Penso che sia quasi impossibile anche solo sperare di poter scrivere qualcosa di originale, su un’opera che da trent’anni viene analizzata e studiata quasi quanto un testo sacro, ma da appassionato di fumetti – ed in particolare di super eroi – prendete questo post come un atto d’amore ad uno dei fumetti più incredibili mai disegnati e scritti.
Il 1986 è stato l’anno che ha sconvolto per sempre il mondo del fumetto americano, insieme a Il ritorno del Cavaliere oscuro, “Watchmen” è ancora considerato il fumetto che ha dato il via alla fase revisionista dei super eroi di carta. Ma se consideriamo che “Maus” di Art Spiegelman, li ha seguiti a breve distanza (1987), forse sono questi i tre titoli che hanno contribuito a diffondere l’utilizzo del termine “graphic novel”, che come sapete io non amo molto, ma andiamo! Bisognava dare un nome a qualcosa che partiva da pubblicazioni mensili di albetti colorati, per portarli ad essere più vicini alla letteratura, quella che leggono le persone serie, quindi io sono automaticamente escluso.
“Watchmen” esce in dodici capitoli – uno per ogni ora dell’orologio atomico – tra il 1986 e il 1987 a cadenza quasi puntuale salvo qualche ritardo, per via della trama ordita da Alan Moore che continuava a lievitare, e ai meticolosi disegni di Dave Gibbons impreziositi dai colori di John Higgins, che per altro è anche stato il primo a fare dell’umorismo su “Watchmen”. Si perché durante una, chiamiamola riunione creativa (aprite il dizionario alla voce: Pub davanti a svariate birre) Moore e Gibbons discutevano animatamente, confrontando le proprie idee, incuranti del fatto che l’unico posto a sedere trovato nel locale, fosse il tavolo fuori, in pieno inverno. La leggenda vuole che Higgins abbia interrotto il flusso creativo dei colleghi, chiedendo loro di spostarsi in un posto più caldo, perché testuali parole, le sue palle stanno diventano blu come quelle del Dottor Manhattan (storia vera).
Il trio di autori inglesi si era fatto le ossa sulla rivista antologica “2000 A.D.”, la vera palestra di tutti i talenti della cosiddetta “British invasion” del fumetto americano dei primi anni ’80. In particolare Alan Moore arrivava da successi come Miracleman, “Swamp Thing” e una storia di Superman, ancora oggi ricordata come quella definitiva su Big Blue. Insomma godeva di massima stima presso gli uffici della DC Comics, proprio per questo capì che era il momento migliore per menare il suo colpo più duro.
La prima bozza di storia si intitolava “Who killed the Peacemaker”, perché il piano originale di Alan Moore era quello di utilizzare come protagonisti del fumetto, i personaggi dell’omonimo gruppo supereroistico della Charlton Comics, da poco acquisita dalla Distinta Concorrenza. Moore voleva rivoltare le vite delle super calzamaglie, e farlo con qualche faccia nota, era il modo miglior per sconvolgere i lettori. L’editore in capo della Distinta Concorrenza Dick Giordano, lo portò verso più miti consigli, ed ecco perché i “Minutemen” altro non sono che versioni alternative di Blue Beetle, Nightshade e Question, ma così facendo Moore ha potuto fare molto di più. Perché di fatto questi nuovi personaggi hanno la forza di abbracciare dinamiche e fissazioni tutte umane, ma anche quelle di qualche loro “collega”, magari qualcuno che la Distinta Concorrenza non avrebbe mai voluto vedere smontato pezzo per pezzo da Moore, è innegabile che ci sia qualcosa di Batman sia in Rorschach (l’inflessibile vigilante che tutti i criminali temono) che nel Gufo Notturno (la doppia identità, un animale come simbolo e tutti quei “magnifici giocattoli”, come avrebbe detto il Joker).
“Watchmen” è perfettamente calato nel periodo storico in cui è uscito, ma racconta un’ucronia in cui non solo i super eroi esistono, ma hanno anche influenzato massicciamente la storia come la conosciamo, ad esempio Richard “Tricky Dicky” Nixon ha pensato bene di impiegarli per vincere la guerra del Vietnam, garantendosi altri cinque mandati alla Casa Bianca. Malgrado il fatto che questi “avventurieri in costume” non abbiamo alcun potere, l’unico di loro ad averne per davvero rasenta l’onnipotenza: Il Dottor Manhattan da solo rappresenta un deterrente nucleare con gambe e pelle blu.
