Spero abbiate indossato il vostro Armani più costoso e vi siate impomatati i capelli, perché pronti o no, oggi ci gettiamo avidamente sul nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone.
Con Platoon già nelle sale, Oliver Stone doveva affrontare i “lupi alla porta” delle prime recensioni, toste per un film che volutamente, non le mandava a dire. Nel tentativo di restare concentrato e non farsi tirare dentro al vortice, il regista faceva quello che conosceva meglio: scriveva. Nello specifico un lavoro a quattro mani con Stanley Weiser, un copione intitolato inizialmente “Greed”, incentrato sull’alta finanza. Perché passare da scenari di guerra con pallottole che fischiano a scenari dove la guerra si fa investendo milioni di dollari? Come accade spesso con il nostro Oliviero, la risposta va cercata in famiglia.
Dopo aver combattuto durante la Seconda Guerra mondiale, papà Louis Stone passò la vita a lavorare come agente di cambio, tutta la scala di valori sui cui è stata improntata la vita (e di conseguenza) il cinema del celebre figliolo si può riassumere nel punto di equilibrio tra un padre, americano e anche piuttosto conservatore e una madre di origini francesi decisamente più leggera nell’approccio. Solo il divorzio dei suoi genitori ha segnato Stone più del Vietnam, le origini di “Greed”, diventato poi “Wall Street” una volta iniziate le riprese, stanno davvero tutte qui.
Le ricerche necessarie a rendere più realistica possibile la trama, hanno portato Stone a frequentare un manager, un consulente della Drexel Burnham diretta da Mike Milken. Di gerarchia e violenza nell’esercito Stone ne aveva avuti per tre o quattro vite, e quando si parlava di maneggiare, guadagnare e sperperare enormi quantitativi di denaro, il regista e sceneggiatore pensava di aver visto tutto ai tempi della sua trasferta a Miami, quella in cui ci ha quasi lasciato le penne (lui e sua moglie Elizabeth), ai tempi in cui si era calato nell’ambiente della criminalità locale per scrivere il copione di Scarface. Per sua stessa ammissione, quello che aveva visto in Vietnam e a Miami, non poteva minimante prepararlo alla normale routine nell’alta finanza, per atteggiamento, linguaggio, aggressività nemmeno minimamente celata e numero di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti stampati sopra guadagnati e sperperati, militari e criminali erano delle educante a confronto degli yuppie di “Wall Street”. Il nuovo fronte su cui si combatteva per l’anima dell’America, questa volta era interno.
Stone ha sempre vissuto piuttosto bene i suoi contrasti, anche interiori, la sua volontà di cercare sempre la verità, nei temi trattati e nello stile, ha fatto di lui un autore difficile da etichettare, anche se di appellativi gliene sono stati incollati addosso molti, nessuno lo rappresenta pienamente. Per alcuni è il “Macho man” della sinistra americana, per altri uno sporco conservatore di ultra-destra, la verità come sempre sta nel mezzo, essenzialmente Stone nei veri valori americani ci crede, non per forza poco, ma è anche abbastanza intelligente da non accettare le cose come stanno, tutto quello che “sporca” quei valori va criticato, non in base a posizioni di schieramento o partito, ma in nome della verità e perché no, anche della giustizia.
Salvador puntava il dito contro la politica estera americana, Platoon diceva la verità sulla guerra del Vietnam, quindi nel 1987, in piena Reaganomics era il momento di scagliarsi contro i reati dei colletti bianchi. Il risultato è un film che parla di alta finanza a volte anche in termini tecnici, ma profondamente arrabbiato con quel mondo, una sorta di Una poltrona per due con a’ cazzimma al posto della satira al vetriolo e lo sbeffeggio, cifra stilistica tipica di Landis. In parole povere un’opera in grado di dire la verità imprimendosi a fuoco anche nella cultura popolare, insomma un Classido!
La storia è quella del giovane Bud Fox, rampante broker della Jackson Steinem & Co. Di origini orgogliosamente operaie che però vorrebbe fare il salto, arrivando a lavorare per il suo mito, lo squalo in persona, quello che ha fatto soldi anche vendendo le quote della Nasa poco prima del disastro dello Space Shuttle Challenger, il leggendario Gordon Gekko.
Ecco perché sulle note sincopate composte da Stewart Copeland (non proprio la pizza con i fichi), la città che non dorme mai si sveglia e Stone ci porta, macchina da presa a mano, negli uffici della Jackson Steinem & Co. Come se fossimo nuovamente in una trincea in prima linea, solo che qui i soldati non utilizzano un M16 ma un telefono, non hanno una divisa mimetica ma camicia e cravatta come Marvin, il “compagno di banco” del protagonista, interpretato da solito pretoriano di Stone, il mitico John C. McGinley al secondo ruolo con il regista, ma tenente il conto, perché il tassametro corre.
