’, giusto in tema con il nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.
Se World Trade Center è un film che ha fatto parlare fin dal suo annuncio, ma dopo alla sua uscita ha spiazzato un po’ tutti, perché in pochi si sarebbero aspettati un Oliver Stone così pragmatico sull’argomento, il film successivo del regista è riuscito nell’impresa di essere ancora più controverso. Se il titolo con Nicolas Cage per Stone non era quello con cui aveva intenzione di trattare la politica estera americana dei primi anni 2000 in modo critico, allora quel titolo era sicuramente “W.”, in onore dell’amato (si fa per dire…) presidente George W. Bush detto Dabliù (non in amicizia), quarantatreesimo a sedersi nello studio ovale della Casa Bianca ma terzo nella classifica personale del nostro Oliviero Pietra.
Terzo classificato dopo JFK e Nixon, perché esattamente come World Trade Center anche questo film non è stato sceneggiato da Stone (ma da Stanley Weiser) eppure sembra che lo sia, non solo perché porta avanti la sua tradizione ed etichetta di “Registra dei presidenti”, ma a ben guardarlo contiene anche un altro tema molto caro a Stone, oltre alla politica e al continuare a parlare della Storia – non per forza impeccabile – del suo Paese, ma a suo modo è anche un ottimo modo per continuare a parlare di padri e figli, ma andiamo per gradi come avrebbe detto Anders Celsius.
Che i film di Stone si portassero dietro uno strascico di polemiche, lo abbiamo visto diffusamente anche nel corso di questa rubrica, ironicamente e considerando che il soggetto qui è un po’ il padre nobile del concetto abominevole di “Guerra preventiva”, possiamo dire che qui abbiamo assistito ad un caso di “Polemiche preventive”, visto che la differenza tra i due precedenti film di presidenti di Stone è chiara, questo è stato l’unico non solo girato e fatto uscire in sala con il protagonista ancora vivo e vegeto (pretzel permettendo), ma è anche l’unico annunciato quando Dabliù era ancora l’inquilino della Casa Bianca, il che oltre che a renderlo un film istantaneo, depone a favore degli “Huevos” di Stone, ma anche della riuscita finale di “W.”
Vi ricordate l’aria che tirava anche ad Hollywood subito dopo l’undici settembre? Ne abbiamo anche parlato, una rinnovata ondata di patriottismo pronto a cavalcare il “Patriot act” e a soffocare ogni voce contro, in tutto questo Oliver Stone sceglie un registro narrativo piuttosto chiaro, gli attentati di New York e Washington restano fuori scena, così come la vergognosa guerra messa su contro l’Iraq, giustificata da armi di distruzioni di massa che i fatti hanno dimostrato essere solo una grossa balla usata per giustificare la volontà Yankee di mettere le mani sul petrolio. Tutto questo resta fuori scena o dato per scontato (anche se chiarissimo nella storia) perché la presa di posizione del nostro Oliviero è chiarissima.
Se a Kennedy e addirittura a Nixon (ritratto come una figura tragica, quasi shakespeariana) il regista riconosceva almeno il loro posto nella Storia, a Dabliù il nostro Stone nega questo “onore delle armi”, mi ricordo perfettamente la prima italiana del film al ventiseiesimo Torino Film Festival, per altro unica rassegna cinematografica che ha incluso il lavoro di Stone (anche se fuori concorso) nel suo programma, evitando volutamente di evitare le polemiche come invece fecero ai tempi tutti gli altri festival. Il parare dopo la visione di molti era: Stone non ha ritratto il presidente come un malvagio, ma solo come uno stupido. Se vi interessa invece la risposta a caldo del vostro amichevole Cassidy di quartiere: «Perché? Non è proprio così nella realtà?» (storia vera).
Da un certo punto di vista “W.” potrebbe essere la prima commedia diretta da Oliver Stone, ne ha il ritmo, i tempi comici, peccato che non ci sia un cazzo da ridere, però pensateci, è chiaro che qui il regista utilizzi la struttura della commedia: ci mostra un tronfio Dabliù atterrare sulla porta aerei pilotando il jet, per annunciare “Mission accomplished” e nella scena successiva mostra le auto bombe e i soldati americani uccisi ancora senza sosta in Iraq. Durante la pianificazione, la prima bozza di idea di “guerra preventiva”, Bush Junior e il suo gabinetto stanno camminando nel parco, sempre più fomentati dall’idea di attaccare questo nuovo “asse del male” e mentre pianificano la direzione che prenderanno gli equilibri mondiali negli anni a venire, cosa fanno? Si perdono.
La scena della quasi morte per strangolamento a causa di un pretzel sembra una roba degna di Homer Simpson se non fosse accaduta veramente, ecco perché “W.” risulta essere la prima commedia di Stone, la commedia diretta da un cinico arrabbiato con nessuna intenzione di riconoscere a Dabliù il suo posto nella Storia, perché il manifesto disgusto verso l’operato è chiaro, forse più che nei confronti della persona.