Alla sua uscita qualcuno travisò l’opera (e il personaggio di Rorschach) accusando “Watchmen” di essere un fumetto troppo conservatore, quando invece gli intenti erano anche satirici, specie nei confronti dell’America di Ronald Reagan. Il Dottor Manhattan rappresenta – tra la altre cose – la strafottenza di una nazione che sa di avere l’arma più potente («Dio esiste, ed è americano»), non a caso l’orologio atomico ricomincia a correre, quando il buon dottore si rifugia su Marte, lasciando l’umanità al suo destino.
Il lavoro di Alan Moore e Dave Gibbons è diventato un’opera di riferimento per più di una ragione, non ultima della quale, quella di aver introdotto insieme a Il ritorno del Cavaliere Oscuro (anche se in modo molto più esplicito) il concetto di un “atto di registrazione dei super eroi”, per capirci quello al centro della Guerra Civile tra eroi della Marvel, ma anche il MacGuffin che permetteva a Gli Incredibili di cominciare il loro film. Nella finzione messa su da “Watchmen”, il 1977 è l’anno della rivoluzione, il decreto Keene mette al bando tutti gli eroi mascherati che possono solo scegliere di ritirarsi per sempre, oppure di collaborare con il governo, come faranno il Dottor Manhattan e Il Comico. L’unico a continuare la sua battaglia ormai fuorilegge, resta Rorschach, da sempre quello refrattario ad ogni tipo di compromesso.
“Watchmen” è fumetto denso, e non mi riferisco solo al materiale extra aggiunto al fondo di ogni capitolo, che serve ad approfondire il mondo creato da Moore (come i capitoli della finta biografia di Hollis Mason, il primo Gufo Notturno, intitolata “Sotto la Maschera”). No, intendo proprio che di solito, sono uno di quelli che pensa che quelli bravi a fare qualcosa, il più delle volte hanno la capacità di far sembrare semplicissimo ciò che fanno. Moore no, lui sforna una storia che fila alla perfezione come gli ingranaggi di un Rolex, ma non ci pensa nemmeno a farti credere, nemmeno per un secondo, che scrivere qualcosa di questa portata sia facile. Te ne accorgi ogni volta che rileggi “Watchmen” – io lo faccio a cadenza abbastanza regolare – e scovi una nuova chiave di lettura, oppure un dettaglio che non avevi mai notato prima.
Scrivendo di Moore dovrebbe essere obbligatorio citare il suo nemico-amico, Grant Morrison l’ammiratore ignorato, che sostiene che “Watchmen” non è altro che un enorme «Sono bravo! Guardatemi!». In tal senso l’arco narrativo dello psicologo di Rorschach potrebbe sembrare materiale a supporto di questa tesi, eppure ancora oggi ci sono fumetti che utilizzano le trovate che “Watchmen” ha contribuito a rendere canoniche. Quindi se ogni tanto Alan Moore “se la tira” dicendo che nessuno nel mondo del fumetto è ancora riuscito a fare meglio di lui, anche se sembra più arrogante di Ozymandias, beh difficile non dargli ragione.
Orologi, ingranaggi, sto continuando ad usare un po’ lo stesso concetto perché è una delle metafore più azzeccate di “Watchmen”, ed è anche quella, che secondo me rappresenta meglio l’opera. Si perché “Watchmen” nasce dalla volontà di arrivare fino al dettaglio, smontando l’orologio dei fumetti di super eroi, lasciando in bella vista sul tavolo tutti gli ingranaggi, come a voler svelare il trucco che si cela dietro ad una magia, salvo poi rimontare il tutto, con una consapevolezza nuova ed un nuovo punto di vista.
Questa ossessione per il dettaglio è ovunque, dalla copertina che poi è anche la prima vignetta del fumetto, una visione quasi al microscopio di uno “Smile”, che Moore idealmente strappa dai jeans di una generazione di figli dei fiori solo per gettarlo in una strada lurida, proprio come accade al Comico nella prima – cinematografica – pagina del fumetto. Il sorrisone giallo è quello che da decenni tutti noi associamo a simbolo di totale innocenza, sporcarlo di sangue denota la volontà di cancellare quell’innocenza, che poi è quello che fa Moore alle super calzamaglie.
Questo “Moby Dick dei supereroi” come è stato definito nel corso degli anni, è un’opera nichilista, rivoluzionaria e fermamente intenzionate a decostruire, e anche se risulta altamente stratificata e piena di chiavi di lettura di secondo – terzo e quarto – livello, di fatto è una trama che poggia sostanzialmente su un MacGuffin, un’indagine con conseguenze enormi, che non è la parte più interessante della storia, tanto che il finale, lo stesso Moore non ha fatto fatica ad ammettere, ricorda molto l’episodio “The Architects of Fear” della serie televisiva “The Outer Limits”, che non a caso viene menzionata come omaggio nel fumetto.