Il primo nome che piaceva tanto a Stone per il ruolo di Bud Fox? Tenetevi forte perché sto per chiedervi di immaginarvi tutto “Wall Strett” con Tom Cruise nei panni del rampante broker. Ora ditemi se quel suo sorriso che si chiama gli schiaffi e la voglia di arrivare lassù di Tommaso Missile, non sarebbe stata impeccabile per il ruolo di “Sprint” come lo chiama Gekko. Ci sarebbe stato tempo, modo e maniera per Stone di lavorare con Cruise, ma per ora il regista ha deciso di tornare al fronte con i soldati che conosceva, ecco perché Charlie Sheen qui, regala un’altra delle migliori prove della sua carriera nel ruolo, proprio perché in grado di sfoggiare quell’innocenza che per stessa ammissione di Stone nella sua autobiografia, Sheen junior nella vita non aveva e a proposito di Sheen, parliamo anche della prima generazione.
Papà Martin, come abbiamo visto aveva rischiato di finire a recitare in Salvador, dopodiché, ha provato, forse per salvaguardare il figliolo, a convincere il regista a cambiare il finale di Platoon optato per qualcosa di meno tosto (storia vera), insomma prima o poi quei due insieme, avrebbero dovuto finire nel radar di Stone. Proprio l’etica e la formazione molto religiosa di Martin Sheen, lo rendevano perfetto per la parte del padre di Bud Fox, anche perché parliamoci chiaro, chi meglio di lui su questo gnocco minerale che ruota attorno al sole poteva sapere meglio di tutti cosa significa avere Charlie Sheen come figlio? Mi immagino il giorno in cui Stone ha chiesto al giovane Charlie: «Nel film per la parte di tuo padre, avremmo per le mani due attori: Jack Lemmon o tuo padre Martin. Con chi ti sentiresti più a tuo agio a recitare?» la risposta di Charlie potete facilmente intuirla in base al casting del film (storia vera).
A proposito di selezione degli attori, anzi delle attrici, quella pazzarella di Sean Young avrebbe voluto fortemente interpretare la protagonista femminile Darien, Stone non la riteneva adatta nemmeno dopo il suo provino ma questo non ha impedito l’attrice di rompere i co… Ehm, fare il diavolo a quattro per tutto il tempo sul set, dopo essere stata scientificamente spostata di lato, nel ruolo di Kate la moglie di Gordon Gekko. Parte per cui Sean Young avrebbe dovuto avere mooooolti più minuti, peccato che i continui ritardi, la condizione, diciamo così, “alterata” con cui l’attrice si presentava sul set e il suo continuo scapricciare, l’ha portata al licenziamento e al taglio netto dei minuti dedicati a Kate Gekko (storia vera). Parliamo del regista che è riuscito a sopportare quell’enorme spaccamaroni di James Wood tornando anche a lavorare con lui, ma Sean Young no, lei gioca in un’altra categoria.
Poco male, visto che il cambio in stile cestistico è avvenuto all’interno della squadra di Blade Runner, con Daryl Hannah preferita nel ruolo di Darien e premiata con il solito inutile (e qui anche inspiegabile) Razzie Award, nello stesso film che ha visto Michael Douglas portarsi a casa il premio più ambito di tutti per la recitazione, quindi sì, è ora di aprire il libro al capitolo Gordon Gekko.
Che Micael Douglas sappia recitare ruoli passivo aggressivi lo sappiamo, che sappia recitare anche quelli aggressivi, non è una novità, ma è con Gordo Gekko che non solo si è portato a casa un Oscar per la sua prova, ma si è anche impresso a fuoco nella cultura popolare, dando corpo, voce e capello impomatata ad uno dei più micidiali cattivi della storia del cinema. Ufficialmente basato sulla figura del multimiliardario Ivan Boesky, in realtà lo sappiamo tutti chi è la vera fonte di ispirazione del personaggio, come tanti ad Hollywood Douglas è appassionato di pallacanestro, negli anni ’80, nella città del cinema, il basket voleva dire una sola cosa: Los Angeles Lakers. I completi Armani, quella pettinatura, la spavalderia e la costante aggressività di uno che applicava Sun-Tzu ai ventotto metri del parquet, Douglas l’ha scippata a Coach Pat Riley, per applicarla quasi identica all’alta finanza entrando di diritto nella storia della settima arte. Il suo monologo sull’avidità, ancora oggi è uno dei più citati quando si parla di grandi monologhi nella storia del cinema.
“Wall Street” inizia con un ritmo indiavolato perché se vuoi stare al passo dell’alta finanza, devi correre, Bud Fox lo scoprirà presto, infatti trovo sempre simbolica la scena in cui il protagonista, mendica cinque minuti con il suo eroe nel suo ufficio, e anche se il dialogo tra Sheen e Douglas dura un po’ di più, quando poi Bud esce dall’ufficio di Gekko, sull’orologio alle sue spalle le lancette si sono spostate effettivamente solo di cinque minuti, fateci caso la prossima volta in cui vedrete il film. Il tempo è denaro, il denaro è avidità e per farlo, non bisogna guardare in faccia nessuno, nel tentativo di entrare nel giro che conta e di “prendere l’elefante” (appropriato, visto che è anche l’animale simbolo del partito Repubblicano), Bud si gioca tutto, anche il rapporto paterno.
