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West Side Story (2021): New York City Serenade

Caro zio Steven, mi hai alzato un pallone bello alto questa volta. Non importa, andiamo a schiacciarlo a canestro lo stesso. Musical. Ahh il mio grande tallone da Killer (si dice così no?), un tempo vi avrei risposto di getto che io i musical non li sopporto e avrei risposto male, perché non ho mai ben capito la fobia generale di molta parte di pubblico che considera questo genere più o meno come la peste o giù di lì. Certo, non sono il più grande fanatico dei film in cui ad un certo punto i personaggi mollano tutto per mettersi a cantare, spesso questa trovata mi tira proprio fuori dalla storia, sospendendomi di colpo l’incredulità necessaria per guardare qualunque titolo, non per forza solo quelli canterini.

Finché la parte musicale è gestita con ironia, non ho nessuno problema, i personaggi possono anche cantare per tre ore, ma in alternativa l’unico modo per catturare la mia attenzione è giocarsi una storia in grado di inchiodarmi allo schermo, motivo per cui ho una repulsione manifesta per roba tipo “Frozen” (2013) o La La Land, ma se mi fai vedere “Hair” (1979) avrai la mia completa attenzione. Mi dispiace essere così soggettivo, ma è un limite da cinefilo con cui sto ancora facendo i conti, anche perché a differenza dei film musicali (come potrebbe essere che so, The Blues Brothers) in un musical non puoi semplicemente saltare le canzoni, perché sono parte integrante della storia che portano avanti la narrazione, come nei film d’azione le sparatorie o gli inseguimenti, tutto questo per dire che se uno dei registi che stimo di più al mondo, decide di fare un musical io mi ritrovo in una posizione abbastanza complicata, non importa, come faccio sempre in questi casi: mi metto a fare i compiti.

«Arriva il bandito, un tipo tremendo che sa quel che vuole» (cit.)
Lo sapete tutti che “West Side Story” è un musical con libretto di Arthur Laurents, parole di Stephen Sondheim e musiche di Leonard Bernstein, liberamente tratto dalla tragedia di Romeo e Giulietta del Bardo William Shakespeare, il cui adattamento cinematografico più famoso fino a questo momento resta il classico diretto da Jerome Robbins e Robert Wise nel 1961, che più o meno sta al genere musical come Trappola di cristallo a quello action.

Degli Oscar guadagnati dal film non mi interessa nemmeno di scriverne, mi sta più a cuore sottolineare come il “West Side Story” del 1961 fosse un film nato già classico, che per certi versi ha rappresentato gli ultimi fuochi dell’impero di quella Hollywood che di lì a poco sarebbe, non dico stata spazzata via, ma per lo meno rivoltata come un calzino dai registi della New Hollywood, una banda di autori di cui pensate un po’, faceva parte anche il nostro zio Steven Spielberg.

Che sfida mi hai messo davanti zio Steven, ma giochiamo con le tue regole, ci sto!
Anche qui, non credo di raccontarvi niente di nuovo dicendovi che i film che hanno influenzato pesantemente la carriera e il destino di Spielberg (e con lui, quello del cinema, perché il ragazzo in linea di massima “sposta”) sono stati Lawrence d’Arabia e “West Side Story” (1961) in quest’ordine, che non è quello di uscita ma di livello di importanza nel cuoricino di Spielberg. Quindi bisogna approcciarsi al suo “West Side Story” in questo modo, o almeno è come ho deciso di farlo io che messo davanti ad un musical sono sereno e rilassato come uno che deve camminare (o ballare) sulle uova.

Quando dico che ho fatto i compiti, intendo proprio dire che ho fatto i compiti andando a rivedere anche il film del 1961, che avevo visto una sola volta in tv da bambino, quindi chi sostiene che Spielberg abbia semplicemente preso il film di Jerome Robbins e Robert Wise e lo abbia “sporcato” con scenografia più realistiche, per cercare di aggiornarlo un po’ al 2021 (sua data di uscita anche nelle nostre bistrattate sale), forse fa un’analisi un po’ frettolosa del lavoro di Spielberg.

Tracce del passaggio di Billy Shakespeare.
In realtà zio Steven ha deciso di ripristinare l’ordine di alcune canzoni per come venivano presentate nel musical originale, piuttosto che nel film che mi viene da etichettare di Wise, solo perché alcuni trascorsi di fantascienza del regista me lo fanno sentire più vicino, sto camminando sulle uova e sono in cerca di appigli per non volare di faccia. Infatti anche Spielberg si gioca “Gee officer Krupke” prima e non verso il finale, ma questo solo perché sia Spielberg che Wise, ragionando come uomini di cinema, hanno capito che quel pezzo stava meglio in quella parte di pellicola, prima della naturale flessione del secondo atto di “West Side Story”, che si avverte anche qui perché, ehi! Non mi sembra che “Romeo e Giulietta” di Shakespeare finisse proprio a pacche sulle spalle e giri di birra offerti.