No, la parte migliore di “Watchmen” è il modo in cui la storia è stata raccontata, un sovraccarico espositivo che non può lasciare indifferenti, ecco perché quando qualcuno critica il fatto che una delle svolte chiave, sia la password di un computer facilissima da indovinare, faccio spallucce, non solo perché è chiaramente un indizio lasciato in bella vista, da un mandate che si abbassa ad aiutare i suoi indegni inseguitori, ma anche perché sono le dinamiche che “Watchmen” smonta con il cacciavite a tenere banco, come il monologo del super criminale, giusto per fare un esempio. Ecco perché uno non dovrebbe MAI iniziare a leggere fumetti di super eroi partendo dal fumetto di Moore e Gibbons, ma anche perché quando torni a farlo dopo “Watchmen”, lo fai con occhi nuovi.
Come detto ci sono molteplici chiavi di lettura in Watchmen, la differenza tra gli avventurieri in costume, resi obsoleti dall’unico vero super umano dotati di poter, ovvero il Dottor Manhattan, riecheggia il modo in cui i nuovi fumetti abbiano soppiantato quelli più naif della “Golden Age”, ma ogni personaggio meriterebbe un’analisi più lunga di un romanzo, oppure delle sceneggiature che Moore forniva a quel monaco benedettino, che risponde al nome di Dave Gibbons.
Si perché solamente il rigore e il talento di un ex geometra come Gibbons, poteva rendere al meglio la grandezza di un’opera che vive in parti uguali del genio nella prosa di Moore, ma anche – se non forse di più – del lavoro certosino di Gibbons, che su un’ossessiva griglia di nove vignette per pagina (mantenuta per TUTTE le pagine, tranne una clamorosa “Splash page” ad effetto) fa del rigore e della simmetria una crociata.
Quando uno dei tuoi personaggi, è un vigilante che va in giro a spezzare le dita per ottenere informazioni, e che urla “frasi maschie” degne dei migliori eroi d’azione («Non sono io rinchiuso qui con voi, siete voi rinchiusi qui con me») e che si fa chiamare Rorschach, la simmetria al centro del celebre test diventa quasi un valore. Ci sono intere pagine di “Watchmen” in cui se prendete le diciotto vignette che compongono due pagine consecutive, troverete alcune di queste opposte e speculari, in un’opera di inflessibilità grafica che fa sembrare Rorschach un mollaccione. Aggiungete poi che ogni vignetta è piena di informazioni sull’ucronia in cui si muovono i personaggi (un 1985 dove si utilizzano piccole auto elettriche ad esempio), bisogna togliersi solo il cappello avanti al lavoro meticoloso di Dave Gibbons.
A livello narrativo poi Moore, domina il media fumetto a suo piacimento, in un mondo dove i super eroi esistono, evidentemente nessuno è interessato a leggere fumetti di tizi in calzamaglia, ecco perché il ragazzino che passa le giornata all’edicola, legge una storia di pirati intitolata “I Racconti del Vascello Nero”, che oltre ad essere un omaggio al fumettista Joe Orlando, è una vera e propria storia-nella-storia che fa da “Coro greco” ai personaggi, scandendo il tempo della narrazione, mentre ricalca – e in qualche caso anticipa – gli eventi della storia principale. Insomma Alan Moore al suo meglio!
I protagonisti poi, presi singolarmente non fanno che smontare l’orologio dei super eroi, Moore e Gibbons riescono a renderli completamente umani, su alcuni di loro non posso nemmeno soffermarmi per non rovinare la lettura a chi ancora non conoscesse questo capolavoro, ma sono talmente pieni di spunti che ognuno meriterebbe un post dedicato, se non proprio un saggio.
Come ad esempio la madre di Spettro di seta, una donna bellissima che malgrado sia considerata “Super” da tutti, un po’ per formazione, ambiente e pensiero comune, non ha mai abbandonato la vecchia mentalità per cui ai complimenti e le attenzioni – anche quelle più morbose e violente – bisogna rispondere con un bel sorriso. Di certo non un comportamento “Super”, che denota invece molta fragilità, e se penso a certe polemiche moderne, sull’utilizzo dei personaggi femminili nelle storie immaginarie, viene da tirare il fiato che “Watchmen” sia uscito nel 1986 e non oggi.