Perché a differenza di opere uscite in precedenza come “Fahrenheit 9/11” (2004), Stone non odia Bush Junior come palesemente faceva Michael Moore, riconoscendogli anche più importanza del necessario, il nostro Stone ritrae l’uomo come un facilone certo, ma non uno stupido e trova in Josh Brolin l’attore perfetto per la parte. Texano DOC come Dabliù, fresco di rilancio dopo un certo filmetto dei Coen, Brolin ha il fisico, la faccia e il piglio giusto per il ruolo di un uomo che non è affatto uno stupido ed è anche capace di ingraziarsi le persone (il flashback durante il rito di iniziazione nelle confraternita al college lo mette in chiaro), ma è essenzialmente un “Junior”, che vive all’ombra di un padre molto ma molto ingombrante (un perfetto James Cromwell) che gli preferisce in tutto e per tutto il fratello Jeb, quindi ancora una volta Stone trova il modo di infilare nella sua filmografia il tema delle figure paterne da conquistare, dopo Wall Street, Platoon e via dicendo.
La faccenda delle dubbie (molto dubbie) elezioni con spoglio delle schede in Florida viene citata solo in un flashback paterno onirico, così come la confessione finale, un momento puramente cinematografico che nella realtà non è mai avvenuto, che sfocia naturalmente nella scena del Baseball, il vero amore di Dabliù, che resta lì, imbambolato a guardare il vuoto in cerca di una palla che non sa da che parte possa arrivare, esattamente come era rimasto imbambolato a sfogliare favole per bambini, appena ricevuta la notizia degli attentati di New York.
Non un malvagio quindi, ma uno di quelli che non legge libri, che ha vinto con la spintarella di papà e perché ha l’aria di uno con cui gli americani si farebbero volentieri una birra, circondato dal più feroce branco di cani rinselvatichiti mai visto, l’unico momento in cui il ritmo di “W.” rallenta, lo fa per esporre la parte più politica della trama, il monologo sul 5% della popolazione mondiale che brucia il 25% del petrolio del pianeta, e la scelta del casting qui è brillante quando aver affidato Dabliù a Brolin o Laura Bush a Elizabeth Banks (che ha pochi minuti sullo schermo ma li utilizza benissimo), mi riferisco a prendere nomi e facce come quelle di Thandie Newton per Condoleezza Rice, Toby Jones nei panni di Karl Rove oppure di un duro come Scott Glenn per quelli di Donald Rumsfeld.
Simbolico che colui che nel gabinetto di Dabliù era definito la “colomba”, ovvero Colin Powell, impersonato alla grande da Jeffrey Wright, sia il soldato che non vuole sacrificare vite americane al fronte, il pragmatico con esperienza sul campo a cui giustamente, un veterano come Stone lascia il giusto spazio, prima di lasciare che un mostro come Dick Cheney strangoli nel sonno ogni suo tentativo di logica. Richard Dreyfuss interpreta il personaggio con il piglio di un cattivo della Spectre, se non fosse che potrebbe essere una versione addolcita dell’originale.
Della trilogia dei presidenti di Stone, “W.” resta il film più leggero ed accessibile, 129 minuti che filano via alla grande anche se di leggero non ha proprio nulla, specialmente se ricordate i fatti e il clima politico pesantino anzi che no dei primi anni 2000. Allo stesso modo Stone qui riesce ad essere irridente, in piena modalità “una risata vi seppellirà”, ma allo stesso tempo a mandare a segno il suo messaggio, utilizzando la sua arma d’elezione, ovvero il cinema, per smontare tutto il falso mito costruito intorno ad un cuntabale (tipica espressione del Texas) come Dabliù.
Posso dirlo? Sarebbe stato notevole fare qualcosa del genere oggi, dover aver messo una bella distanza di sicurezza in termini di tempo tra la fine della presidenza del protagonista e l’uscita del film, farlo nel 2008 resta due volte notevole, perché se con World Trade Center per Stone, non era ancora il momento di mordere ed essere caustici sull’argomento, allora lo era decisamente nel 2008 e di farlo con uno dei massimi responsabili di quel clima politico e dell’ennesima deriva inutilmente guerrafondaia intrapresa dagli Stati Uniti.
“W.” era la lettera dell’alfabeto che Stone era predestinato a pescare, la storia di un ragazzetto in lotta con la sua figura paterna, uno cresciuto with silver spoon in hand che proprio per questo si è evitato il ‘Nam che invece Stone ha conosciuto bene, e che malgrado tutto ha spedito tanti a morire al fronte per una bugia. Ditemi se uno così non va solo sfottuto malamente negandogli la sua posizione nella Storia? Io non ho dubbi, sto con Stone sulla questione.
Prossima settimana, ultimo capitolo prima della pausa estiva per la rubrica, ho una mezza idea di giocarmi una sorpresa, vediamo, in ogni caso ci ritroveremo qui tra sette giorni, non mancate!
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