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Wakefield – Nascosto nell’ombra (2016): Into the mansarda

Qui alla Bara Volante, seguiamo sempre con molto interesse
la carriera di Bryan “più grande attore del mondo“ Cranston. Oggi a sbirciarlo
ci pensa Quinto Moro. Lascio a lui la parola e auguro a voi buona lettura!

Se l’avessi visto prima l’avrei inserito nella mia trilogia delle Terre Selvagge. Perché non sembra, ma è un film gemello del più famoso e sfavillante viaggio di Supertramp, un estraniarsi dalla società e dalle ipocrisie del mondo, girato con quattro soldi e un attorone come Bryan-migliorattoredelmondo-Cranston (definizione copyright del nostro amichevole becchino di quartiere Cassidy).

Sarà l’astinenza da “Breaking Bad” che ogni tanto mi spinge a vedere cos’ha fatto nella sua carriera quel monumento sottovalutato che è Bryan Cranston, tra una comparsata in Godzilla e un ruolo da protagonista in Trumbo. La vita professionale del nostro buon W.W. non è stata tutta cieli azzurri e squisiti pollos alla messicana, come succede a molti attori/attrici di successo delle serie, solo che non tutti hanno il 200% di carisma in più aggiunto in ogni confezione, con lo sconto del 20% sul costo d’ingaggio come il nostro Bryan.

“Vince Gilligan diceva sempre: la carriera è come una scatola di cioccolatini, non sai mai il ruolo che ti capita”

Wakefield poteva essere una di quelle produzioni Netflix da sparare in streaming mondiale e invece è rimasto un filmetto di nicchia con un incasso che non pagherebbe il caffè allo staff tecnico di un cinecomic Marvel. Eppure, per quanto sia un film quasi televisivo, è riuscito a tenermi interessato per tutta la visione. Il difetto sta nell’essere un film tratto da un racconto che è tratto da un altro racconto di uno scrittore americano dell’800. Ma è anche la sua forza, perché la storia è resa attuale e funziona, strano a dirsi se il plot è tutto qui: un borghese piccolo piccolo americano la cui vita è giunta ad una sorta di punto morto. Tipica storia sulla disillusione del benessere e della (supposta) sacralità della famiglia nel mondo occidentale: un uomo della borghesia medio-alta invischiato nella routine famiglia/lavoro che è diventata una gabbia decide di straniarsene. Il che è reso più efficace e credibile dalla casualità degli eventi, senza prese di posizione né iperboli moraliste. Un giorno, di ritorno da lavoro, Wakefield per scacciare un opossum dalla soffitta si addormenta e passa la notte tra le cianfrusaglie. Da quel momento decide di non rientrare a casa per non affrontare le solite discussioni famigliari. Un po’ schiavo delle sue costruzioni mentali e sociali, e per un freddo calcolo e pure una vena di sadismo, si dà per disperso, vive nascosto nella soffitta del garage a pochi passi da casa osservando lo strazio della moglie e del teatrino che le si muove intorno.

Tutto qui, senza farvi il torto di un maxi spoiler, nel film non succede altro, anche se non vi dirò come va a finire, perché a un certo punto il percorso umano di quest’uomo si fa così astratto, torbido e profondo da non rendere nessun finale scontato. E’ un film “piccolo”, ma scena dopo scena aspettavo di vedere cosa sarebbe successo e come, nonostante la trama sia staticissima.

Jennifer Garner in Wakefield-Alias-Voyeurfield
La narrazione è interamente voce fuori campo e montaggio della vita di Howard Wakefield chiuso nel suo isolamento e nelle sue riflessioni, tra ragionamenti, flashback e incursioni nei bidoni della spazzatura. I flashback sono usati bene. Ok, rileggiamo insieme questa frase: i flashback sono usati bene. Avete presente quanto abusati siano i flashback e quanto ad cazzum vengano appiccicati nei film? È una tecnica che raramente si rivela davvero utile ma qui è vitale per spezzare la monotonia della voyeurismo da soffitta del protagonista, ampliando un poco lo sguardo sulla sua vita e su ciò che l’ha condotto a quell’isolamento.
Mi è piaciuta la riflessione (auto)critica e nient’affatto banale sul matrimonio, sui compromessi, le manie, le ipocrisie su cui si fonda. Ed è interessante anche il modo di relazionarsi la condizione di isolamento, il gusto sadico che Wakefield prova nell’aver incastrato la sua famiglia nel dubbio che lui sia morto o meno, osservando come certi imperativi e pregiudizi sociali possono modificare il senso delle azioni della moglie. Mi è piaciuto ancor di più che il tutto sia raccontato da un punto di vista intimo, viscerale, senza digressioni sui massimi sistemi, o generalizzando sulla società. E soprattutto nessuno è vittimizzato, lo stesso Wakefield riesce ad essere viscido e spregevole il giusto, ma anche uomo onesto e profondo, per un ritratto di umanità autentico. Forse per questo il film mi ha conquistato.
“Tutti a guardare Breaking Bad… Maledetti! Come se non avessi fatto nient’altro…”
La prova di Bryan Cranston è fantastica, intensa e molto “fisica”, con l’intensità che pochi attori riescono a dare in assenza di una battuta da pronunciare. Cranston fa una delle cose più difficili: recita sulla voce fuori campo, sempre costantemente sul pezzo dell’emozione o del tormento o dubbio che vuole raccontare in quel preciso istante, mentre la voce racconta le sue emozioni e le sue fisime. Va comunque riconosciuto l’impegno di regia e montaggio nel comporre questo racconto tra l’attore e il testo recitato, ma ci vuole un grande attore per dare forma a quelle emozioni con le smorfie e i gesti. A tratti sembra un documentario, fuso con un monologo teatrale, e il risultato è niente male. Potrebbe risultare noioso per qualcuno, eppure non riuscivo a smettere di guardarlo, volevo sapere come sarebbe andata a finire, cos’avrebbe fatto questo personaggio e dove l’avrebbero condotto le sue (non)azioni. Quasi un voyeurismo meta-cinematografico tra lo spettatore e il film, e tra il protagonista e il suo mondo.
E certo questo è un film piccolo, girato quasi interamente in interni, nel raggio di una soffitta e di un quartiere, con una manciata di attori di contorno, affidandosi alla bravura del protagonista. Anche Jennifer Garner, la moglie abbandonata, è una figura distante e idealizzata proprio come nel racconto di Wakefield. Non le è concesso molto di più.
“Bryan, è terribile! Oggi tutti vogliono fare i cinecomic ma nessuno ricorda quando ti potevano distruggere la carriera” – “Non disperare Jennifer, fra qualche anno faranno un remake di Elektra, ti chiameranno per una comparsata e i nerd di tutto il mondo applaudiranno. Io l’ho fatto coi Power Rangers, peggio non potrà andarti”
La colonna sonora è sorprendente, a tratti poetica, adattissima alle atmosfere del film. Vale la pena rimarcarlo se l’autore è Aaron Zigman, onesto mestierante dedito più che altro alle commedie e a qualche film musicale, ma qui sforna qualcosa che è un piacere ascoltare, è immersiva e delicata.
La regia non sforna idee particolarmente brillanti ma il ritmo del film è buono – nei limiti di quanto possa esserlo un monologo – e scorre in un modo che ho trovato appassionante. Ma lo ripeto, per qualcuno sarà noioso, ma se vi lasciate prendere dalla storia, e dalla prova di Bryan Cranston, la visione vale ogni minuto del vostro tempo.
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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