Come scrivevo da qualche parte lassù, Rorschach e il Gufo Notturno, sono due facce delle stessa Bat-medaglia, il secondo in particolare è un bambinone innamorato del fascino dei super eroi vecchia maniera, uno sconfitto che vive di ricordi dei bei tempi in cui poteva giocare a fare l’eroe. Talmente bloccato nella sua condizione, da non riuscire a fare nulla di davvero adulto, tipo corteggiare (o fare sesso) con una donna, senza prima indossare maschera e mantello. Che non è proprio quello che si intende quando si parla di indossare protezioni, ecco.
Ovviamente tra questa banda di casi clinici che Moore mette sotto la lente d’ingrandimento da orologiaio, a spiccare sono quelli più coloriti. A volte penso che se nella realtà esistesse qualcuno così matto da fare il vigilante mascherato, probabilmente sarebbe identico a Rorschach, magari non avrebbe una maschera (o come la chiama lui, la sua “faccia”) che cambia forma come le macchie dell’omonimo test, però credo che molti tratti del personaggio lo rendano sinistramente realistico. Se dedichi la tua vita a combattere la criminalità per le strade, molto probabilmente non avrai proprio tutte le rotelle al posto giusto, mangeresti solo per aver la forza per combattere e sfuggire dalla polizia, e di certo l’igiene personale (e mentale) diventerebbe l’ultimo dei suoi problemi. Il fatto che Rorschach sia a tutti gli effetti sgradevole, ma anche affascinante, ricorda a tutti che il “nero”, la parte oscura, ha sempre più attrattiva rispetto al “bianco”. Bisogna capire cosa uno ci vede dentro quel nero, proprio come nel test di Rorschach.
Il Dottor Manhattan con il simbolo dell’Idrogeno sulla fronte (qualcosa che lui rispetta, a differenza di beh, noi umani), la pelle blu e il fatto che progressivamente nel corso della storia si allontani sempre più da usi, costumi e soprattutto vestiti umani, è l’analisi di Moore al super uomo, forse una delle più lucide rappresentazione di come sarebbe essere davvero omniscienti e onnipotenti. Tentare di controllare un personaggio che incarna il timore e la potenza per l’energia nucleare è quasi impossibile, fanno tenerezza gli americani nella storia, convinti che Dio sia americano, che differenza può fare per un essere onnipotente in grado di vedere passato, presente e futuro nello stesso momento, se a governare sono le formiche nere oppure le formiche rosse?
Se Rorschach rappresenta l’ossessione per la simmetria di “Watchmen”, proprio il buon dottore è il personaggio che mette in chiaro perché questa storia poteva essere raccontata solo a fumetti (veeeeeero Zack Snyder?). Il Dottor Manhattan percepisce il tempo diversamente dagli umani, per lui futuro, presente e passato sono contemporanei, momenti fermi nel tempo come fotografie abbandonate sul suolo Marziano, leggere “Watchmen” ci permette di capire come ragiona un essere di tale potenza, e in qualche modo di “vedere” quello che vede lui. Perché le vignette dei fumetti sono immagini ferme che creano un’illusione di movimento, determinata dal modo in cui il lettore sposta lo sguardo da una all’altra durante la lettura, ma comunque restano immagini immobili, eternamente bloccate nel tempo, consultabili anche separatamente volendo: per il Dottor Manhattan il tempo è un fumetto, e a scorrere le pagine sono le sue mani blu.
Sono quasi arrivato alla fine del post e ci sarebbero ancora un milione di cose da scrivere su “Watchmen”, penso che potrei rileggerlo un milione di volte questo fumetto, e provare a commentarlo altrettante volte, e comunque sentirei di non aver detto tutto. Anche perché un’opera di tale portata funziona solo a pieno, tra le pagine per cui è stata pensata, aveva ragione Terry Gilliam che quando a metà degli anni ’90 ebbe l’occasione per adattare “Watchmen” per il grande schermo, arrivò a definire tutto “Infilmabile” (storia vera), anche se continuo a pensare che sarebbe stato un gran film.
Il modo migliore per apprezzare “Watchmen” e perdersi nella sua ossessiva simmetria, nei rimandi alla cultura alta e bassa che mescolano Bob Dylan e William Blake, il fumetto popolare e le massime di Giovenale («Quis custodiet ipsos custodes?» letteralmente, chi sorveglierà i sorveglianti stessi?) perché a provare a scriverne sul serio, si rischia di fare la fine dello psicologo di Rorschach. Se solo l’avessi saputo, invece del blogger avrei fatto l’orologiaio.
Sepolto in precedenza mercoledì 5 giugno 2019
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing