Uscito nel 2014, potendo contare sul talento e il nome di Reese Witherspoon, “Wild” è stato ed è tuttora uno dei pochi racconti di formazione al femminile che si sia visto al cinema, almeno nel nuovo millennio. Peccato che tra i riferimenti culturali femminili al cinema (mi metto un parruccone biondo per supporre quali possano/debbano essere) una Captain Marvel abbia tutta la risonanza mediatica che un “Wild” non avrà mai, nemmeno ai tempi del #metoo. È un film da riscoprire perché il suo impatto culturale mi è sembrato flebile. Nonostante sia ben più di un “Into the wild” al femminile, non gode della stessa fama, nonostante sappia raccontarci tutta l’autenticità del viaggio. Le inquadrature non puntano con insistenza ai meravigliosi scenari come nel film di Penn, si concentrano più sulla protagonista, la sua stanchezza più della sua meraviglia, e il bisogno – sia fisico che mentale – di andare avanti per scrollarsi di dosso il passato, e riappacificarsi con esso.
Dare un calcio al passato: metodo Reese Withespoon (e Cheryl Strayed) |
“Wild” racconta la storia (vera) di Cheryl Strayed, che dopo un lutto e un divorzio, e mentre cerca di uscire dalla dipendenza dall’eroina, senza alcuna esperienza di escursionismo decide di intraprendere il cammino della Pacific Crest Trail, un percorso lungo 4.000 fottuti chilometri (escono dalle montagne, i chilometri escono dalle fottute montagne!). Una roba da far impallidire quattro volte e mezzo il Cammino di Santiago di Compostela, e tre volte il Cammino delle Torri della Sardegna. Se poi la vostra idea di escursionismo è arrampicarvi fuori dalla poltrona per raggiungere il frigorifero con seri interrogativi sul ritorno sani e salvi al dolce abbraccio del cuscino ai vostri glutei, capirete che l’impresa non è mica da ridere. E Cheryl non è un’idealista né una sognatrice, affronta il viaggio spinta dalla sola volontà, col preciso scopo di sfidare se stessa, donna fallibile ma non fallita.
Nonostante non manchino i passaggi buonisti, questi appaiono molto più credibili rispetto a Into the wild, grazie all’approccio di Jean-Marc Vallée che guarda sempre i suoi protagonisti da vicino e senza nasconderne contraddizioni e debolezze, mirando al modo in cui affrontano le difficoltà, quasi più del modo in cui le superano o le accettano: l’omosessualità in “C.R.A.Z.Y.” e l’Aids in “Dallas Buyers Club”, la dipendenza e l’elaborazione del lutto in “Wild” e poi in “Demolition”.
«Cammina, cammina, quante scarpe consumate – Quante strade colorate, cammina, cammina» Augusto Daolio, e Cheryl Strayed |
Questo film mi ha conquistato subito con una scena semplicissima: Cheryl sofferente coi piedi sanguinanti perché indossa gli scarponi sbagliati. Avete mai provato a fare anche solo 10 chilometri con le scarpe sbagliate? Magari d’estate, andando su e giù per sentieri di montagna. Mai sentite quelle fottute vesciche sotto i piedi che vi fanno desiderare una morte rapida, mentre vi tocca ancora il viaggio di ritorno, magari zoppicando a lungo prima di riabbracciare un paio di pantofole. Già qui, a meno di un minuto dall’inizio che “Wild” ha già tirato un cazzotto, un uppercut degno di una finale dei pesi welter al suo gemello più famoso “Into the wild”. Chi l’ha mai visto il buon Alexander Supertramp soffrire per le vesciche ai piedi? Realismo 1 – Didascalismo 0.
La prova della Witherspoon è molto fisica, lei così esile, le ginocchia magre, lo zaino troppo pesante che rende un’impresa ogni scollinamento, danno l’idea del viaggio come vera sfida e non un’allegra scampagnata per le terre selvagge.
Il passato è il fardello più pesante. Beh, quasi… |
“Wild” è una storia intimista in cui niente viene spettacolarizzato, tutto è ridotto ai termini dell’esperienza umana. È lo scavo costante nelle memorie mentre le avversità del percorso si fondono con i problemi umani dentro e fuori dalla società: la diffidenza verso tutte le persone che Cheryl incontra lungo il viaggio, ci dà la dimensione di quello che può aver significato un viaggio simile per una donna, tra la paura di uno stupro e l’altro. Un concetto semplice, ma una preoccupazione a cui un uomo non deve mai calcolare, almeno finché non piscia sui mocassini di uno sbirro texano e viene spedito alle patrie galere. Perciò tanto di cappello a questa parabola al femminile, che non ci prova nemmeno ad essere manifesto di liberazione sessuale, anche perché Cheryl non è certo un’icona d’innocenza. Niente progressismo spicciolo, ma tanti sguardi lucidi e spesso amari che rimbalzano dalla protagonista alla madre, per un ritratto che finisce per abbracciare un po’ tutte le sfaccettature della vita al femminile: “non sono mai stata me stessa, solo una madre e una moglie” (tratto dal manuale su come riassumere una condizione secolare, edito da Laura Dern, e Cheryl Strayed).
«Sono una donna pronta a tutto… ma non in quel senso!» |
Il finale dà soddisfazione nel suo non essere celebrativo, quasi anticlimatico come spesso nei film di Vallée, perché il percorso di Cheryl non mira all’esaltazione dell’impresa quanto alla consapevolezza della resistenza, perché sarà pure vero che “la felicità è reale solo se condivisa”, ma “la vera sfida, è vivere”.
rest” Bruce Springsteen, e Cheryl Strayed.