Detto questo, l’omaggio di Spielberg al film del 1961 si completa affidando alla Anita del film di Wise (Rita Moreno) la parte di Valentina nella sua versione, che per certi versi non è una semplice strizzata d’occhio, ma quasi una chiusura del cerchio oltre che un omaggio all’attrice.

O muori da Anita o vivi abbastanza a lungo da diventare Valentina (quasi-cit.)
Da qui in poi mi dispiace, si entra nell’impero dei sensi della soggettività più spinta, perché da non appassionato di musical la prima cosa che mi ha colpito di “West Side Story” è il suo avere più parti recitate di quello che mi sarei aspettato, giusto per fare un termine di paragone a stretto giro, non siamo di fronte al bombardamento di canzoni di titoli come “Encanto”, il che per me è anche un fattore non da poco come potete intuire.

Nel mio appellarmi ai precedenti mi rendo conto che non solo la guerra lungo le strade della Manhattan degli anni ’50 tra le gang rivali dei Jets, composta da immigrati europei di seconda generazione e gli Sharks, perlopiù portoricani, non è solo il modo utilizzato da Spielberg per parlare dell’America (e quindi del mondo occidentale) di oggi, sottolineando allo stesso tempo quando una storia “eterna” come questo musical sia ancora al passo con i tempi, ma più che altro da appassionato più del cinema di Spielberg che dei film canterini, è chiaro che il nostro qui stia davvero realizzando un suo sogno cinematografico che si è sempre portato dentro, per certi versi come il Silence di Martin Scorsese.

Non ho mai nascosto la mia insana passione per 1941 – Allarme da Hollywood, il più bistrattato tra i capolavori di Spielberg, che in una delle sue scene più rutilanti, si giocava proprio un numero di ballo che altro non era che una rissa tra diverse fazioni, messa giù con musica e balli (e ironia), perché che sia una scena di lotta o un numero danzereccio, le regole sono sempre le stesse: ci vuole una grande coreografia ben studiata, interpreti in grado di eseguirla al meglio anche forti della loro preparazione e una regia in grado di valorizzare tutto al meglio. Se rispetti questi tre regole, il risultato finale è una bella scena, che sia una rissa con pugni e calci o un ballo con canzoni poco importa, ed è questo il motivo per cui il “West Side Story” di Spielberg è un gran film, inutile girarci attorno.

Ora continuate a dirmi che 1941 non è uno dei film più importanti di Spielberg, eh?
Nei 156 minuti del film, non c’è stato un solo momento in cui non mi sono ritrovato a pensare che tutto quello che mi passava davanti agli occhi, non fosse diretto, coreografato o interpretato alla grande, quindi spogliato delle canzoni, della trama che è un archetipo perché è quella che aveva scritto Shakespeare, “West Side Story” resta un esempio di grande cinema, in cui la regia di Steven Spielberg è l’ennesima conferma che questo giovanotto classe 1946 resta uno dei più fulgidi talenti in circolazione, se la gioca con un altro paio di nomi per il titolo di più grande regista vivente, oggi come oggi.

Difetti? A parte la sfida enorme per me di affrontare 156 minuti di un musical? Forse il fatto che in molti momenti la fotografia impeccabile di Janusz Kamiński conceda tutto quell’uso di luci sparate (quasi al limite del lens flare spinto), tanto da rendere tutto un po’ troppo laccato in certi momenti, eppure è innegabile che anche alcuni interni, risultino sospesi nel tempo proprio grazie alla cura di Kamiński, forse allora potrei dire che mi è mancato un po’ di trasporto nella prova di Ansel Elgort, ma probabilmente perché lo trovo più adatto a ruoli dove il suo personaggio cerca di mantenere un certo grado di distacco.

Ragazzi ho detto distacco, un po’ di distanziamento sociale, forza.
Penso sempre che i film vadano giudicati secondo parametri oggettivi, là fuori su “Infernet” è pieno di persone che spacciano pareri soggettivi come verità assolute. Non posso dire di essermi fatto travolgere da questo tragica storia d’amore, trovo ancora più facile immedesimarmi nella protesta antimilitarista dei protagonisti di “Hair”, ma mentre guardavo il film mi è arrivata un’illuminazione che mi ha fatto pensare: «Ti ho capito Spielberg, io ti vedo» come dicevano i Na’Vi di Avatar.

Questa è la New York City Serenade di Steven Spielberg, la storia del ragazzo per le strade della Grande Mela che zio Steven voleva raccontare da tutta la vita, perché senza la quale non sarebbe mai diventato un regista e la più impeccabile macchina da cinema in circolazione su questo gnocco minerale che ruota attorno al sole. Le tue preghiere Steven non sono cadute sopra un cuore di pietra (credo di aver fatto una cit. involontaria), io l’ho riconosco l’amore quando lo vedo, specialmente quando è un grande uomo di cinema che non ha ancora smesso di parlarci del suo amore per la settima arte, probabilmente continuerà a giudicare molti musical più di testa che di pancia però io ti ho capito Spielberg, il mio cuore è con te.

It’s midnight in Manhattan
this is no time to get cute
It’s a mad dog’s promenade
so walk tall or baby don’t walk at all

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