Carl Fox (Martin Sheen), colletto blu se ne esiste uno, una vita nella piccola compagnia aerea Bluestar, più che un lavoro una dedizione, con l’azienda nella buona e nella cattiva sorte, a sgobbare e sudare per i soldi che Gekko lascia di mancia nei ristoranti stellari dove fa colazione, quando rivela al figlio che la compagnia sta per uscire pulita da una causa guadagnandosi nuove rotte, il figlio Bud si “rivende” l’imbeccata per far fare soldi a Gekko entrando nelle sue grazie, ed è qui che uno dei temi cardine di “Wall Street” va a segno.
Come in Platoon, vediamo nuovamente Charlie Sheen diviso tra due padri, che istintivamente verrebbero quasi da etichettare uno come Democratico l’altro come Repubblicano. Se sotto le armi erano i due sergenti, il bellicoso Barnes impersonato dalle cicatrici (finte) di Tom Berenger e l’altro, quello mezzo fricchettone di nome Elias Grodin con gli zigomi di Willem Dafoe, in questa nuova guerra combattuta al telefono (ma non per questo meno sanguinaria o con meno vittime), i due padri del personaggio di Charlie Sheen sono un altro Democratico come papà (anche biologico) Martin e l’altro Repubblicano, Gordon Gekko. Da dove vieni e dove vorresti arrivare, chi sei contro chi vorresti essere e chi, soprattutto, devi essere pronto a sacrificare per fare il salto. In guerra puoi perdere un arto o la tua salute mentale, qui il prezzo richiesto per lo stile di vita americano è solo il valore che riesci a dare alla tua anima.
Proprio perché Stone in fondo, ai valori di un America che lui ritiene giusta ci crede, alla fine l’arco narrativo di Bud Fox si risolve con un (mezzo) riscatto, l’allievo che supera il maestro senza perdere completamente la propria anima, ad una prima occhiata distratta quasi un lieto fine, per un altro dei “ragazzi americani” che popolano la filmografia di Stone, anche se le stoccate ciniche non mancano. Quando Bud inizia a fare la bella vita, spupazzandosi Daryl Hannah (quaranta minuti del montaggio finale che prevedevano molto più spazio per Darien, sono rimasti sul pavimento della sala di montaggio, tagliati da Stone. Storia vera) in sottofondo il regista si gioca i Talking Heads, che torneranno anche sui titoli di coda con la loro This Must Be the Place (Naive Melody), quando arriva il passaggio del testo che recita “Never for money, always for love”, beccami gallina se non è uno degli utilizzi più satirici della musica al cinema a cui io abbia mai assistito.
La verità per Stone è sempre la via da seguire, con la stessa voglia di raccontare il vero Vietnam sfoggiata in Platoon, in “Wall Street” Oliver Stone punta alla giugulare: sono i Gordon Gekko del mondo a determinare se domani mattina voi, avrete ancora un posto di lavoro, quanto costerà il latte, la benzina e a determinare il peso del contenuto del vostro portafoglio, quei soldi che vi siete duramente sudati e che per questa gente sono merda, quattro spiccioli a confronti dei capitali che muovono loro in un paio d’ore ogni giorno al telefono.
Eppure Gordon Gekko allo stesso modo ha il fascino dello squalo che si è divorato tutti i suoi simili, il predatore numero uno che in un’epoca iniziata sotto l’egida dell’presidente ex attore (e nemmeno uno di quelli bravi) è diventata sempre più individualista, vorace e in buona sostanza, avida. Quel denaro che non si perde, ma si trasferisce da un’intuizione all’altra, come giocando al casinò per Gekko è il capitalismo al suo meglio, poco importa se a farne le spese sono quelli in prima linea, soldati spediti in Vietnam o “Colletti blu”, Stone continua a raccontare come il sogno americano possa masticarti e sputarti.
La dedica finale sui titoli di coda di questo film di padri tra cui scegliere, non poteva che essere a Louis Stone (ricordato per il suo mestiere, stockbroker), venuto a mancare nell’anno in cui “Wall Street” è ambientato, il 1985. In un’annata cinematografica bella ricca, il film di Stone incassa bene, il figlio del mai abbastanza compianto Kirk si porta a casa l’Oscar e il lascito, fa di “Wall Street” una pietra miliare, da allora il nome Gordon Gekko è diventato un’espressione di uso comune per descrivere diversi concetti, molti dei quali legati all’avidità, quella decantata nel suo monologo.
A proposito di monologhi, ne arriverà uno molto meno famoso ma forse anche più incredibile tra sette giorni qui, su queata Bara. La rubrica continua e la prossima settimana trasmetteremo in diretta da Dallas, non mancate, vi voglio cattivi fino al midollo.
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